LA “GRANDEZZA” DI GIOVANNI CAMPUS IN MOSTRA TRA MILANO E GALLARATE: DAL PASSATO AL FUTURO TRA SPAZIO E TEMPO, MEMORIA E PROGETTO

Giovanni Campus con Sergio Portas
di SERGIO PORTAS

Di questa ultima mostra di Giovanni Campus ne ho visto solo la metà. E di questo getto la colpa sugli organizzatori: l’hanno pensata infatti parte allo spazio “Building” di Milano, occupando con le opere esposte tutti i suoi quattro piani, e il resto all’open space del MA*Ga, il museo d’arte moderna di Gallarate che, tanto per darvi un’idea, è già profonda provincia di Varese (poco più che sessanta chilometri in linea d’aria in verità). Un po’ per celia mi verrebbe da dire che Campus è artista talmente “grande” che lo spazio espositivo che gli occorre per una mostra a titolo: “Tempo in processo. Rapporti, misure, connessioni (45° 28′ 12.985” N, 9° 11′ 30.465” E)” non può che essere dimensionato in strutture le più ampie possibili, se non altro per smentire quelle coordinate di latitudine e longitudine così precise da rimandare l’inizio del tutto a un punto assolutamente determinato della terra. Non sono molto bravo nell’uso di “Google Map” ma il cuore mi suggerisce di ricercare quel punto nei pressi di Olbia, dove Giovanni Campus è nato nel 1929. Sebbene abbia lasciato la sua città vent’anni più tardi, prima gli studi liceali a Genova, poi quelli d’arte a Livorno, e poi Milano, mi sono imbattuto per la prima volta in Giovanni Campus agli inizi degli anni ’80: tempo in processo…direte voi. Era estate ed ero al golfo di Marinella, uno di quei posti di Gallura che ti fanno pensare al paradiso, con il colore del suo mare di cristallo da cui spuntano graniti modellati dal maestrale che fanno la parodia ad animali più impensati (Capo d’Orso è da quelle parti), sul tratto di mare prospiciente i bungalow del villaggio turistico si nuotava attorniati da queste presenze di pietra, ebbene quel giorno d’estate uno strano tipo di bagnante attirò la mia attenzione: si aggirava per la cala, l’acqua del mare all’altezza della vita, brandendo una macchina fotografica con cui immortalava uno scoglio via l’altro. L’ho ricordato a Giovanni in occasione di questa mostra ma lui non ne aveva memoria anche se, spulciando dalla sua biografia “Dall’Archivio Giovanni Campus”, su internet: “…Tra le installazioni e gli ambienti realizzati individualmente vanno citati quelli del 1987 nella piazzetta di Palazzo Reale a Milano, della Galleria Comunale d’arte di Bologna nel 1978, del Museo Civico in Progress di Livorno nel 1979 e gli interventi-percorso del 1983  sulle coste della Gallura(!!!), gli interventi comparativi all’interno del complesso nuragico Genna Maria nel 1993…”. E qui termino lo sterminato elenco di mostre e “performance” che ha costellato la vita di questo artista ( i primi premi datano agli inizi degli anni sessanta) che non avrei spazio sufficiente per elencarle tutte. In occasione della sua “antologica” al museo Piaggio di Pontedera nel 2014 (cinquant’anni di attività) si parla di lui come una figura tra le più singolari e autonome nel campo della scultura italiana: “…le sue “Determinazioni”-tratti di corda che definiscono le rocce di Gallura, realizzate nel 1983, costituiscono uno degli esempi più importanti di Land Art  italiana e non solo. Come gli ha scritto Marco Meneguzzo (che di questa mostra era stato curatore)in una lettera datata 2009: “Il compito che ti sei dato, o se vuoi il compito che le tue opere hanno scelto per te, visto il senso di necessità che promana da ciascuna di esse e da tutto l’insieme della tua attività, è quello di percorrere in lungo e il largo questo territorio che tutti credono di conoscere, per continuare a definire quegli interstizi inesplorati che esistono anche nelle città più conosciute: se si pensa che lo spazio sia dato una volta per tutte, e già ci si sbaglia ma solo nel lungo periodo, al contrario il senso dello spazio muta continuamente, pur non uscendo mai dai confini conosciuti. Ecco allora che  la geometria diventa qualcosa di più personale e di tutt’altro che universale: è la geometria quella che ti appartiene quella che ti interessa, quella che percepisci, addirittura quella che ami…”. E’ il destino degli artisti quello di venir definiti, giudicati, dallo sguardo degli altri. Da qui la loro suprema indifferenza per ogni critica, il loro stupore per quanto possano vedere gli altri all’interno delle loro opere. La mostra del “Building” parte da un intervento del piano terra che vede in relazione di continuità alcuni lavori degli ultimi anni settanta con altri degli anni recenti. Su grandi pareti bianche spesso è solo un quadro-pannello, irregolare, bianco esso stesso, o nero intenso, traversato da materiali che lo tranciano o lo determinano, sghembi per lo più, irregolari comunque. Al primo piano l’accento cade sul rapporto tra forma aperta e chiusa, accentuando il senso di un dialogo tra bidimensionalità e tridimensionalità, sempre a partire da alcuni pezzi di recente realizzazione. Il secondo piano presenta lavori in cemento degli anni ottanta. Infine al terzo ha il suo fulcro nella ripresentazione di alcuni lavori in metacrilato, eseguiti negli anni settanta e rarissimamente esposti in seguito. Dirà Emma Zanella direttrice del MA*GA di Gallarate (il mercoledì 2 ottobre in una apposita conferenza stampa) : “Quattro livelli-quattro ambienti- tutti parlanti del modo in cui opera la progettualità di un artista. Già nel 2002 il MA*GA aveva avuto Campus in una mostra