SA MUSCA MACEDDA: LA CREATURA MOSTRUOSA CUSTODE DEI TESORI

di ROBERTA CARBONI

La Sardegna racconta, attraverso le sue leggende, un mondo contadino ed agropastorale lontano da quello che siamo abituati a vivere oggi. Si tratta di un mondo quasi del tutto scomparso popolato da demoni, streghe, spiriti, folletti e creature mostruose che scaturiscono dalla paura e dalla superstizione e portano con sé residui di miti, rituali e antiche religioni frutto di straordinarie e affascinanti contaminazioni culturali.

Molte di queste leggende, da sempre tramandate perlopiù oralmente, sono state raccolte da Dolores Turchi nella sua trattazione “Leggende e racconti popolari della Sardegna”.

Alcune hanno un’origine medievale, altre sono molto più antiche, arrivando talvolta ad assomigliarsi e differire per alcuni particolari. Tra queste, in particolare, si racconta di una creatura mostruosa ed assassina, posta a custodia dei tesori nascosti; il suo nome, “sa musca macedda”, significa “mosca macellaia” o, secondo altre fonti, “mosca matta”.

Si tratta di una leggenda diffusa in tutta la Sardegna, seppur con alcune varianti relative soprattutto alle dimensioni e all’aspetto della creatura. Descritta talvolta con le apparenze e le dimensioni di un tafano, oppure grande come una pecora o la testa di un bue, “sa musca macedda” è dotata di un pungiglione velenoso e mortale, due o più occhi rosso fuoco e infine due grosse ali il cui ronzio veniva avvertito nel raggio di diversi chilometri. La sua missione era quella di proteggere i tesori dai cercatori “indesiderati”, cioè coloro che profanavano i luoghi sacri per appropriarsi delle ricchezze in essi custodite. Si narra, infatti, che nei pressi di pozzi sacri, nuraghi, torri e castelli, gli antichi avessero nascosto dei tesori, probabilmente per sottrarli al furto dei predatori del mare.

Pur senza mai riuscire a dominarla definitivamente, a partire dall’VIII secolo d.C. gli arabi tentarono numerose e talvolta frequenti incursioni sull’isola. I primi a soccombere erano i villaggi che sorgevano in prossimità delle coste che, puntualmente, venivano saccheggiati e distrutti e i suoi abitanti uccisi o resi schiavi. Per proteggere le proprie ricchezze, quindi, col tempo gli abitanti dei villaggi avevano cominciato a seppellire i propri oggetti cari nel sottosuolo, scegliendo luoghi simbolici dove poi, un domani, sarebbero tornati a cercarli. Secondo altre credenze, invece, erano i pirati stessi a disfarsi velocemente dei bottini accumulati nelle varie scorrerie, in modo da alleggerire il carico delle navi e riprendere con più facilità il largo.

Ad ogni modo, la presenza dei tesori nascosti era un fatto assodato, al punto tale che spesso i più temerari si cimentavano nelle ricerche. Talvolta ci si affidava all’aiuto di rabdomanti, esorcisti, streghe o indovini, chiamati in causa per guidare le ricerche. Altre volte, invece, ci si avventurava da soli o in compagnia di qualche parente o conoscente. In altri casi, invece, ci si affidava ad un sogno premonitore. La dimensione onirica è spesso associata alla ricerca di un tesoro. Questo perché, nelle comuni credenze popolari, erano i sogni a diventare segni tangibili in grado di guidare le ricerche, soprattutto se ripetuti.

Forse per scoraggiare la ricerca dei tesori, che secondo la leggenda scelgono a chi rivelarsi attraverso i sogni, si ricorse ad un potente dissuasore: la paura della “musca macedda”. Quest’ultima, infatti, avrebbe fatto a pezzi chiunque si fosse imbattuto nel tesoro senza esserne il legittimo proprietario o colui che era destinato a trovarlo. Una variante di questa leggenda riferisce, invece, che quando gli antichi desideravano proteggere un tesoro, lo custodivano in una cassa o in una botte di legno accanto alla quale ne ponevano un’altra identica piena di “musca macedda”. E’ per questa ragione che nessuno aveva il coraggio di andare a cercare i vari tesori sparsi per la Sardegna, poiché, aprendo il baule sbagliato, avrebbe rischiato di rimanere ucciso.

Ancora oggi, si dice, la creatura mostruosa attende in silenzio per anni, a volte secoli, in attesa di qualcuno che la risvegli. Si dice anche che i terribili insetti custodiscano i tesori delle Janas, intente a filare sui loro telai d’oro.

Tra le tante leggende sulla “musca macedda” raccontate da Dolores Turchi, una riguarda il Castello di Navarra, nei pressi di Lotzorai. Il maniero fu costruito per volontà della principessa Lacana che, lasciata sola dal marito partito per una guerra, vi si trasferì per difendersi dai nemici. Quando la guerra finì, la donna raggiunse il marito, nascondendo nel castello un grande tesoro che poi sarebbe tornata a prendere. Ma temendo che i servitori potessero impadronirsene, il tesoro fu diviso in due forzieri che poi furono sigillati. Prima di partire, Lacana scrisse una lettera nella quale esplicitava che uno dei due forzieri conteneva uno sciame di “musca macedda”, la cui puntura era letale, consigliando a chiunque vi si fosse imbattuto, di non aprire i forzieri, in modo da non correre il rischio di essere sopraffatto dalla creatura demoniaca. La lettera, inoltre, conteneva un’altra importante prescrizione: l’apertura della cassa sbagliata avrebbe provocato la morte degli abitanti dei 7 villaggi più vicini al castello. Nessuno osò mai avvicinarsi al tesoro, né tentò di aprire i forzieri. I servitori del castello preferirono rimanere poveri piuttosto che arricchirsi a spese degli abitanti dei 7 villaggi vicini. Pertanto, pian piano, essi si stabilirono in una località vicina e cominciarono a costruire le proprie abitazioni, in modo da vegliare sul castello e assicurarsi che nessuno profanasse le ricchezze in esso custodite. Da questo primo insediamento ebbe origine, secondo la leggenda, il paese di Lotzorai.

Una storia analoga riguarda il castello di Monreale, nei pressi di Sardara. Un tempo molto grande, con mura possenti ed eleganti torrioni, il rudere del castello svetta ancora oggi sulla collina a ricordare il suo passato glorioso. La leggenda racconta che il castello appartenesse ad un nobile ricco e potente, odiato da tutti per la sua arroganza e cattiveria. Consapevole dell’odio nei suoi confronti, l’uomo rimaneva chiuso notte e giorno nel suo castello, senza mai uscire. Le rare volte in cui lo faceva, si serviva di cunicoli sotterranei che si era fatto costruire in gran segreto dai suoi servitori per poi ucciderli senza rimorsi e, una volta fuori, montava su un cavallo al quale aveva fatto mettere i ferri al contrario, così che nessuno potesse seguire le sue tracce. Secondo la leggenda il cunicolo esiste ancora e sotto le rovine c’è anche il tesoro del castellano, chiuso in una botte ben nascosta. Ma anche in questo caso, nessuno degli abitanti ha mai osato cercarlo, temendo che la maledizione della “musca macedda” possa ancora avverarsi.

Anche nelle campagne di Quartu Sant’Elena, nei pressi del Nuraghe Diana, esisterebbe un tesoro, le cui ricerche, si dice, siano costate la vita a molte persone anche in tempi recenti, compromettendo, tra l’altro, l’integrità del monumento già deturpato dalla trasformazione del mastio in una torre d’avvistamento parte della Batteria Carlo Faldi. A tal proposito ha scritto un interessante saggio Giovanni Panunzio, dal titolo “Il segreto del Golfo di Cagliari”. Secondo la leggenda, il tesoro di Capitana – località stupenda nel litorale di Quartu Sant’Elena – è circondato da una maledizione che avrebbe colpito chiunque abbia provato a cercarlo. Che sia opera, anche in questo caso, de “sa musca macedda”? Resta il fatto che questa località è conosciuta anche come “Terra Mala” o “Is Mortorius”. Semplice coincidenza?

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