Tottus in Pari, 253: rombo di tuono

L’essenza umana di Gigi Riva è nella sua storia calcistica e pertanto la cronologia delle principali tappe sportive non può essere trascurata. Nel calcio dei giorni nostri è difficile, se non addirittura impossibile, trovare giocatori che leghino la propria vicenda sportiva ad un’unica squadra evitando la logica degli ingaggi al rilancio. Riva è stato per poco più di dieci anni la bandiera di una squadra, cosiddetta provinciale, portandola a vincere un meritatissimo scudetto nel 1970 e per essa ha rinunciato a vincere di più, come avrebbe sicuramente meritato. Si è completamente identificato con essa, con la città di Cagliari in cui continua a vivere e con la gente della Sardegna riscattandole dall’anonimato a cui fino ad allora erano abituate; e proprio nell’isola, lontano dai clamori e dai fatti che contano, schivo e di poche parole, ha trovato la sua realizzazione e il suo equilibrio interiore. Non si è mai risparmiato, ha sempre dato il massimo di sé anche nelle partite meno importanti, tanto che i suoi due infortuni più gravi sono accaduti in incontri non fondamentali per le sorti della Nazionale. Tuttavia ha saputo reagire senza recriminazioni riaffermando le sue grandi capacità. Per un breve periodo è stato anche il Presidente del Cagliari, in un momento in cui la squadra rischiava di sparire dal panorama calcistico nazionale. Da anni Riva riveste il ruolo federale di accompagnatore della Nazionale. Non è un compito di primaria importanza ma la sua presenza discreta vuole essere una guida per i giocatori che si avvicenderanno nel vestire quella maglia azzurra che lui ha sempre onorato. Gigi Riva è un uomo che ha saputo dare dignità al gioco del pallone e per chi si è innamorato delle sue giocate e rimpiange quel calcio povero fatto di immagini in bianco e nero, ma ricco di valori, sarà sempre affettuosamente Giggirriva, rombo di tuono.

Cosa la lega alla Sardegna?

Qui sono diventato grande. Quando sono arrivato sull’isola ero un ragazzo, sbandato e senza genitori. Avevo 17 anni e il calcio era il mio unico obiettivo, e quindi presi il trasferimento in Sardegna come una grossa preoccupazione. Poi invece questo è stato il punto di svolta della mia vita. Qui sono cresciuto, qui mi è stato dato l’affetto, ho costruito una famiglia, sono diventato uomo. Sono diventato vecchio e nonno, ho due figli nati in Sardegna. Tutto mi lega alla Sardegna: la mia generazione continuerà qui. E’ un sentimento che sento dentro a prescindere da quello che è stato il calcio che pure mi ha dato la possibilità di fare un lavoro fantastico. L’isola mi ha dato la possibilità di crearmi una vita serena, tranquilla, in un ambiente meraviglioso.

Ha sempre riconosciuto nell’ambiente una risorsa primaria per quest’isola. Oggi in che prospettiva la vede?

La Sardegna potrebbe e dovrebbe essere sicuramente migliore di quella che è attualmente. Ritengo che sia trattata ancora come isola e che ci siano troppe cose che danneggiano la sua immagine e le sue ricchezze. Mi riferisco alle discariche, alle lavorazioni di sostanze tossiche, alle basi militari, alla prospettiva delle centrali nucleari: queste sono cose pericolose per la Sardegna perché un domani, se si verificasse un incidente che dovesse rovinare i mari e l’ambiente della nostra terra sarebbe la fine, per noi, per il turismo e per le nostre generazioni future. L’ambiente è l’unica risorsa che la Sardegna ha per poter mantenere questa ricchezza che la rende caratteristica e diversa dalle altre regioni. Noi dobbiamo difendere strenuamente tutto quello che di unico la Sardegna possiede, abbiamo il dovere di tutelare ogni nostra risorsa ambientale che rischia di essere calpestata dal sistema e dallo sfruttamento indiscriminato. Dobbiamo impedire che la Sardegna divenga una pattumiera di materiale nocivo e inquinante solo perché ciò fa comodo agli interessi di qualcuno. Bisogna risvegliare le coscienze. Faccio l’esempio delle scorie di cui si è parlato qualche tempo addietro: quando hanno proposto di portarle e trattarle in Molise, la popolazione si è fortemente ribellata e le scorie sono state dirottate altrove. Qui in Sardegna, invece, c’è stato il referendum e 7 sardi su 10 non sono andati nemmeno a votare perché non conoscevano il problema. Queste sono cose gravissime. L’ambiente è la nostra maggiore risorsa, se non preserviamo il nostro mare e la nostra terra non possiamo avere nessun genere di futuro, non vi sarà nessuna prospettiva di benessere e ancor meno di sviluppo economico e turistico.

Ha collegato il discorso dell’ambiente alla prospettiva turistica. Perché la Sardegna non è capace di sviluppare il turismo in maniera adeguata rispetto alle risorse?

Il perché risale al periodo del primo sviluppo turistico in Sardegna, negli anni 70, quando è nata la Costa Smeralda, punto di riferimento meraviglioso, ma che ha portato pochi benefici alla Regione e anzi ha generato una diffusa improvvisazione. La Sardegna doveva essere, ad esempio, proprietaria di una linea aerea che facesse servizio regolare con la Penisola e l’Europa almeno 6 mesi all’anno, portando turisti su e giù facilmente e senza problemi. Invece i costi per chi viene da fuori sono ancora oggi proibitivi. Ci sono tante agenzie che con il costo di un biglietto di trasferimento per la Sardegna sono in grado di mandarti a trascorrere una settimana tutto compreso nei più bei posti del mondo. Il turismo deve vivere al passo con l’economia, adeguandosi al tenore di vita delle persone per essere competitivo con tutte le offerte mondiali. Oggi viviamo una stagione di crisi economica, di crisi vera per tanti. Se il prezzo dell’aereo da Milano andata e ritorno è uguale al prezzo di un soggiorno completo e compreso di viaggio aereo per tante invitanti destinazioni, allora il turista va in altri posti, in Europa o nel mondo.

Il problema maggiore è dunque quello legato ai trasporti. Cosa suggerire agli imprenditori turistici?

Una grossa cosa sarebbe l’incremento dei voli a basso costo da e per la Sardegna. Immagino anche che debbano essere incrementati i servizi offerti ai vacanzieri, promosse le zone meno conosciute che hanno  anch’esse dei luoghi favolosi per trascorrere una vacanza tra mare e montagna. E’ importante che la Sardegna investa sugli imprenditori locali e che essi fatturino nell’isola. Oggi abbiamo tante società che lavorano in Sardegna con dirigenti che vivono qui ma con sedi legali a Milano o anche all’estero. Di conseguenza portano poco all’economia isolana.

Tante volte le hanno offerto e proposto un futuro politico, anche con ruoli di notevol
e prestigio. Perché non ha mai voluto affrontare un impegno diretto?

In tante occasioni ho riflettuto, negli anni ho avuto tante proposte, ma poi ho preferito sempre restare al di fuori di un mondo che non sento mio, che non conosco e non capisco. La ragione è abbastanza semplice: non credo di poter decidere o di proporre una cosa che poi, per gli interessi di un partito o di un gruppo di persone non si potrà mai realizzare, pur essendo la cosa più giusta da fare. Non ho il carattere per stare in quel mondo, voglio poter dire e fare sempre quel che penso senza dover sottostare a giochi politici. Non ho il piacere di stare al servizio di nessuno, mentre la politica purtroppo è così: quando sei un politico sei al servizio di un partito o di un interesse e raramente le decisioni sono prese nell’interesse della Sardegna.

Quali sono i luoghi della Sardegna che ama di più?

La Sardegna è tutta incredibilmente bella. Personalmente non sono un amante della Costa Smeralda anche se ha luoghi incantevoli. Sono zone che preferisco vivere in autunno o in primavera, senza l’affollamento e l’esibizione del turismo di copertina. La Sardegna ha in ogni angolo dei fantastici posti dove suggerirei di godere una vacanza. La Costa Paradiso per esempio, o la zona che da Nora e Chia arriva fino a Teulada: 40 chilometri di costa assolutamente meravigliosi. O ancora le zone dell’Iglesiente e dell’oristanese. Ma sono davvero tante le località di grandissimo pregio che possono essere visitate con piacere, sicuri di trovare un territorio e una popolazione veramente genuini. La Sardegna è ovvio, non è solo Costa Smeralda. Personalmente sono amante dell’acqua: ho passato la prima infanzia frequentando il lago Maggiore ed ho imparato prestissimo a nuotare, forse ancora prima di camminare e qui in Sardegna ho trovato un paradiso. Un mare meraviglioso con dei fondali incredibilmente belli. A me piace fare immersioni, vado in apnea anche solo per ammirare gli scenari sottomarini.

Cosa ti auguri per il futuro dei tuoi figli e dei giovani che vivono in Sardegna?

Per il futuro dei giovani voglio dire loro di occuparsi dei problemi della Sardegna, anche politicamente, di preoccuparsi attivamente della nostra terra. Mi auguro per i miei figli e nipoti quello che semplicemente si augurano, credo, tutti i genitori: trovare un lavoro sicuro per garantirsi una vita serena. Non siamo tantissimi in Sardegna e possiamo avere un posto di lavoro per tutti. Ma oggi vedo che i giovani sono costretti nuovamente ad emigrare per trovare un posto di lavoro. Il turismo potrebbe fare molto, ma non tutto. Bisogna trovare un sistema che consenta anche agli abitanti delle zone interne di garantirsi un futuro di dignità e lavoro. Utilizzando le nostre risorse migliori.

Perché un turista dovrebbe scegliere la Sardegna? Chi inviterebbe a trascorrere una vacanza nell’isola?

Io sinceramente non inviterei nessuno … devo dire la verità! Quando vedo l’affollamento del mese di agosto non sono contento, non mi trovo a mio agio. Però se dovessi suggerire una motivazione per venire a trascorrere una vacanza in Sardegna, direi che ce ne sono infinite, ma anche in primavera e autunno. La Sardegna ha un patrimonio di ricchezze naturali incredibile, e io, che ho visto tantissimi posti e quasi tutti i mari del mondo, dico che noi abbiamo veramente qualcosa in più degli altri, e il nostro mare è la cosa più bella che abbiamo.

Massimiliano Perlato

 

IL SITO WWW.GIGIRIVA.IT DEDICATO AL BOMBER DEL CAGLIARI

COSI’ ROMBODITUONO VA ANCORA IN RETE

 «Mi ha fatto piacere. Ora, a 64 anni suonati, mi toccherà imparare a frugare su internet. Non l’ho mai fatto, ma non è mai troppo tardi». Come il fatto che un sito ufficiale sul bomber di Leggiuno veda la luce solo ora, a quasi 40 anni dalla conquista del mitico scudetto. «Io – sottolinea Riva – non ci avevo mai pensato. E’ stata la passione di mio figlio Mauro a tradurre nei fatti un progetto che era solo nell’aria. Ci ha messo impegno, con l’aiuto anche di Nicola, l’altro mio figlio, e di alcuni amici. E’ stato un lavoro duro, ma mi sembra che il risultato sia ottimo. Mi piace, sì, questo sito mi piace proprio. Magari Mauro, che ha ereditato il mio carattere, preferirebbe che non lo dicessi, ma è stato meraviglioso che lo abbia realizzato». Nelle pagine internet scorrono immagini fantastiche, rimaste per anni nel cassetto dei ricordi: Cagliari, il vecchio aeroporto di Elmas, la Dino Ferrari fotografata a Su Siccu davanti all’hotel Mediterraneo, Riva in camera con il poster di Fabrizio De Andrè appeso sul muro. «C’è tanto della mia storia – aggiunge – ma anche della storia della Sardegna e dell’Italia. Viene un groppo alla gola, a ripensarci. Le cose sono cambiate tantissimo da allora».
Non è cambiata, però, l’ammirazione nei confronti dell’uomo che ha proiettato il Cagliari e Cagliari in una dimensione irripetibile. In questo senso, il sito è una testimonianza di un’epoca, di un momento in cui la Sardegna si è potuta misurare alla pari con il resto d’Italia. «Momenti davvero indimenticabile – dice ancora Gigi Riva -. Mi piace ripeterlo: quando giocavamo a Milano e Torino venivano a vederci tanti immigrati. Le nostre vittorie per loro rappresentavano il riscatto di anni di umiliazione. Il fatto che dagli spalti degli stadi del nord piovessero insulti tipo: banditi, pecorai, beh, è servito a cementare ulteriormente il carattere di quel Cagliari». Nel sito ci sono anche tutti i numeri della carriera in rossoblù e in azzurro. Tutti i gol segnati (207), che Riva, nonostante non ami frugare nel passato, ricorda a uno a uno. Capace com’è di descriverli nei minimi particolari. «Non è difficile rivedere nella mente quelle immagini – fa sapere il campione -. Cose che non posso dimenticare». Infine spazio agli aneddoti, tantissimi. Come quello di Mazzola che sul 3-0 per il Cagliari a San Siro, si avvicinò al numero 11 rossoblù per chiedergli di non fare altri gol. O il fatto che, dopo aver smesso, non abbia mai giocato una partita, mai tentato dall’idea di sfida fra vecchie glorie. «Non mi sono mai piaciute queste cose – ammette Riva -, come il fatto che in carriera non ho mai partecipato a selezioni tipo Resto del mondo. Non erano partite vere». Del resto per nutrire il ricordo, bastano le imprese realizzate nelle 446 gare disputate. Foto, album e ritagli di giornale fi
niranno digitalizzati pian piano su internet. «C’è un baule pieno di queste cose in soffitta – conclude Riva -. Io non ci penso neanche a frugarci dentro. Toccherà a Mauro lavorarci sopra».

 

LO SCRITTORE EDITORE CHE TIFA PER IL CAGLIARI

IL LIBRO DI DAVIDE ZEDDA

Quasi un secolo di storia del Cagliari condensata in una specie di Bignami, ricco di date e dati. A raccontare l’epopea della squadra nerazzurra (questi erano i colori sociali nel 1920, anno della fondazione del Cagliari football club, e tali rimasero per sei anni) è un agile libretto. A scriverlo è stato un appassionato che, per mestiere, pubblica libri altrui. Davide Zedda, titolare della casa editrice cagliaritana "La Riflessione", questa volta ha deciso di passare dall’altra parte della barricata o – come si ama dire da quindici anni a questa parte – di scendere in campo. È un po’ come se il presidente del sodalizio rossoblù Massimo Cellino schierasse se stesso nella formazione titolare. Certo, non è semplice immaginare quali risultati potrebbe offrire il patron del Cagliari in maglietta e calzoncini sul rettangolo di gioco, mentre quel risultato si può verificare nel caso di Zedda, pure con una certa dose di soddisfazione. Nella sua ben documentata "Breve storia del Cagliari Calcio" (58 pagine, sei euro, editore facile da intuire) c’è tutto quel serve sapere. Manca invece dell’altro, e non è certamente un male, se quell’ altro è la noiosa retorica che spesso assale chi – giornalista o scrittore – si cimenta con un tema sportivo e arriva a definire "eroi" dei semplici atleti, per quanto dotati. Asciutto, asciuttissimo: come un bignamino , appunto. Se qualcuno dovesse sostenere un ipotetico esame in "Storia del Cagliari Calcio", farebbe bene ad adottarlo come libro di testo. Senza fronzoli, dunque, né parole troppo impegnative, ma non per questo senza cuore, anzi: non di rado l’autore scrive "noi", quando elenca i risultati dei campioni d’Italia 1969/70, identificando il sostenitore con la squadra. Si capisce bene, insomma, che lo stile è dell’osservatore, ma l’anima è quella del tifoso. L’autore parte da prima della "creazione", nel senso che riporta quel poco che si sa della prima partita disputata a Cagliari, quando ancora nessuno aveva mai pensato a dare vita a un vero e proprio sodalizio sportivo. Quella gara, ci racconta Zedda, oppose nell’anno 1900 una squadra di studenti sardi – schierata su un campo sterrato in piazza d’Armi, nel quale le porte furono organizzate alla bell’e meglio – a una selezione dei marittimi genovesi imbarcati su una nave ormeggiata al porto di via Roma. Fu subito sconfitta, e non poteva che essere così, considerato che a Genova un minimo di tradizione calcistica esisteva già, mentre dalle nostre parti si era al debutto assoluto. Zedda ci fa rivivere con ritmo incessante le gioie e i dolori di chi è appassionato (questo è assolutamente un libro per appassionati) ma segue le imprese calcistiche del Cagliari solo dal momento in cui ne ha memoria personale, da quando i risultati della squadra appartengono al proprio vissuto. C’è l’oggi, ma soprattutto c’è il "prima", che spesso per i tifosi è una lacuna da colmare. E poi, con la girandola di allenatori che caratterizza l’era Cellino – pratica insolita e spesso criticata, ma si sa che al presidente non piace andare troppo per il sottile e i risultati sono dalla sua parte -, un ripasso delle puntate precedenti fa sempre comodo. Certo, ricostruire i primissimi tempi (negli anni Venti del secolo scorso) non è facile: il calcio non era ancora l’oppio dei popoli – soprattutto nel nostro Paese -, doveva ancora conquistare il potere di sovrastare sui giornali le notizie che incidono in modo importante nella vita personale di ciascun lettore. Ne consegue che la documentazione cresce con il passare degli anni, e parallelamente cresce anche l’analisi – sempre asciutta, fino all’ultima pagina – che l’autore fa della squadra rossoblù. Man mano, il Bignami diventa un Zedda: sintetico, ma più partecipato.

