CESARE ARUI A DUBAI NEGLI EMIRATI ARABI: COME E' STRANO VIVERE NEL MONDO PERFETTO

Dubai

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di Antonio Mannu

«Una volta, in Nigeria, ho corso il rischio di essere arrestato!», sorride sornione Cesare Arui, mentre ricorda. Nato a Cagliari nel 1946, cresciuto «a Sant’Avendrace, zona nobile della città», Cesare ci ha vissuto sino ai 30 anni. Poi ha preso le vie del mondo e non si è più fermato. Nigeria, Filippine, Zimbabwe, Albania, Libia, Mozambico. Ora Dubai, Emirati Arabi, dove ci incontriamo. «Ho sempre lavorato nelle telecomunicazioni – racconta – anche se qui a Dubai ci siamo occupati della metropolitana». La Thales Italia, costola della multinazionale francese per cui lavora, ha fornito la piattaforma informatica che permette alla metropolitana senza conducente più lunga al mondo di funzionare in sicurezza. «Ho seguito le criticità che si sono presentate e operato per risolverle. Abbiamo consegnato nei tempi stabiliti». Il primo incontro è in ufficio. Cordiale e sorridente mi porta in giro, mi mostra l’albero genealogico della dinastia regnante. Occupa parte di una lunga parete. «Dubai è uno strano posto, dove si lavora tantissimo. Pur essendo un paese musulmano si può cenare bevendo vino. È una città moderna, qui si è cominciato a costruire negli anni ’50 e non ci sono vincoli paesaggistici. Se un architetto ha delle idee stravaganti e trova chi le sposa e le sostiene, può dare sfogo alla sue follie. Non sempre con risultati piacevoli, anche se ci sono edifici straordinari».  Cesare abita, insieme a sua moglie Miranda M urgia, in un palazzo che si affaccia su Port Said, vivace approdo per gli antichi dhow, bastimenti in legno che, ancora oggi, smistano molte delle merci che transitano per questo paese, in una mille e una notte contemporanea. «Dubai è un mondo quasi artificiale, dove tutto sembra girare perfettamente. Poi, quando qualcosa va storto, si scopre che non si sa bene quali siano le regole».  Ad esempio? «Ad esempio un collega ha avuto un incidente in cui c’è scappato un morto. La responsabilità non era sua, ma è stato arrestato “per precauzione”. Per tirarlo fuori l’azienda ha dovuto versare “il prezzo del sangue”, in accordo con la vigente legge islamica. Che in certi casi prevede pene severe. Ma le eventuali pene possono, a volte, essere trasformate in multe. Se uno ha i soldi la questione a volte si risolve».  In Nigeria, quando hai corso il rischio di essere arrestato, come è finita? «La storia è questa. Era venuta fuori una ordinanza che imponeva alle società con pertinenze fronte strada di occuparsi della pulizia dell’area antistante. Avevamo un deposito per lo stoccaggio dei materiali; la strada e le cunette davanti erano in ordine. Un pomeriggio arrivano 3 persone e chiedono di parlare con il responsabile. Ero io. Devi venire con noi, mi dicono, per la pulizia. Ma la strada è pulita, rispondo. È vero, ma dentro la vostra proprietà ci sono delle erbacce. Su consiglio di un collega nigeriano vado con loro, ma con un mezzo nostro e, fortunatamente, accompagnato da un autista. Arriviamo. In un piazzale c’erano dei container, due metri e mezzo per sei, con aperture nelle pareti per l’aria. Centinaia di persone cominciavano ad entrarvi. Mi hanno portato in un ufficio, abbiamo discusso ma il verdetto era già scritto. Colpevole: dovevo pagare una multa e non avevo i soldi. “Allora ti dobbiamo arrestare”».  Cesare chiede all’autista di andare a recuperare il denaro. In un primo momento lo fanno accomodare nel piazzale, su una sedia, mentre tra gli inflessibili giudici comincia un’accesa discussione. Cesare non capisce, ma parlano di lui. A un certo punto gli dicono di entrare in un container. La legge è uguale per tutti! «Dentro si soffoca. Sono l’unico occidentale in mezzo a centinaia di africani». Passa una mezz’ora e l’autista non arriva. «Sei un bianco – gli chiedono i compagni di sventura – come sei finito qui?». Cesare si spiega e loro, sbalorditi: «Non hai soldi?». Il tempo passa, dell’autista nessuna traccia. «A un certo punto – prosegue Cesare – cominciano a far uscire la gente dai container e a caricarla su dei camion. Fanno salire anche me. Allora mi sono davvero spaventato. In carcere, senza sapere dove, senza che nessuno sapesse». È finita bene. L’autista è arrivato mentre i camion lasciavano il piazzale. La multa è stata pagata. Cesare liberato. «La Nigeria è un paese pericoloso – continua – vivevamo in aree recintate, le sbarre alle finestre. In ogni casa un bagno era blindato, dentro un telefono e una radio. Poteva capitare di venire fermati ad un posto di blocco di falsi poliziotti. Ti prendevano quello che avevi, orologio, soldi. Poi, se andava bene, ti mollavano. A qualcuno non è andata bene».  Cesare Arui parla di altri paesi in cui è stato, dello Zimbabwe, «il paradiso terrestre. Ci sono stato tra il 1996 e il ’97. Ora è allo sfascio. Il partito di Mugabe controlla tutto, una vera e propria dittatura, gli avversari politici sono stati tutti assassinati o imprigionati. Degli amici di Quartu hanno messo su una pizzeria e una gelateria. Stanno resistendo perché in quel paese ci hanno investito e ne sono innamorati». Del Mozambico. «Paese bellissimo. Sono arrivato nell’87, ci ho trascorso 5 anni, durante la guerra civile. I mozambicani, in Africa, sono la gente a cui mi son sentito più vicino». L’Albania. «Splendida esperienza. Ho incontrato gente per bene, fiera e colta. Ci assomigliano. In certi momenti avevo l’impressione di essere in Sardegna. D’altra parte il Kanun, il loro codice, ha forti similitudini con il codice barbaricino».  La conversazione si chiude sui sardi e la Sardegna. «A mio avviso i sardi dovrebbero imparare meglio a far da soli, pur restando all’interno del sistema Italia. Il sardo all’estero in generale è ben visto, lo si considera una persona che si impegna, di parola. Testardo nel bene e nel male. Il sardo normalmente si riconosce, difficilmente passa inosservato. Dal punto di vista economico tra i settori che potrebbero conoscere uno sviluppo maggiore, e magari più armonico, vedo il turismo, ma è un discorso vecchio, ormai trito e ritrito. Invece, sinceramente, non vedo sbocchi possibili per la grande industria».