antologica curata da Luciano Caramel, questa è una seconda puntata. E anche per questa ha lavorato col suo metodo rigoroso. Molti i sopralluoghi. Con una progettualità che nasce sulla carta, il 27 dicembre era da noi con i suoi disegni sottobraccio. Lavorare con lui è una bellezza. Incredibile la sua capacità di ascolto”. Sandro Parmiggiani, critico d’arte, collaboratore di quotidiani e riviste dice di aver colto la radice del lavoro di Giovanni nelle esperienze minimaliste: “una frase che mi disse e che non dimentico: nel mio lavoro ho sempre cercato di capire me stesso. Il lavoro artistico come indagine sull’interiorità. E’, continua, in qualche modo un artista scienziato. Per cui sono molto importanti le misurazioni, la definizione degli spazi. Una sorta di rivisitazione della prospettiva quattrocentesca. Un po’ come aveva fatto il cubismo.Spazio e tempo sono associati e non c’è modo di separarli. Idea che innerva tutto il lavoro di Campus. Per meglio comprenderlo ottimo è l’ultimo libro di Claudio Magris: Tempo curvo a Krems (Garzanti, aprile 2010. ndr.)”. Tocca poi a Silvana Borutti, cattedra di filosofia teoretica a Pavia dire dell’opera di Campus: “ Giovanni è persona riflessiva e inquieta, che fa una continua opera di ricerca, per lui l’opera è una durata. I suoi lavori sono apparizioni che si vanno costruendo da un fondo dinamico di progettualità. Con una manualità della visione che attraversa e incorpora la materia. In lui c’è l’azione che dura nel presente e che apre al passato. Basta scorrere i titoli delle sue opere: ritmi, rapporti, connessioni, misure, nulla a che fare con l’astrazione. Alla maniera in cui Wittengstain parla del “vedere come” che collega elementi, un vedere potenziato che fa emergere la forma-immagine, con carattere inaspettato non teleologico (senza un fine, uno scopo)”.  Francesco Tedeschi, professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea nella facoltà di lettere e filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (con attività di storico e critico d’arte, cura la progettazione e la realizzazione di mostre, questa di Campus è opera sua, collabora con testate specializzate): “Giovanni è un maestro, nel senso che quello che fa è maieutico, spinge a altre domande. Questa sua è una mostra rarefatta, piena di bianchi e neri, solo un rosso che è al museo di Gallarate. Abbiamo cercato di creare un percorso logico, ricco di interrogativi. I singoli pezzi si rimandano l’uno con l’altro. Nella ricerca di correlare due concetti che convivono: progetto (futuro) e memoria (passato). Realizzazione che passa tra la forma e i colori. Non è da credere che siamo stati tutte due sempre d’accordo, io ad esempio tendo a leggere la sua opera in termini di spazio. E qui entra in scena Carlo Pirovano, storico dell’arte, già insegnante alla Cattolica di Milano e alla Carrara di Bergamo, responsabile scientifico della casa editrice Electa: “ Cancello le interpretazioni che finora ho sentito. Campus è uno scultore oppure no? Gli elementi che lui tratta, spazio e materia, sebbene tendenzialmente coordinati spesso si distruggono fra loro. Per Campus quello determinante è proprio lo spazio che, se negato come nelle sue opere, ci pone di fronte a termini quali scultura e prospettiva, a noi cercare di capire come l’artista volge questo suo compito di investigazione, di lettura dello spazio. E in ciò quello che conta di più è forse il vuoto, piuttosto che il pieno. Assistiamo, a mio parere, a una vera negazione del pieno, con qualsiasi materiale. Una geometria che conquista uno spazio e intravvede un vuoto. Costruire qualcosa di concreto partendo da una negazione”. In tutto questo parlare di lui Giovanni Campus mantiene un’espressione seria e composta, non gli sfugge un sorriso, e quando viene sollecitato ad intervenire esordisce così: “ Si suppone che io sia un parlatore, cosa che non è, nel mio tentativo di lavoro da ogni opera mi aspetto una risposta. Cosa vuol dire nella pratica dell’arte: è una disciplina di vita, tende a celare il travaglio umano, l’eterna domanda di chi siamo e che cosa facciamo in questo mondo. Attraverso il lavoro si sviluppa la teoria. Ogni lavoro è un tentativo e io vivo di tentativi. Non credo di essere uno scultore. Ma di avere la capacità di trasmettere questo tentativo. La tensione temporale è una sfera illuminata che ci fa percepire le cose del modo. Mondo come fenomeno, come organismo vivente. Ogni frammento di opera rappresenta tutto il lavoro. Il linguaggio come analisi, ricercando un dato poetico di sogno”. Qui c’è pieno di sardi illustri: Raffaele Piroddi scrittore dorgalesu, poi Stefano Soddu scultore di Cagliari, Luciano Muscu anche lui scultore di Isili, tutti a rendere omaggio all’artista di Olbia, una vita (lunga) tutta dedicata all’arte. Per tutti loro Giovanni Campus scioglie il viso nel sorriso, tralascia per un attimo di indossare la maschera che gli è solita: quella scolpita dal maestrale di un saggio, antico, sacerdote nuragico, capace di stupirsi ogni giorno per essere qui a Milano, pieno dei ricordi dei graniti di Gallura.

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2 commenti

  1. Ottimo articolo. Conosco lo scultore Soddu e porto i miei saluti al maestro Campus. Abbiamo un museo Maclula di arte contemporanea a Lula e ci piacerebbe contattarlo. Ha un numero di tel. ? Grazie in anticipo
    Domenico e Mariolina

  2. Per Sergio Portas
    Grazie

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