 

LA DISOCCUPAZIONE VOLA AL 14%: PERSI 33MILA POSTI DI LAVORO NELL’ULTIMO ANNO

OCCUPAZIONE IN CALO IN SARDEGNA

L’Istat emette il primo verdetto sulla Giunta Cappellacci. Per Ugo, non risulta nessuno dei centomila posti di lavoro promessi in campagna elettorale. Certo, si tratta solamente dell’analisi del primo trimestre. E, in fondo, era una promessa a lunga scadenza. Così lunga da sperare sia dimenticata nel corso dei prossimi dieci anni. E poi, si dirà, la crisi internazionale ha tarpato le ali all’Isola. Che ora, seppur abituata a galleggiare, rischia proprio di affondare. Niente di cui stupirsi: l’ottimismo da campagna elettorale era uno spot , più che uno slogan politico. "Sardegna sorridi", appunto. Ottimo, per sponsorizzare un dentifricio. Decisamente beffardo, per commentare i primi quattro ingloriosi mesi di governo Cappellacci. All’epoca, fino all’elezione, la disoccupazione era un must dell’agenda politica. Buono per attaccare l’ex giunta Soru, accusata maldestramente di non riuscire a far fronte a quei 190mila disoccupati affamati di lavoro. Si davano i numeri, allora. Liberamente interpretati, ovviamente. Ieri, come oggi, la verità la dice l’Istat: nel III trimestre 2008 rilevava che il numero di disoccupati in Sardegna era pari a 74.955, il tasso di disoccupazione si attestava intorno all’11%. E cosa dice oggi l’Istat? Intanto che nel primo trimestre 2009 c’è stato un calo di tutti gli indicatori dell’occupazione: la forza lavoro è pari a 669.000 unità, in diminuzione di 3.000 rispetto all’ultimo trimestre del 2008. Un valore così basso, non si rilevava dal 2004. Gli occupati sono 583.000, anche in questo caso fra i valori più bassi degli ultimi cinque anni. La perdita di occupati rispetto al terzo trimestre 2008 è pari a 8.000 posti. Quindi, come segnala l’Agenzia regionale del lavoro nella sua pubblicazione di luglio ("Congiuntura lavoro in Sardegna"), nell’ultimo anno sono stati persi 33.000 posti, per la maggior parte lavori subordinati (- 24.000), contro i 7.000 autonomi. Nei primi tre mesi di quest’anno sono 95.000 i sardi in cerca di occupazione, in aumento di 6.000 unità rispetto agli ultimi tre del 2008. Il tasso di disoccupazione si attesterebbe ora al 14,1%. Nel confronto con le altre regioni, la Sardegna si posiziona al penultimo posto per l’indicatore più rappresentativo del mercato del lavoro, cioè il tasso di disoccupazione: l’isola precede soltanto la Sicilia, che però presenta indicatori migliori rispetto a un anno fa. La Sardegna, invece, come sottolinea l’elaborazione dell’Agenzia regionale del lavoro, ha compiuto «un balzo all’indietro che non trova riscontro in nessun’ altra regione italiana». In poco meno di due anni il tasso di disoccupazione è aumentato di 5,5 punti percentuali, dall’8,6% all’attuale 14,1%. «Evidentemente la Sardegna – osserva l’Agenzia – &e
grave; stata la prima regione italiana a registrare gli effetti negativi della crisi internazionale». La spiegazione c’è: come in Sicilia, gli stabilimenti produttivi sono localizzati lontano dai mercati di approvvigionamento delle materie prime oppure dai mercati di sbocco dei prodotti finali e le imprese, nel razionalizzare, rallentano la produzione negli stabilimenti che presentano maggiori costi. Gli occupati sono diminuiti di 3.000 unità nell’agricoltura e di 13.000 nei servizi. Va controtendenza, invece, l’industria, con un aumento di 8.000 occupati, compresi i più tremila delle costruzioni. Brutte notizie anche per il lavoro in rosa: le donne impiegate nel mercato del lavoro sardo sono appena 218.000, ovvero solamente il 38% degli occupati, con un calo di 7.000 unità. Le disoccupate nel I trimestre 2009 sono 53.000, il 56% del totale delle persone che cercano lavoro. Anche se il valore è rimasto simile a quello registrato un anno fa, quando le disoccupate erano 54.000. «L’aumento della disoccupazione femminile – sottolinea il trimestrale dell’Agenzia del lavoro -è la conseguenza di un impoverimento generale del sistema economico sardo che non riesce a offrire sufficienti occasioni di lavoro a chi ne cerca uno. In sostanza, la crisi economica si è scaricata inizialmente sul settore industriale e nei comparti in cui gli uomini erano e sono tuttora la maggioranza, quindi edilizia e chimica; poi si e’ abbattuta sugli altri settori, commercio e servizi in genere, anche a causa del minore reddito prodotto dalle famiglie». Sono diminuite anche le imprese registrate nelle Camere di commercio: 1.500 unità in meno rispetto al 31 dicembre 2008, il valore più basso negli ultimi due anni. In calo anche il numero di donne titolari d’impresa : -1,3%. Nel primo trimestre 2009 sono state avviate al lavoro, in base ai dati del Sil Sardegna (Sistema informativo del lavoro), 54.930 persone. La situazione rilevata dal Sil del I trimestre dell’anno è migliore rispetto ai dati Istat: c’è un saldo positivo fra lavoratori avviati e posti di lavoro persi, pari a 4.601 unità, ma bisogna tener presente che alcune forme di lavoro autonomo non sono rilevate dal Sil. Tuttavia, i lavoratori a tempo indeterminato licenziati dalle imprese sono superiori a quelli assunti. Sono 337.805 gli iscritti ai Centri dei servizi per i lavoro dei quali circa 216.000 disoccupati e oltre 122.000 in cerca di prima occupazione.

Cinzia Isola

 

L’ATTESO MIRACOLO ECONOMICO SI E’ TRASFORMATO IN UNA BEFFA

G8 MANCATO: DAL SOGNO ALLA RABBIA

I più ottimisti solo pochi mesi fa pensavano di incrociare lo sguardo di Barack Obama. Proprio lì, a un passo dalle loro case. Invece l’hanno visto soltanto in tv. L’addio al G8, svoltosi all’Aquila, per i maddalenini è ancora una ferita aperta. Soprattutto in Gallura, nel bene e nel male, il supervertice era diventato la panacea di tutti i mali. La carta di credito che per due anni ha pagato ogni opera pubblica e promesso cantieri a mani basse (363 milioni di euro l’investimento complessivo solo alla Maddalena). Alberghi e conference center, ma anche strade, porti, una pista più lunga per l’aeroporto, caserme e questure nuove di zecca. Di tutto e di più. Almeno nei sogni, doveva essere il motore di un nuovo miracolo economico capace di guidare la riconversione dell’arcipelago dopo il protettorato militare. Più realisticamente, era diventato il pentolone dove cucinare una ribalta internazionale che comunque l’isola non aveva mai conosciuto prima. Dall’altare alla polvere, La Maddalena si è accontentata di una beffarda citazione nel simbolo del summit e della promessa, l’ennesima, di nove-dicesi-nove vertici internazionali nel conference center proteso sul mare. Per il resto tanta delusione e accenni di rivolta, soprattutto da parte degli amministratori e degli operatori turistici che avevano impegnato strutture e risorse in vista del grande evento ritrovandosi poi con alberghi vuoti e un pugno di mosche in mano. Il sindaco Angelo Comiti, presentando il programma di spettacoli per l’estate, parlava di «sabotaggio». E già questo la dice lunga sull’umore dei maddalenini. Nel marasma generale è andata bene, anzi benissimo, solo al gruppo industriale di Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, che si è aggiudicato (chiavi in mano e per 40 anni) la gestione dell’ex arsenale diventato albergo, palazzo dei congressi e media center. Ha speso solo 40 milioni per completare un investimento pubblico di ben 206. Un affarone. Tra business e rimpianti, la cronistoria del G8 in Sardegna ha due date di riferimento. La prima è il 14 giugno 2007, cioè il giorno dell’annuncio, da parte del governo Prodi, dopo un pressing discreto ma stringente di Renato Soru nei confronti del ministro Parisi. Tutta loro l’intuizione di portare nell’isola i grandi della terra. «Così paghiamo un debito storico verso La Maddalena», aveva detto lo stesso governatore con legittimo orgoglio. La seconda data è il 23 aprile 2009: è il giorno della doccia fredda, quello in cui il presidente Berlusconi annuncia il trasloco del G8 all’Aquila. Nei quasi due anni che intercorrono tra queste due date è successo praticamente di tutto. Le risorse finanziarie disponibili in molti casi sono diventate virtuali, in altri sono addirittura scomparse (i fondi per realizzare tutte le infrastrutture di supporto, come il nuovo tracciato della strada Olbia-Sassari). Poi il lungo braccio di ferro sulla grossa torta degli appalti, in larga parte appannaggio delle grandi imprese del continente a discapito di quelle sarde. Ancora le oggettive difficoltà logistiche, soprattutto per quanto riguarda la sistemazione dell’esercito al seguito delle delegazioni, cosa che ha portato addirittura alla requisizione di diversi alberghi. Infine la polemica sull’affidamento in gestione dei due grandi complessi ristrutturati alla Maddalena, l’ex arsenale e l’ex ospedale militare. E poi, naturalmente, il terremoto che ha devastato l’Abruzzo e che ha servito su un piatto d’argento le ragioni della solidarietà che avrebbero spinto Berlusconi a decidere il trasloco. In realtà, proprio il premier si era mostrato sempre piuttosto tiepido verso l’opzione La Maddalena (troppo «prodiana» o «soriana») e più volte aveva agitato lo spauracchio di un trasferimento a Napoli facendo impallidire sistematicamente il commissario Bertolaso e l’intero staff della Protezione civile. «Troppo sfarzo», il colpo finale assestato dal premier prima di ritirarsi nell’austero monastero francescano di Villa Certosa.