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Un commento

  1. Ringraziamo Tottus in Pari, che ha già riservato attenzione alle storie, pubblicate originariamente sul quotidiano La Nuova Sardegna, che raccontano di migrazione sarda, storie di sardi che hanno lasciato, per breve o lungo tempo, la nostra isola. Nascono dal progetto collettivo “Migrazioni – In viaggio verso i migranti di Sardegna”, un lavoro di ricerca originato da una riflessione sulla centralità e influenza della migrazione nei confronti degli aspetti sociali, culturali ed economici dell’isola. Durante lo sviluppo della ricerca sono stati sinora visitati 9 paesi, raccolte numerose testimonianze. Al progetto attualmente partecipano il documentarista e scrittore Mario Balsamo, il fotografo Antonio Mannu, Tao Mannu, studia Storia dell’Arte alla Essex University in Gran Bretagna, Paola Placido, un master in “Management Culturale Internazionale” e Silvia Pigliaru, dottore di ricerca in “Teorie e Pratiche della Comunicazione e dell’ Interculturalità”.”Migrazioni – In viaggio verso i migranti di Sardegna” è sino ad ora stato sostenuto dalla Fondazione Banco di Sardegna, dalla Provincia di Sassari, dalla Camera di Commercio Italiana negli Emirati Arabi e dalla Visual E di Sassari. Al progetto è dedicato un sito web: http://www.deisardinelmondo.it
    per il progetto Migrazioni
    Antonio Mannu

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