VISITAI QUELLA FABBRICA ED ERO CERTA CHE CE L’AVREMMO FATTA TUTTI: L’ALCOA MUORE. E ANCHE NOI NON STIAMO TANTO BENE

nella foto l'autrice dell'articolo, direttore di cagliari.globalist.it


di Claudia Sarritzu *

La prima fabbrica che ho visitato nella mia vita è stata proprio Alcoa, avevo 23 anni ed ero certa che ce l’avremmo fatta tutti. Loro e anche io che avevo gli occhi pazzi di sogni. La crisi la percepivo come una occasione. Un momento difficile che sarebbe servito alla mia generazione per capire il valore delle cose che possedeva.

Invece la consapevolezza della sconfitta mi ha cambiata, mese per mese, anno per anno, così sono invecchiata, capendo che avrei perso. Ecco diventi grande quando sai che perderai, anche tu, come i tuoi genitori, i tuoi nonni, i tuoi bisnonni. Ma quella sera avevo ancora tutta la vita davanti, era novembre e nel ventre dello stabilimento più importante del Sulcis la crisi era diventata tangibile. Una cosa concreta che tocchi con mano. Non era più uno sproloquio di un telegiornale, era un padre di famiglia senza stipendio, un giovane senza futuro. Era lì a 5 cm dal mio registratore. Faceva paura ma non troppo. Era il 2009, non pensavamo sarebbe durata per sempre.

Sono entrata dentro Alcoa che faceva buio e anche un po’ di freddo, ho piagnucolato all’ingresso con dei giovani operai. Ho raccontato che se non mi avessero fatto entrare non avrei potuto portare il servizio in radio, e in redazione mi avrebbero sgridata. Non chiedevo tanto. Ho raccontato la mia “vertenza” per poter raccogliere la loro. Volevo vedere con i miei occhi quello che stavano facendo durante la prima grande occupazione dello stabilimento, volevo farlo con il mio sguardo che non era obiettivo, era partigiano. Forse era sbagliato, ma il giornalismo per me è sempre stato un modo per lottare contro le ingiustizie. Che poi in redazione nessuno si aspettava una mia intervista. C’ero andata di mia spontanea volontà. Volevo esserci, volevo capire. Non scrivo editoriali da un po’. Sarei rimasta in silenzio, anche oggi, ma poi ho pensato a Rino Barca e ai suoi colleghi. A tutte le telefonate che ho fatto in questi anni, a quanto sia cresciuta mentre loro combattevano per un posto di lavoro.

Ho pensato alla parola “restare”, lottare per una vita dignitosa in Sardegna. A quanto sia significato per me crederci, in questa parolina magica. Sapete, quando il blog “L’Isola dei cassintegrati” è nato, credevo che la mia terra non sarebbe stata solo questo per tutti questi anni, che avrebbe avuto un futuro, che il suo destino non potesse essere solo quello di una regione che fa le valige. Di un posto bellissimo e dannato. Da cui scappare. Che quella generazione di operai avrebbe cambiato la nostra storia.

Oggi ci credo sempre meno. Più passa il tempo più la malattia di cui è afflitta la nostra isola diventa incurabile. I politici sono obiettivamente sempre più incompetenti. Bandiere di partito che una volta “arrivate” sono condannate a fare gli stessi errori dei loro predecessori.

E siccome vi ho sempre detto tutto con molto sincerità è giusto che sappiate che anche noi stiamo affrontando un periodo molto difficile. Stiamo lavorando a ritmi bassi aspettando che l’economia riparta, e le grandi aziende che ospitiamo nel sito ci paghino la pubblicità. Ho sempre creduto che il lavoro gratuito non sia lavoro e che chi pratichi questo vizio mortale sia responsabile di un modello economico pericoloso per i diritti di tutti.

Mentre muore Alcoa, stiamo morendo anche noi, anche se stiamo lottando con tutte le nostre forze per non buttare un progetto vincente che registra tanti numeri. Ormai, chi racconta e chi è raccontato, è nella stessa nave naufraga. Ma non preoccupatevi, abbiamo molto fiato, gambe e braccia forti per nuotare. Una riva c’è sempre, soprattutto a meno di 30 anni. Faremo di tutto per poter continuare a raccontare le storie di Rino Barca e dei suoi colleghi soprattutto oggi che nessuno si interesserà più a loro. E anche per non privare voi dell’ennesimo mezzo di informazione moribondo.

Quella ragazzina che si intrufolò all’Alcoa forse non c’è più. Ma il suo sogno è sempre lì. Testardo come la sua padrona.

* cagliari.globalist.it

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