 

DALLE ARMI NUCLEARI ALL’EFFETTO SERRA

I DOSSIER SUL TAVOLO DEI GRANDI

Nei vertici del G8, molte delle conversazioni più importanti av­vengono al di fuori delle riunioni plena­rie, negli incontri informali o in quelli bilaterali. Il summit tra i capi di Stato e di governo tra i Paesi più svilup
pati del mondo con l’aggiunta della Russia non prende decisioni operative, ma elabora indirizzi, linee politiche e impegni. Molti sono destinati a non essere appli­cati nei termini sanciti, ma le rotte deli­neate, gli obiettivi fissati vanno tenuti presenti. Vengono riassunti in docu­menti e dichiarazioni scritte, e all’Aqui­la ne saranno prodotti almeno 7 o 8. Per adottare scelte decisive per il mondo, ormai non basta mettere intorno a un tavolo soltanto Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Rus­sia. Altri Paesi rivendicano ruoli di pe­so, e non sempre saranno interlocutori facili. La questione iraniana: per valutare a quali atteggiamenti ri­correre verso l’Iran, il G8 terrà in conto solo in parte i cortei spezzati dalla re­pressione dopo che Ahmadinejad è sta­to confermato presidente da elezioni contestate. Gli Otto, che poi saranno 10 perché affiancati dal presidente del­la Commissione europea e dalla Svezia che è presidente di turno dell’Unione europea, si pronunceranno pensando innanzitutto ai piani nucleari di Tehe­ran e ai loro effetti geopolitici. Fino a ieri, la Russia ha frenato le prese di posi­zione dure contro Ahmadinejad. Le opi­nioni pubbliche statunitensi ed euro­pee premono invece in quella direzio­ne, ma per Barack Obama può essere ancora presto per ritirare la sua offerta di dialogo all’Iran. Uno dei più duri verso Teheran ri­sulta il premier britannico Gordon Brown. Il G8 non ha il potere di decide­re sanzioni. Per parlarne nei dettagli è in programma un G8 dei ministri degli Esteri il 24 settembre a New York, a margine dell’Assemblea generale del­l’Onu. Oltre all’Iran, è la Corea del Nord a turbare i membri del G8 con i suoi test atomici. Per effetto dell’assenza di Ge­orge W. Bush e delle difficoltà nel sop­portare i costi degli arsenali in tempi di crisi, gli Otto dovrebbero nella di­chiarazione far proprio l’obiettivo di un mondo senza armi nucleari (rilan­ciato da Obama). Oltre a occuparsi di Afghanistan, Birmania, Medio Orien­te, il vertice promuove l’impe­gno contro la proliferazione di bombe atomiche nelle mani di nuovi proprie­tari a quello per ridurle dove già ce ne sono. Su questo soprattutto si misurano i limiti del G8. Il cancelliere tedesco An­gela Merkel ha dichiarato che non rap­presenta più l’economia mondiale co­me nei decenni passati, mentre «la strada condurrà verso il G20» con den­tro i Paesi che ne costituiscono l’85%. All’Aquila si definiranno suggerimenti da inviare al G20. Con alcune doman­de alle quali dare risposta. A che punto è la crisi? Gli Stati devono dare altri «stimoli» per contenerla? I membri del G8, parlano di sviluppo e ambiente, per semplificare, da donatori verso i Paesi poveri e da in­quinatori. Gli Ot­to che poi sarebbero 10 si sono riuniti con i Paesi del cosiddetto G5 più l’Egit­to, invitato dalla presidenza italiana, per parlare degli stessi argomenti da promotori di nuovi modelli di crescita economica e regolatori internazionali. Del G5, una dichiarazione comune san­cisce il peso cresciuto elencando i com­ponenti: Brasile, Cina, India, Messico, Sudafrica. Per avere idea di che cosa comporta il nuovo formato dell’incon­tro, ecco che cosa diceva il premier indiano Manmohan Singh rinfaccian­do ai Paesi ricchi le convulsioni delle Borse: «Una crisi che non è stata causa­ta da noi, ma della quale ci troviamo a dover subire le conseguenze». A G8 e G5 si sono aggiunti Australia, Corea del Sud e Indonesia. La riunione diventerà una seduta del Major economies forum, il Mef. Nelle trattative è stato messa a punto un paragrafo di dichiarazione che sollecita una ripre­sa del negoziato sulla liberalizzazione del commercio internazionale, paraliz­zato da tempo, e fissa una data per la sua conclusione. È stato accettato da tutti tranne la Cina. Quando al Mef si uniranno il se­gretario generale dell’Onu e la Dani­marca, che presiederà la conferenza di Copenhagen sul clima, si misureranno anche le resistenze di Cina e Brasile sul­l’obiettivo di contenere entro i due gra­di il riscaldamento del pianeta, proposi­to che richiede tagli alle emissioni di Co2. Il G8 annuncia di mettere a disposizione 15 miliardi di dollari in tre anni per la «sicurezza ali­mentare » più impegni sul «diritto al­l’acqua ». E si misureranno di nuovo gli effetti della crisi sulle offerte ai Paesi poveri.

 

