QUEL VELENO CHIAMATO ABITUDINE: VIVERE L’ISOLA DALL’ESTERO E OSSERVARE L’IMMOBILISMO CHE LA SOFFOCA

immagine di Neuss in Germania, località dove vive l’autore dell’articolo

di PIETRO CASULA

L’abitudine è un fenomeno che merita riflessione. La psicologia la definisce come diminuzione di capacità di reazione quando le persone vengono ripetutamente esposte allo stesso stimolo, alle stesse cose. L’essere umano ha, cioè, la capacità di mettere in secondo piano tutto quanto sia inquietante, fastidioso. E questo può rivelarsi utile se non addirittura basilare per sopravvivere.

Non esplodere di rabbia ogni qualvolta il tempo non risponde alle nostre previsioni, ai nostri desideri o anche non infuriarsi quando il lavoro dei nostri rappresentanti politici non corrisponde alle nostre aspettative, nella vita quotidiana aiuta certamente. Senza questa forza, senza questa capacità la maggior parte delle persone distruggerebbe la propria esistenza a casa della loro sensibilità..

L’abitudine è un mantello protettivo per l’anima, un meccanismo necessario per adattarsi al corso mutevole degli eventi della propria esistenza e per tenere sotto controllo la propria emotività.

Tuttavia, l’abitudine è anche un nemico della partecipazione alle vicende, agli interessi della collettività.

E proprio in questi giorni, quando in Sardegna a poco più di un mese dalla più cocente sconfitta dell’intera sinistra, si ha la sensazione che nel PD – da cinque anni alla guida della Regione – non si abbia sufficiente consapevolezza delle dimensioni e ancor più delle implicazioni che comporta questa debacle, osserviamo su noi stessi con quale rapidità l’abitudine si trasforma in insensibilità, indifferenza e disinteresse che poi degenera nello sport preferito di noi sardi: il vittimismo.

La colpa è sempre degli altri; di questa classe dirigente, dei politici locali, regionali e nazionali, per non dimenticare poi i burocrati europei.

La colpa è sempre degli altri, ma mai nostra che li votiamo e ri-votiamo in cambio di promesse (che rimangono sempre tali), in cambio di qualche briciola.

Riflettendo un momento, il discorso politico-culturale sardo esprime esattamente la situazione reale: l’assenza di un briciolo di autocritica, di uno straccio di analisi da parte della (classe) politica da un lato e dall’altro un popolo in una situazione di perenne, sconcertante infantilismo che non sa o non vuole diventare grande. Saprà mai dimostrarsi all’altezza di accettare questa sfida della globalizzazione, fare cioè di questo possibile paradiso terrestre, della sua cultura, tradizioni e potenzialità, un soggetto di primo piano nel mondo? Decisamente si. Occorre un colpo di reni, una scossa decisa, una rivolta pacifica e civile per scardinare un sistema politico di basso profilo, subalterno, a testa bassa e col cappello in mano verso un governo nazionale tutt’altro che amico.

Riprendiamoci la nostra terra, con investimenti mirati e produttivi, per esempio, nell’industria agroalimentare e industrie di trasformazione, riscopriamo la nostra vocazione agropastorale.

Riscopriamo la bellezza della nostra isola, con investimenti in turismo e cultura, in formazione, in ricerca e innovazione tecnologica. Dimostrare di essere all’altezza di un simile compito, rimandato o tradito per troppi decenni, significa evitare che i nostri giovani, formati dalle nostre università, siano costretti a partire per cercare futuro e fortuna altrove.

Significa mettere a punto strategie per far tornare davvero – e con un ruolo degno delle competenze acquisite – quelli che sono andati via. E soprattutto significa investire a livello territoriale e imprenditoriale puntando su questa terra e sul valore dei suoi enormi potenziali e dei suoi abitanti.

Bisogna avere il coraggio di intraprendere strade nuove, aprire un confronto con quei movimenti che da anni si battono, con coerenza e serietà, per l’autodeterminazione, nella consapevolezza che solo un progetto politico capace di dare risposte ai bisogni dei cittadini, della comunità , in particolare ai più deboli e fragili, agli emarginati, potrà consentire di avere un ruolo in Sardegna, nel Paese, in Europa.

Solo insieme potremo scardinare questo sistema marcio, subalterno e di basso profilo e ricostruire uno Stato e una classe politica degna e capace di realizzare l’impresa di raddrizzare la schiena e riprendere -finalmente – a camminare a testa alta verso un futuro migliore. E questo non lo dico solo per esprimere un simpatico gesto o modo di pensare, ma perché è obbligo morale.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Un commento

  1. È vero, abitando fuori, si diventa più propositivi, il vero problema è….. Quando si rientra nella nostra terra e ci inabissa la rassegnazione. Bravo Casula. Bellissima riflessione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *