La montatura dell'otto marzo

di Michela Murgia

 

Io l’ottomarzo mi sono svegliata con una donna nel letto e un tappeto di lana di pecora addosso, ma questa storia è meglio cominciarla dall’inizio, sennò poi uno non capisce. L’ottomarzo incarna la mia nemesi, e spesso si mette d’accordo con il primomaggio per perseguitarmi. L’evenienza di aver scritto di precariato essendo in possesso casuale di un utero fa sì che in quelle due date io perda la mia solita identità per assumere quella dell’ospite perfetto di convegni sul lavoro, tavole rotonde sulla donna o, apice delle perversioni, dibattiti sul lavoro femminile. A volte sono cose degnissime, ma più spesso si tratta di imbarazzanti ginecei raccogliticci, menopause impellicciate o liceali coattamente condotte da donne che nel giorno della donna si sentono appagate solo se riescono a fare cose per altre donne prima di tornare a casa, scaldare la cena e avvisare il marito che hanno preso trenta euro dal suo portafoglio per andare in agriturismo a mangiare la pizza con le amiche. Distratto dalla partita, lui non fa storie, perché dopotutto è la festa della donna. Va da sé che io, se posso, l’ottomarzo mi do malata. Non mi prendeva il telefono, scusa. Ero in gita fuori porta, no, non con le amiche, col cane, che io le donne proprio no. Ah, le mimose che mi hai mandato erano buonissime. Certo che le ho mangiate, lo sai che sono vegetariana, quando vedo piante in fiore non capisco più niente, pensa che l’altro giorno nel giardino pubblico a Porta Venezia ho mutilato una magnolia a morsi, e un bambino mi ha visto, si è messo a piangere e ha chiamato la madre, ma vabbè, non è questo il punto. Il punto è che questo ottomarzo mi è stato chiesto di tenere un intervento a un convegno dal tema "Prospettive di genere nella tradizione cristiana: un risarcimento possibile?", e di farlo insieme a due nomi illustri della teologia italiana, Marinella Perroni e Cristina Simonelli. Il senso del pudore avrebbe dovuto sconsigliarmi di accettare l’invito, perché 29 esami in scienze religiose non costituiscono titolo sufficiente per inserirmi in un contesto così specializzato senza fare figuracce; ma io il senso del pudore l’ho perso tutto nel 1986 quando mi sono comprata il 45 giri di The Final Countdown, e comunque a quel tema non potevo resistere. Quindi sono saltata in macchina con Simona, e con sprezzo del pericolo e del freddo abbiamo affrontato le curve della Barbagia invernale come Telma e Louise. È giusto dire che il convegno era organizzato dall’amministrazione comunale, il che potrebbe sembrare strano di primo acchito dato il tema, se non si tiene conto che nei piccoli paesi chi trasmette l’imprinting della sottomissione femminile è proprio la parrocchia. Dunque un sindaco donna che organizza per l’ottomarzo un convegno sul tema della ginofobia ecclesiastica è un genio del marketing che merita il mio rispetto, tanto più se è capace di convincere il recalcitrantissimo parroco a compiere l’atto masochistico di aprire i lavori. Il convegno è andato bene, perché non dirlo. Ma solo alla fine di tutto, quando ci hanno portate a cena in un agriturismo, mi si è rivelato, in una casereccia epifanìa, il senso ultimo di ogni cosa. La legge del contrappasso imponeva che io, Simona e le due teologhe, dopo aver discettato per ore dei meccanismi patriarcali insiti in una certa lettura della Bibbia e della Patristica, finissimo a cenare dritte dentro una classica festa della donna, karaoke compreso, circondate da decine di donne intente a divorare con ferocia la loro quattrostagioni cantando stonate Maledetta Primavera. Qualunque maschio si presentasse alla porta per chiedere un tavolo riceveva un perentorio "Fuori gli uomini!", e solo una coppietta con un lui vistosamente a disagio ha potuto sedersi per mangiare. Io ci ho provato, lo giuro. Mi sono anche alzata a cantare Born to be Abramo, ancora pervasa di senso teologico, ma non è servito a molto. Per tutta la cena, tra scorci di fauci al microfono e mises degne di più accessoriato pubblico, ci siamo chieste il perché, e un po’ anche il per chi, e abbiamo continuato a domandarcelo almeno finché tra urla selvagge non è cominciata la batteria di Ti raserò l’aiuola; lì l’ho ammetto, ho gettato la spugna senza più cercare un senso. L’unico dubbio che mi è rimasto era che fosse stato il parroco ad organizzare tutto, per darci una personalissima lezione sull’inutilità del nostro andare in direzione ostinata e contraria. Io e Simona siamo andate a letto intirizzite dal freddo gelido dell’inverno barbaricino, liete che l’errore di assegnarci una matrimoniale ci permettesse di applicare il vecchio metodo del bue e dell’asinello, con l’aiuto del tappeto di lana di pecora, delle tende di lino e degli asciugamani di spugna che abbiamo staccato dalle rispettive sedi per impilarli sulle coperte a mò di polmone d’acciaio, nell’inutile speranza di rendere meno polare la temperatura.

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