L’OTTIMO RISULTATO DEL G8 ALL’AQUILA, MA…

SUPPONIAMO CHE I POVERI DELLA TERRA…

Non è più possibile, in questo villaggio globale che è ormai il mondo, che pochi signori possiedano e sfruttino a proprio unico vantaggio i beni della terra, che si accaparrino le fonti del benessere e delle energie rinnovabili massacrando il creato (minerali, petrolio, acqua, frumento, commercio e monopòli di ogni genere) e la maggior parte dell’umanità non abbia il diritto di vivere con dignità. Il negligente controllo di una ruota di treno causa un disastro spaventoso; il menefreghismo di un impiegato rovina le famiglie; l’ingordigia sfrenata del capitalismo e del profitto ad ogni costo sta alla base della miseria di gran parte della popolazione mondiale…  E’ la dimostrazione di come ogni trasgressione a livello etico o di mancata responsabilità assuma una dimensione sociale, spesso drammatica. L’ultima enciclica del Papa "Caritas in veritate" è semplicemente questo che vuol sottolineare con tutta la forza: riportare la persona al centro, first people, giustizia, morale e responsabilità nell’agire, se no sarà una rovina globale. E’ un’enciclica, secondo molti, che marca un cambio epocale nelle relazioni tra i popoli, perché dice senza mezzi termini che occorre una svolta nei comportamenti morali per avere un mondo un po’ più in ordine. E’ il Manifesto dei poveri della terra, di quelli che non contano. Se il meeting G8 dell’Aquila è un ottimo risultato, ancora più lo è in riferimento ai valori cristiani. Si sta glo-balizzando sempre più quello che è il valore massimo ed esclusivo del Cristianesimo: la persona umana. Se così stanno le cose, si può fare questo ragionamento: come il cristianesimo ha dato la schiena identitaria all’Europa, così ora sta plasmando insensibilmente la nuova futura civiltà mondiale. Non è più possibile, in questo villaggio globale che è ormai il mondo, che pochi signori possiedano e sfruttino a proprio unico vantaggio i beni della terra, che si accaparrino le fonti del benessere e delle energie rinnovabili massacrando il creato (minerali, petrolio, acqua, frumento, commercio e monopòli di ogni genere) e la maggior parte dell’umanità non abbia il diritto di vivere con dignità. Non è più possibile che Lazzaro sieda a pitoccare le briciole alla mensa del ricco che scoppia nell’abbondanza. L’occidente professa ipocritamente: "In God we trust" (in Dio noi confidiamo); in realtà la sua fede è stata finora: "In gold we trust" (nel denaro confidiamo). Qualche esempio. Tutti sanno dello stretto legame tra le fortune delle finanze occidentali e il vergognoso commercio degli schiavi. Nel 2005 i banchieri JP Morgan e Lehman Brothers, che sono sprofondati pochi mesi fa in quel crack abissale che
fu l’inizio del crollo economico americano e mondiale, chiesero scusa pubblicamente per i profitti astronomici che i loro predecessori avevano tratto dal commercio degli schiavi. Attorno agli anni ’70 Henry Kissinger (56° segretario di Stato USA 73-77) così si esprimeva: "Noi dobbiamo adoperarci affinché una crescita demografica globale incontrollata non possa nuocere agli interessi degli Stati Uniti d’America"… Gestire perfino i livelli sanitari e demografici (incoraggiamento dell’aborto, incremento degli strumenti contraccettivi, cose da cui non è esente neanche la stessa UNICEF) con la stessa mentalità utilitaristica del capitale e del profitto liberistico… In molti si sono chiesti se quella canea inscenata per l’uscita del Papa in Angola, che l’Aids non si combatte solo col preservativo, non sia stata originata dall’aver leso gli ingenti capitali che confluiscono nelle industrie specializzate nella produzione di quell’oggetto. Il capitalismo sta pagando e pagherà amaramente le conseguenze di questo agire irresponsabile che ignora ogni imperativo etico. Un altro esempio di criminale profitto capitalistico a livello mondiale. La vendita di medicinali inefficaci o tossici è uno dei più infami e odiosi fenomeni che oggi affliggono specialmente l’Africa. Il "Center of medicine in the pubblic interest", organismo indipendente di ricerca medica, calcola che oggi, globalmente, il giro d’affari della contraffazione di medicamenti ammonti a circa 75 miliardi di dollari, cifra in continuo aumento, doppia rispetto al 2005. Nel continente africano, dove i governi locali sono del tutto indifferenti al fenomeno, la povertà e la carenza di informazione conducono dritto al mercato nero, in cui è assai frequente la possibilità di imbattersi in medicamenti fasulli. Secondo l’OMS, il 60% dei farmaci che arrivano in Africa sono inefficaci o dannosi. Si scopre che spesso sono confezionati con acqua e zucchero, oppure con base di principio attivo molto ridotto, oppure sono provenienti da partite scadute rimesse in commercio. Le contraffazioni sono molto bene imitate, dice il dott. Albert Wertheimer della Temple University statunitense. In tutto il continente si scoprono quantità impressionanti di antimalarici provenienti dalla Cina, e ora anche dall’India, dall’Europa e dagli Stati Uniti. Il 35 % di tali medicamenti fasulli, in Uganda, Ruanda, Tanzania, Kenia e altri paesi, sono assolutamente carenti dei principi attivi, cosicché "non solo mettono in forte rischio la salute di chi li assume oggi, ma rendono i parassiti resistenti ai trattamenti antimalarici di domani". Sempre l’Organizzazione mondiale della sanità stima che 200mila morti causate dalla malaria si potrebbero evitare o quantomeno ridurre di molto se i farmaci non fossero fasulli o inefficaci. Se poi si centra l’attenzione sull’HIV o Aids, le conseguenze sono ancora più tragiche. "Abbiamo scoperto che la maggior parte dei farmaci per questa malattia non ha la qualità sufficiente", afferma il dott. Hussein Kamote, della Confederazione industriale della Tanzania. E’ ancora da mettere in conto che alcuni tra i maggiori potentati farmacologici mondiali, hanno nelle popolazioni africane campo libero per le loro sperimentazioni. Con fiumi di denaro plagiano i governi locali che, sulla pelle dei loro sudditi, concedono via libera, o chiudono un occhio, su queste "manovre folli dell’ imperialismo", come vengono giudicate nell’ultima Conferenza internazionale sulla salute pubblica dei ministri della sanità africani. Tante industrie farmaceutiche effettuano sperimentazioni di loro farmaci nei paesi in via di sviluppo, perché le garanzie e le procedure regolari sono quasi inesistenti. Nel febbraio scorso una corte statunitense ha accolto il ricorso di diverse famiglie nigeriane contro la Pfizer, accusata della morte o di lesioni gravi a decine di bambini reclutati per un test durante l’epidemia di meningite nel ’96. In sei mesi restano uccise dodicimila persone. Nel 2006 furono fatti alcuni test dall’Interpol e dalla OMS sulle medicine vendute in Tanzania; furono scoperti circa 200 casi di vendita illegale e confiscati 100 prodotti medicinali contraffatti o dannosi. Esempi plastici della "morale" che sottende le relazioni economiche internazionali. Supponiamo che i poveri, i diseredati, gli emigrati, gli emarginati, i falliti, i rovinati dai monopòli, dalle banche, dagli usurai… si riuniscano e vogliano riappropriarsi dei loro diritti primari… Era già una norma giuridica dei romani: "Qui suo iure utitur neminem laedit".  Quando i poveri del mondo si leveranno a chiedere il conto delle loro vite al ricco epulone, quando i poveri finiranno di essere "ostaggio" del capitalismo e del liberismo, questa sarà la più grande rivoluzione mai vista, più terribile del giorno del giudizio finale. Non si sa né come né quando, ma essa verrà, perché tutto si paga. E’ la bomba globale futura dei poveri del mondo uniti. Adesso l’urlo del povero è giunto fino al cielo.

Vitale Scanu

RICHIESTA DI INCONTRO URGENTE ALLA PRESIDENZA DELLA GIUNTA

IL PASSAGGIO DELLE COMPETENZE DELL’EMIGRAZIONE

"Sono trasferite alla Presidenza della Regione le competenze che la legislazione vigente attribuisce in materia di Emigrazione all’Assessorato del Lavoro e le relative risorse finanziarie e umane".

Con queste scarne righe prima inserite in un collegato alla Finanziaria del 2008, poi nel DDL 29/24 approvato in Giunta il 25/06/09 si dispone di una questione che il mondo dell’Emigrazione ha sempre considerato di grande importanza per la funzione che svolge e per il suo futuro. I circoli, l’emigrazione organizzata, la nuova emigrazione intellettuale dei sardi nel mondo svolgono e possono svolgere sempre più, mantenendo il forte sentimento di appartenenza che li lega alla Sardegna, una funzione di rappresentanza, di promozione e di scambio culturale. È un tema che riguarda tutti: le istituzioni (Giunta, Assessorato, Consiglio Regionale e sue commissioni; i comuni di appartenenza) ma anche i partiti, i sindacati, la società civile con le sue articolazioni sociali, le famiglie, ognuna delle quali ha almeno un parente emigrato, insomma l’opinione pubblica di tutta la Sardegna. Proprio per questo un provvedimento che ha un valore di carattere generale deve essere discusso, partecipato e non deve rischiare di essere un semplice passaggio burocratico. Siamo peraltro in una situazione di emergenza: siamo a luglio, i circoli non hanno ancora avuto le anticipazioni, che sono una consuetudine da molti anni, ed è urgente erogarle subito. Infatti, fra nomina della Consulta, approvazione del Piano Annuale, passaggio in commissione del Piano Triennale, predisposizione di un piano di utilizzo delle risorse per le attività, passeranno molti mesi e si rischia di arrivare quest’anno a dicembre. Il superamento di una concezione di carattere assistenziale è stato posto da tempo e quindi anche la questione di quale assessorato competente e della struttura, unitamente alle questioni delle finalità e della riforma della Legge 7/91.
Siamo un grande movimento di volontariato sociale, con decine di migliaia di iscritti; in virtù di ciò e del rapporto ideale con i "migrantes" di tutto il mondo, in particolare con la nuova immigrazione extracomunitaria che tocca anche la Sardegna, qualcuno sostiene la  permanenza delle competenze nell’Assessorato al Lavoro. La grande maggioranza del mondo dell’emigrazione ha chiesto invece la creazione di una nuova struttura, una Agenzia, o comunque un Ufficio autonomo, un Dipartimento "interassessoriale", strumento agile ed efficace costituito in modo da avere rapporti con gli Assessorati alla Cultura, al Turismo, all’Agricoltura, che sia strumento operativo per l’azione dei circoli nella promozione della Sardegna nel mondo. In un documento dell’emigrazione del 2002 è scritto: "rischia di essere obsoleta e superata l’attuale organizzazione imperniata sul rapporto esclusivo con l’Assessorato al Lavoro e …è necessario un coordinamento interassessoriale, una agenzia per i sardi nel mondo. È materia consiliare e di riforma della Legge 7". La proposta del passaggio deve essere vista, nel caso, come una opportunità, non come semplice passaggio burocratico. C’è l’esigenza che si discuta di questo con le organizzazioni ufficiali dell’emigrazione, nei luoghi deputati, cioè in Consulta e nelle commissioni consiliari competenti, oltre che con le forza politiche (incontro con i capogruppo) e sociali. La Consulta, organo rappresentativo dell’emigrazione, la cui nomina ai termini della Legge 7/91 (novanta giorni dopo l’inizio della legislatura) non è stata ancora fatta. Tuttavia i componenti della nuova Consulta sono stati già indicati dalle rispettive organizzazioni dell’emigrazione. Proponiamo che, anche in assenza di nomina ufficiale, l’assessore competente per l’emigrazione convochi i consultori e i presidenti di Federazione in una riunione informale, con la partecipazione del presidente della Giunta l’On. Cappellacci e del presidente della commissione consiliare l’On. Ladu, nella quale si espongano le linee programmatiche per il settore e la valenza del provvedimento preso e si ascolti il parere dei rappresentanti ufficiali dell’emigrazione. In alternativa può essere convocata un’audizione collettiva, come avvenuto in passato, da parte della stessa Commissione Consiliare.

Secondo la Legge 7/91 "Sono compiti della Consulta: esprimere parere su ogni disegno di Legge in materia di Emigrazione … effettuare proposte in materia di interventi legislativi e amministrativi nel campo dell’emigrazione".

Al di là della nostra proposta, in qualunque forma avvenga l’incontro, l’importante è che ci si confronti con reciproco ascolto. In attesa di un Vostro riscontro, porgiamo i più cordiali saluti.

I rappresentanti dell’Emigrazione

Argentina: Margarita Tavera, Vittorio Vargiu – Associazione di Tutela  ACLI: Giuseppe Dessì – Associazione AITEF: Alberto Pisano, Fausto Soru – Associazione "ATM E. Lussu": Maria Bonaria Spignesi, Antonello Giua

Australia: Pietro Schirru – Belgio Carlo Murgia, Ottavio Soddu – Brasile: Angela Letizia Liccardi – Canada: Alberto Mario Delogu – CRAIES: Lussorio Monne – FILEF: Jan Lai – Francia: Francesco Laconi – Germania: Gianni Manca, Efisio Manai, Alberto Musa – Italia: Tonino Mulas, Serafina Mascia – "Istituto Autonomo Sardo Fernando Santi": Pierpaolo Cicalò – Olanda: Mario Agus, Bruno Fois – Perù: Giancarlo Farris – Spagna: Raffaele Melis – Svizzera: Francesca Fais, Domenico Scala – USA: Giacomo Bandino, Gianni Deriu

 

PORTO TORRES, STOP AL PETROLCHIMICO: TUTTA LA REGIONE INSORGE CONTRO L’ENI

CAPPELLACCI: "DECISIONE INACCETTABILE"

Sarà sicuramente stato aiutato dal premier in campagna elettorale. Ma le promesse di Silvio Berlusconi si stanno rivelando un vero e proprio boomerang per Ugo Cappellacci. Nonostante le rassicurazioni di febbraio, culminate con la nota telefonata a Vladimir Putin, l’Eni ha comunicato al governatore l’intenzione di chiudere per due mesi, dal 1° agosto, l’impianto cracking di Porto Torres, da cui dipende l’intera produzione del petrolchimico turritano. Una mazzata arrivata senza il minimo preavviso che ha spinto Cappellacci a reagire a muso duro. Il governatore – che ha convocato in quattro e quattr’otto una conferenza stampa insieme alla Giunta quasi al completo – ha definito "inaccettabile" e "sconcertante" la decisione. «Bisogna assumere tutti insieme una posizione rigida e forte per difendere l’intero apparato industriale», ha detto annunciando di aver convocato una riunione straordinaria della Giunta nella sede romana della Regione, aperta ai capigruppo in Consiglio regionale e ai parlamentari sardi. «Mi sono attivato con la presidenza del Consiglio dei ministri per la convocazione di un incontro immediato», ha detto, anticipando l’invio di un telegramma di protesta contro l’Eni destinato per conoscenza anche al Governo. «L’interesse del mercato non può prevalere sull’interesse del territorio e sul futuro di migliaia di buste paga – ha detto Cappellacci -. La natura dell’Eni di società partecipata dallo Stato impone un certo tipo di atteggiamento anche etico e deve essere rispettosa del lavoro in corso. Non siamo in condizione di fare sconti». Regione sul piede di guerra dunque. E mentre i sindacati annunciano che lo sciopero sarà "ancora più duro", la politica si scaglia compatta contro l’Eni. «L’impianto di Porto Torres non deve chiudere», ha dichiarato la presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo che chiede alle istituzioni, alle forze politiche, sociali e sindacali di «fare fronte comune». «Reagiremo con energia e decisione », ha annunciato il senatore Piergiorgio Massidda, Pdl: «Non c’è tempo da perdere, sono in gioco gli stipendi di 3.500 lavoratori». Dello stesso tenore le dichiarazioni del deputato Mauro Pili, che ha presentato un’interpellanza urgente alla Camera. In un’interrogazione al presidente del Consiglio e ai ministri dello Sviluppo economico e dell’Economia il senatore del Pdl Mariano Delogu paventa l’ipotesi che «ci si stia avviando a una definitiva chiusura di tutti gli impianti nel nord Sardegna. E chiede «immediati provvedimenti». Stesso appello lanciato dai Riformatori che invitano il Governo a «dire chiaramente se è realmente interessato alle prospettive economiche e occupazionali della Sardegna ». «Polimeri Europa non può chiudere i battenti e far finta di nulla», ha dichiarato Bruno Murgia (Pdl). L’invito di Cappellacci è stato accolto anche dall’opposizione. «La chiusura dello stabilimento di Porto Torres è un atto irresponsabile e inqualificabile dell’Eni», hanno dichia
rato Achille Passoni e Giampaolo Diana (Pd). «L’inaccettabile decisione dell’Eni dà il colpo di grazia a un’agonia che segna drammaticamente il futuro economico dell’Isola», ha dichiarato la consigliera regionale Pd Francesca Barracciu. Rabbia è stata espressa anche dai sindaci di Sassari e Porto Torres, Gianfranco Ganau e Luciano Mura, e dalla presidente della Provincia turritana Alessandra Giudici.

 

DALL’AGONIA DELLA CHIMICA UN MODELLO DIVERSO DI SVILUPPO

POLITICI SARDI UNITI PER L’ISOLA: FINALMENTE

Non capita spesso di andare orgogliosi dei propri ceti politici, troppo spesso presi in beghe di cui alle persone normali sfuggono non solo i significati ma anche i contorni. Quella, quando il governo sardo si è riunito con i parlamentari sardi, è una di quelle rare occasioni. In gioco c’era – e c’è – per alcuni la sopravvivenza della chimica, per altri (io sono d’accordo con loro) la sopravvivenza di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Tutti hanno comunque preso la saggia decisione di lasciare a casa le baruffe e di mettersi a lavorare uniti. Personalmente sono molto polemico con la scelta, decisa a Roma ma ingoiata in Sardegna come fosse uno zuccherino, di procedere alla industrializzazione petrolchimica e chimica dell’Isola. Lo sono, se mi si permette un ricordo personale, fin dal 1972, quando venni inviato dal mio giornale da Milano a Ottana. Mi parve una pazzia e lo scrissi. Ma adesso, quando si prepara una sorta di Stati generali del popolo sardo, vale la pena mettere da parte recriminazioni e critiche. E vale la pena di cominciare a ragionare, anche su questo blog se ne avete voglia, su un modello economico diverso da quello fin qui conosciuto. Un "Nuovo modello di civiltà" lo chiamammo nel 1990 in un documento, "Il manifesto di Desulo" elaborato da due dozzine di intellettuali non organici. Vi scrivevamo fra l’altro: "Alla disoccupazione di massa, alla fragilità e impotenza del sistema economico, alla impreparazione ed evanescenza della classe politica sarda, alla vacuità ed evasività delle culture dominanti, cominciano a sovrapporsi le moderne carestie: la carestia dell’aria pulita, dell’acqua potabile, dei cibi non nocivi, degli spazi territoriali fruibili. La Sardegna, pur non avendo goduto, se non in piccola parte, dei benefici dell’occidentalizzazione, si trova a dover subire pienamente le conseguenze del degrado ambientale e dei mutamenti climatici provocati dai paesi maggiormente industrializzati, Usa in testa. In questo contesto, la difesa e la rigenerazione dell’ambiente isolano in tutti i suoi aspetti si propone come impegno urgente e prioritario, fulcro del nuovo modello di civiltà, a cui tutti gli altri impegni debbono essere subordinati e finalizzati. Politica, economia, cultura, organizzazione sociale devono avere come oggetto e preoccupazione principale la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l’abbellimento della terra sarda, pena l’arretramento generale e la disumanizzazione… È ancora possibile che la Sardegna –come isola di Utopia– diventi un paese in cui si producono aria respirabile, acqua buona, cibi sani, spazi residenziali non congestionati e socialmente non pericolosi, marine e boschi salubri, città e montagne parimenti vivibili al miglior livello umano." Comunque lo si chiami, il nuovo modello economico non può non essere fondato su "la difesa, la ricostruzione, la valorizzazione e l’abbellimento della terra sarda". Alla "monocultura della pecora" si è sostituita negli anni la monocultura petrolchimica e comunque industriale che ha semidistrutto la prima; ora questa sta implodendo, scossa da una crisi mondiale di cui ancora non scorgiamo le dimensioni; si sente qua e là avanzare la proposta di una monocultura turistica, forse meno devastante della seconda, ma certo pericolosa. È mai possibile che non riusciamo a pensare alla Sardegna come un’unica, irripetibile e allo stesso tempo variegata terra di prosperità?

Gianfranco Pintore

NO ALLA COSTRUZIONE DI UN AEROPORTO MILITARE

SALVIAMO S’INGUTIDROXA

Nella porzione del Salto di Quirra chiamata "Su Pranu", in territorio di Villaputzu al confine con Perdasdefogu, c’è un sistema di grotte tra le più importanti d’Europa. Un complesso di 12 Km di grotte carsiche, percorribili dall’uomo, il cui ambiente interno unico custodisce forme di vita altrettanto uniche, ad oggi parzialmente compromesso a causa delle attività addestrattive e sperimentali del Poligono Interforze del Salto di Quirra. Il sistema delle grotte di "S’Ingutidroxa" (o S’Ingurtidorgiu, nella varietà ogliastrina), si trova all’interno dell’area militare per cui sia le attività di tipo bellico che si svolgono, sia l’utilizzo dei munizionamenti e sostanze altamente inquinanti rischiano ora di comprometterlo in modo irreversibile. Il ministero della difesa italiana e varie multinazionali delle armi, sostenuti da diversi politici ed istituzioni locali e non, intendono realizzare un nuovo aeroporto militare proprio sopra le grotte, fregandosene sia della loro bellezza, sia della loro fondamentale funzione di filtraggio delle acque che dalla superficie vi confluiscono per poi dare corso al sistema fluviale che alimenta l’intera zona. Prima ancora che si sappia qualcosa in merito alle analisi che il medesimo ministero ha commissionato a ditte "amiche" (legate a doppio filo alle attività di guerra) miranti a rintracciare le cause o concause delle molteplici forme di cancro e malformazioni che colpiscono animali ed umani della zona, si è deciso la costruzione dell’aereoporto che sarà ubicato proprio sopra il complesso di "S’Ingutidroxa". Agitando il bastone a loro caro, lo spettro e spauracchio della disoccupazione, sventolando la bandiera di uno sviluppo del territorio che ormai promettono da 50 anni, si capovolge la realtà delle cose: esproprio di ben 12 mila ettari di terra, il suo stravolgimento a fini di esercitazioni ed esperimenti militari, esclusione delle popolazioni dalla gestione per usi civili della terra in cui abitano e delle sue risorse, per cui si spopolano i paesi e la disoccupazione aumenta fino a conoscere nuovamente un flusso migratorio che si sperava terminasse mezzo secolo fa. Crediamo che stavolta le prese in giro, le falsità, le promesse di un futuro radioso si scontrino con la volontà comune di chi abita nella zona di opporsi all’ennesimo scempio ambientale ed ai progetti di ulteriore devastazione della terra! Siamo fermamente decisi ad opporci alla costruzione dell’aeroporto per salvaguardare l’integrità di "S’Ingutidroxa" e di tutto i territorio. Vogliamo discutere e decidere come farlo con tutti coloro che, come noi, hanno a cuore la salute propria, dei propri cari e della terra su cui vivono.


ci riferisce Giovanni Strinna

TRENT’ANNI FA IL BOOM. ADESSO E’ TEMPO DI CRISI

L’AGONIA DELLE CAVE DI GRANITO

Non era il Klondike, e solo perché non c’era l’oro, ma la Gallura, allora, era qualcosa di molto simile. La corsa all’apertura di cave di granito dagli anni 70 alla fine dei 90, era stata talmente frenetica da cogliere tutti di sorpresa. La fila interminabile dei rimorchi al porto di Olbia, tanti padroncini coi camion che andavano e tornavano dalla penisola a ritmi pazzeschi, davano l’idea di un settore la cui espansione sembrava non dovesse mai fermarsi. Centinaia di cave in attività, migliaia di addetti e fatturati di assoluto rilievo da motivare la creazione di un distretto del granito in Gallura. Erano gli anni delle vacche grasse. Alla Regione, che all’epoca mostrava di credere nell’estrazione dei lapidei, qualcuno pensò che bisognava anche lavorare il prodotto in loco e non limitarsi a estrarre i blocchi ed esportarli in Toscana, dove, specie a Massa e Carrara, c’erano le segherie in grado di trasformarlo in lastre. Nacquero così diverse aziende. I segnali del cedimento hanno cominciato a manifestarsi sul finire degli anni 90. La Cina in primis – ora anche Vietnam, Corea, Brasile e Argentina – ha iniziato a invadere il mercato europeo e quello statunitense (un tempo appannaggio di sardi, spagnoli e portoghesi) con dei prezzi incredibilmente bassi. Concorrenza imprevista e devastante che ha determinato una crisi drammatica. Oggi sono un centinaio le cave in attività e il volume complessivo dell’estrazione è passato dai 400mila metri cubi del 1998 a 70mila e le migliaia di posti di lavoro ridotti ad appena 500. La Sardegna produce il miglior granito al mondo ma soffre dell’aumento dei costi dell’attività estrattiva e nei grandi appalti, dove serve il prezzo, spesso rimane fuori. Nel settore si avverte la mancanza di affermazione del "made in Italy" o del "made in Sardinia". Eppure grattacieli di Tokyo, New York e di altre grandi città del mondo, per non parlare dei pavimenti di moltissime piazze in ogni angolo del pianeta, sono stati realizzati con granito isolano. Anche se l’economia è fatta di cicli positivi e negativi e la capacità di produrre è rimasta intatta, gli imprenditori sardi sono disillusi e molto difficilmente investono al buio senza aver certezze. Esistono e sono solidissime, sotto ogni punto di vista, alcune aziende, ma sono poche rispetto alle potenzialità. Ed è un peccato, perché le nuove generazioni sono più colte, hanno una sensibilità maggiore per l’ambiente e non vengono ascoltate comunque. Soprattutto ora, in un periodo in cui l’aumento dei costi per l’estrazione tocca indistintamente tutti e il gap dell’offerta va riducendosi. Senza supporti legislativi ne di alcun genere, resta la difficoltà degli operatori ad accrescere la produzione e a esportare anche solo il blocco grezzo.

 

IL TRADIZIONALE RITO D’INIZIAZIONE DEI PASTORI DI BARBAGIA E’ DIVENTATO SPORT

S’ISTRUMPA, PER UOMINI DURI

Lungo le coste della Sardegna, un abbraccio fra due uomini dura il tempo di un saluto. Quando ci si inoltra verso l’interno aspro e montuoso, però, quell’abbraccio si fa sempre più stretto, tenace, durevole. Ha un significato diverso e non può sciogliersi finchè uno dei due non cade a terra, sconfitto. E’ un’usanza che dura da millenni (lo testimoniano alcuni bronzetti di età nuragica), un passatempo, uno sport, una lotta. Il suo nome è s’istrumpa. Letteralmente: scagliare al suolo con fragore. In questo caso, a terra, va buttato l’avversario. E’ una prova di forza, ma più della forza contano destrezza, velocità e senso dell’equilibrio. Le regole sono semplici, essenziali come la vita dei pastori della Barbagia, il luogo in cui s’istrumpa ha origine, quello dove c’è il maggior numero di praticanti. Avvinghiati all’altro in un abbraccio con le mani strette contro le scapole dell’avversario (che non è consentito mollare pena la sconfitta), con le teste una contro l’altra e le schiene inarcate e tese, bisogna far cadere l’altro a terra usando leve, spinte, sgambetti, trazioni e tutto quello che le gambe e l’inventiva suggeriscono al momento. S’istrumpa è un divertimento, un momento di aggregazione sociale, un cimento utile a dimostrare la propria balentià. A Ollolai c’è una Federazione che ha prodotto alcuni fra i migliori gherradores della specialità. I ragazzi calavano da tutti i villaggi del circondario di Ollolai e si radunavano a Gavoi. Si tenevano tornei estemporanei che servivano a passare il tempo, ma anche a sistemare antichi rancori e conti in sospeso fra villaggi. Le tradizioni sono sopravvissute in Barbagia e i tornei di s’istrumpa si tenevano in occasione delle feste campestri per la trebbiatura, la vendemmia, la tosatura delle pecore. Ma a poco a poco, scomparvero anche quelli: gli anni 70 poi, diedero il colpo di grazia. La gente voleva liberarsi del vecchiume, vivere modernamente, ristrutturare la casa, buttare via i mobili della nonna per sostituirli con quelli di formica: anche s’istrumpa fu archiviata. Fu la Federazione di Ollolai a recuperarla nella seconda metà degli anni 80, mettendo per iscritto un regolamento che si era tramandato oralmente, introducendo le categorie di peso, un limite di tempo per ogni incontro. Le nuove regole prevedono 5 riprese che non durano più di 20 secondi con un impegno fisico spaventoso. Si va in debito d’ossigeno quasi immediatamente è più che la tecnica comincia a essere importante avere fiato. Per i gherradores conta la vita nei campi, l’aria buona e le lunghe camminate nei boschi durante le battute di caccia, sono l’allenamento migliore. Una volta atterrato l’avversario, il combattimento si interrompe, guai al vincitore che infierisce sullo sconfitto. Nonostante i barbaricini prendano ogni forma di competizione mortalmente sul serio, chi non dimostra rispetto viene escluso dalla comunità e perde la faccia. S’istrumpa che oggi è riconosciuta dal Coni, è un rito di passaggio che si ritrova in tutte le civiltà, una sfida istintiva e ancestrale, la presa e la postura più naturali per due essere umani in lotta, la sublimazione di un retaggio genetico in gesto atletico. Forse non è un caso che i popoli che ancora oggi conservano tradizioni simili siano fra i più chiusi: gli scozzesi, gli abitanti di certe zone della Spagna agricola, di certe valli austriache, dell’Africa equatoriale. In effetti, la gestualità di s’istrumpa si ritrova pressoché uguale nelle lotte celtiche e nella lucha leonesa, della provincia spagnola di Castiglia y Leòn. Al punto che le varie discipline sono state riunite e ogni due anni c’è un campionato europeo al quale partecipano atleti di Francia, Spagna, Irlanda, Inghilterra,
Scozia, Olanda e Austria. Il prossimo sarà nel 2009, quello nazionale nel 2008 a Ollolai se la Federazione troverà i soldi. La speranza, inespressa ma intuibile, è che i soldi arrivino da oltreoceano. Da Franco Columbu, una sorte di zio d’America di tutti i gherradores che, emigrato in California negli anni 70, ha conquistato il titolo di Mister Universo, la sua fetta di gloria e anche l’amicizia di Arnold Schwarzenegger. Comunque, poco importa che il campionato del 2008 si svolga o meno: a contare è che s’istrumpa sia viva e mantenga un ruolo sociale che pochi sport possono vantare: oggi due giovani che litigano si minacciano di morte. Una volta dicevano: domani all’ora convenuta, la risolviamo andando a gherrare s’istrumpa.

Massimiliano Perlato

 

LE POESIE DI ZIA CLOTILDE, NOVANT’ANNI DI SACRIFICI

A PIEDI SCALZI SU UNA TERRA DI VETRO

Ricorda ancora molto bene quando andava "a piedi scalzi su una terra di vetro". Parole con cui Clotilde Serpi, 90 anni, di Ussaramanna, ha scelto di intitolare il suo libro d’esordio. Di parole Clotilde ne ha dette tante nella sua vita. Ma soprattutto ne ha affidate tante ai suoi quaderni, dove sino a pochi anni fa ha scritto poesie e racconti in sardo ed italiano. "L’ho sempre fatto per il puro piacere di scrivere" ha esordito la nonnina, "avrei voluto studiare, ma la mia famiglia era povera e mi sono fermata alla terza elementare. Avrei voluto fare la biologa, sono sempre stata curiosa". Ha frequentato la scuola da piccola per soli tre anni ma zia Clotilde parla un italiano corretto e scorrevole. I suoi modi sono quelli di una signora d’altri tempi: un rispetto e una dignità che hanno tanto da insegnare. La sua è una storia di sofferenze e sacrifici per la famiglia. Novant’anni di vita che raccontano anche il passato di Ussaramanna. "Ho iniziato a scrivere da piccola. Quando una mattina andavo in campagna e camminavo sul fango dove c’erano le impronte delle pecore, che si riempivano del ghiaccio della brina", ha aggiunto la scrittrice coi capelli bianchi. Zia Clotilde ricorda ogni particolare della sua vita con una memoria lucida. "Mi è rimasta solo quella", ha detto l’anziana. E’ umile. Non le piacciono le luci della ribalta. In gioventù è stata a servizio a Cagliari nella casa di una famiglia benestante. Poi la paura delle bombe nella guerra, la morte del marito ancora giovane e del caro figlio Aldo appena due anni fa. Dolori che zia Clotilde ha superato grazie ai suoi quaderni, a cui ha affidato sentimenti ed emozioni. Lei ricorda a memoria ogni poesia. Allora recita: "Quando sono sola e penso, mi domando la gente del mondo sta andando?". Versi che si concludono così: "figli miei, vivete in pace, voletevi bene". Pillole di saggezza che Ussaramanna ha voluto costudire.

Valeria Mura

 

UNO STORICO SARDO ALLA SCOPERTA DELL’ARGENTINA DEGLI ANNI VENTI

IL LIBRO DI DIMITRI PAPANIKAS

Presso il circolo "Sardi Uniti" di Buenos Aires, lo storico di origine sarde Dimitri Papanikas ha presentato il suo volume in corso di ultimazione dal titolo "Por la Raza y por el Capital. La invención de la identidad en un país de inmigrantes. Argentina 1916-1930". Dato il grande interesse riscosso rispetto ai temi trattati, la conferenza è stata trasmessa in tutto il paese sulle frequenze di Radio El Pueblo. Tema centrale del libro del dott. Papanikas è la storia della connotazione del tradizionale modello migratorio argentino in chiave ultranazionalista e della sua strumentalizzazione da parte della classe politica e intellettuale dei primi decenni del secolo scorso. In particolare sono state analizzate le tecniche di «invenzione della nazionalità e della tradizione» come strumento escludente la diversità finalizzato alla costruzione di una società omogenea e disciplinata. Una ridiscussione critica dei processi di costruzione di uno tra i più efficaci, ma anche controversi, miti fondativi della Nazione. In Argentina da due anni, allo storico sardo è stata concessa la possibilità di accedere ad alcuni tra i più importanti archivi storici del paese (Archivo General de la Nación, Archivo de la Cancillería del Estado e Archivo del Ministerio de Asuntos Exteriores y Culto) con il fine della preparazione del suo volume per conto del Dipartimento di Storia Contemporanea dell’Universidad Autonoma di Madrid (España). Contestualmente, per i microfoni di Radio Nacional Argentina Fm Classica, Papanikas è stato autore e conduttore di un ciclo di puntate dedicate alla musica italiana d’autore per il programma "Futuro Antiguo". Un programma attraverso il quale è stata offerta al pubblico argentino la possibilità di conoscere alcune tra le più interessanti realtà appartenenti alla tradizione musicale europea tra cui ampio spazio è stato dedicato alla musica tradizionale della Sardegna. Artisti come Tenores di Bitti, Luigi Lai, Claudio Sanna e i Calic di Alghero ma anche una serie di canti provenienti dai repertori liturgici di numerose realtà locali dell’isola hanno trovato spazio in un programma che ha riscosso grande interesse presso pubblico e critica in tutta Argentina.

 

 "SA COVECCADA" IL DOLMEN PIU’ GRANDE DEL MEDITERRANEO

SI TROVA NEL TERRITORIO DI MORES

Il territorio di Mores, che si estende per 95 chilometri quadrati, è incuneato tra quello di Ozieri da un lato e quelli di alcuni paesi del Meilogu dall’altro, Siligo, Bonnanaro e Torralba; si trova quindi proprio al centro della più vasta regione che occupa la parte centrale del capo di Sopra, il Logudoro. È una distesa di basse colline, dominata a nord-ovest dalla caratteristica massa del monte Santo (733 m) e costituita in parte dalla piana di Chilivani e Ozieri. Terre adatte sia all’allevamento che alle coltivazioni, nelle quali strade e ferrovie corrono con relativa facilità. Il paese, che conta circa 2.000 abitanti, si trova lungo la statale 128bis che collega la superstrada Cagliari-Sassari a Ozieri; da questa si distaccano rami secondari per Ardara e Chili
vani a nord, per Ittireddu e il Goceano a sud. A 5 km dal paese si trova la stazione lungo la linea ferroviaria Macomer-Chilivani, oggi scarsamente utilizzata. Si trovano tracce di antichi nuclei abitati, ma dell’insediamento attuale si ha notizia solo a partire dal Medioevo: dopo aver fatto parte del giudicato di Torres fu sottoposto come il resto dell’isola al regime feudale; conobbe fasi di spopolamento e fu sotto il controllo di diverse famiglie nobili. Liberato da questi vincoli nel corso dell’Ottocento, ha avuto in seguito un notevole aumento del numero degli abitanti, che nel 1951 sono arrivati a superare le 3.300 unità; poi è iniziato il calo, legato all’emigrazione e al trasferimento delle famiglie verso i centri maggiori dell’isola. Oggi Mores vive, non diversamente da tanti altri paesi sardi, di allevamento e agricoltura, più alcune modeste forme di artigianato, gli impieghi e le pensioni. Ma si distingue per la presenza, sia nel paese che nel territorio, di alcuni importanti monumenti. Il più noto è il campanile, che spicca per la sua altezza sullo sfondo della via principale, il corso Vittorio Emanuele. Di stile neoclassico, è ornato di decorazioni, più ricche ed elaborate man mano che si sale di quota: dapprima colonne, cornici e false finestre; poi, all’altezza delle campane, le statue dei quattro evangelisti; poi un terrazzino, al centro del quale si leva la lanterna cilindrica, tutta percorsa da un elaborato festone; infine, al culmine, la statua del Redentore. Autore del capolavoro l’architetto Salvatore Calvia, nativo del luogo, allievo a Torino del celebre Antonelli; la costruzione si concluse nel 1871. Molto più semplice il monumento che si trova nella vicina campagna, in una valletta a sud del paese: ha tutte le apparenze di una chiesa campestre, in realtà è tutto quello che rimane del villaggio di Todorache: un’iscrizione in sardo spiega che la peste, arrivata nel 1652, risparmiò soltanto tre famiglie; le quali, ovviamente, finirono per trasferirsi a Mores. Più antica e originale la costruzione che si trova un po’ più lontano, oltre il rio Mannu: è il dolmen Sa Coveccada, che con la sua forma colpisce l’attenzione al solo vederlo in fotografia. Sorge su un pianoro rilevato rispetto alle zone circostanti. La struttura è semplice: due lastroni di trachite sistemati verticalmente ne reggono un terzo che fa da tetto; manca la parete posteriore mentre quella anteriore è il masso attraversato dalla piccola porta che maggiormente colpisce l’attenzione. Il vano interno, lungo oltre quattro metri, fa supporre che si trattasse di una tomba collettiva: i cadaveri venivano lasciati scarnificare all’aperto, quindi introdotti attraverso il varco. Secondo gli studiosi fu sviluppando questa struttura elementare (utilizzata tra il terzo e il secondo millennio avanti Cristo) che le antiche popolazioni arrivarono alle allées couvertes (gallerie coperte); e infine, con l’aggiunta della stele e di una struttura a semicerchio, alle tombe di giganti sparse in tante parti dell’isola.

Salvatore Tola

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