MUSICA DENTRO! PAOLO FRESU E IL DESIDERIO DI CONDIVIDERE CON GLI ALTRI LA PASSIONE PER LA SUA TROMBA

Paolo Fresu


di Sergio Portas

Secondo quello che dice Wikipedia in quel fatale 1961 in cui venne al mondo (era di carnevale) Berchidda ebbe il suo picco massimo d’abitanti, ben 3576 (erano 2923 nel ’31 sono 2946 oggi) e Paolo Fresu si può quindi ascrivere al numero di quei berchiddesi che prima contribuiscono ad affollare le strette strade di paese quando passa la processione de s’Incontru, salvo poi lasciarsele per sempre alle spalle per inoltrarsi in quello che un suo altrettanto famoso conterraneo ( Gramsci n.d.r.) avrebbe chiamato il mondo grande e terribile. Per diventare l’artista di fama internazionale che è. Al teatro Strehler di Milano per MiTo, il festival internazionale della musica e con lui sono Uri Cane, pianista jazz di Philadelphia, il “ Paolo Fresu Quintet”  e il Quartetto d’archi Alborada. Inutile dire che i biglietti sono esauriti da tempo, io riesco ad entrare solo grazie alla generosità di Pierangela Abis, che qui a Milano presiede il circolo culturale sardo, anche lei di Berchidda: Paolo da buon paesano le ha regalato due biglietti. I ringraziamenti di rito a dopo lo spettacolo. Ma prima di dirvi dell’incanto della sua musica, della sua tromba, del suo flicorno, mi piace soffermarmi sulla statura d’uomo che Paolo Fresu è, sulla sua statura di sardo.  Mi aiuto tenendo aperto il libro che ha scritto per Feltrinelli giusto un anno fa :”Paolo Fresu, Musica dentro”, con cui tenta di spiegare come si sia potuto avverare questo miracolo che lo ha fatto decollare dalla banda del paese ( Ricordo quando indossai per la prima volta la divisa. Non stavo nella pelle. Era una giacca pesante, blu scuro, con una lira in filo dorato ricamata sulla manica destra e un cordone sempre in oro sulla sinistra. In seguito abbiamo avuto altre divise ma quella giacca è rimasta la più bella di tutte. Pag.17) ai più prestigiosi teatri dell’intero mondo. Il babbo di Paolo era, è che non si smette veramente mai, pastore e contadino (Di giorno stavamo a Tucconi o nelle altre tanche che avevamo in affitto, la sera ritornavamo a dormire in paese. Pag.19). E Paolo, come si usa in Sardegna, fin da piccolo è immerso nelle mille faccende che competono a chi lavora la terra e si occupa del bestiame: tosatura delle pecore in estate, la vendemmia e la raccolta delle olive d’autunno, l’uccisione del maiale in inverno. E poi sarchiare, attendere che la brocca si riempia col filo d’acqua che scende dalla roccia, innaffiare l’orto di sera, trasportare a spalla balle pesanti di fieno e le strisce di sughero appena strappate dai tronchi, “dai luoghi più impervi di montagna, in mezzo ai rovi e ai dirupi, giù fino a valle” (pag.22). Con le formiche rosse che ti mordono il collo sudato e impolverato. A premio castagne cotte sotto la cenere calda o un pezzo di formaggio infilzato su una leppa, bere la panna del latte di pecora appena munto nello stazzo prendendolo dalla “cadina”. Come dire che questi di “slow food” che ora impazzano nel mondo non si sono inventati niente. Buon chierichetto Paolo, uno di quelli che si sveglia presto per essere presente alla messa delle sette. E’ lì che impatta sulla meraviglia dell’organo, alla destra dell’altare, nella cappella accanto alla sagrestia: “ Quando dall’Africa ritornava Bustieddhu, il mio padrino missionario, stavo ore a sentirlo suonare e mi sembrava un’orchestra” (pag. 27). Bustieddhu per i non berchiddesi doc è al secolo don Teresino Serra, avendolo conosciuto qui a Milano posso tranquillamente svelarvi che lo sponsorizzerò per il prossimo conclave vaticano, intanto è diventato generale dei padri Comboniani, quei preti dalle missioni impossibili, quelli di “Nigrizia” e di Alex Zanotelli, che dicono l’acqua essere bene comune dei popoli, come l’aria e la pace, tutte robe che non si quotano a Wall Street. E che non hanno paura a dire a Mario Monti che comprare 95 caccia bombardieri F35 al costo unitario di 100 milioni di euro, quando nella legge finanziaria non si prevede un solo euro per i malati di SLA, non è una follia ma una  porcheria bella e buona. Non sarà un caso che Paolo Fresu vada a scrivere la prefazione del libro di Carlo Porcedda (Lo sa il vento, ed. Verdenero) sulle malefatte delle servitù militari in Sardegna. Questa madre terra tanto amata che è andato visitando in cinquanta diversi luoghi, dove ha naturalmente dato spettacolo con la sua tromba per cinquanta diversi progetti musicali, l’anno scorso, ognuno per i suoi cinquanta anni: “ …ho visto pastori declamare poesie a memoria, medici piangere davanti agli ammalati, tzie recitare rosari che erano melodie scolpite come una dea madre di Nivola. Ho visto donne al centro del mondo in borghi dai nomi mai pronunciati e sindaci coraggiosi capaci di cambiare il mondo amministrando paesi di poche centinaia di anime” (op.cit.pag.13). Qui allo “Strehler” inizia con Uri Cane, l’uno e l’altro si dicono delle frasi coi loro strumenti, prima il pianoforte poi il piano elettrico per Uri, la tromba e il flicorno di Paolo, duettano musicalmente, e il loro intercalare arriva magico e pregnante di senso anche a noi seduti in poltrona. Vicino a me un anziano meneghino afisionado di jazz che con voce stentorea approva e critica ogni passaggio musicale e non solo: quando Paolo presto si toglie le scarpe e rimane a piedi nudi sbotta: “Questo non lo doveva fare!”. Né gli piace molto il meticciato musicale creato dall’incontro del quartetto d’archi Alborada ( uno dei due violini la moglie di Paolo, Sonia Peana) con il “Paolo Fresu Quintet” la storica formazione messa su con Roberto Cipelli (pianoforte) nel 1984. Un progetto artistico tra i più longevi in Italia e, scrive Luciano Viotto sul dépliant della serata, a Fresu piace pensare che nella storia del gruppo ci sia qualcosa di “misterioso e di sfuggevole come nel jazz, dove si crea l’alchimia di una coppia perfetta”. Gli arrangiamenti degli archi sono del maestro Giulio Libano, uno che ha “fatto” la storia musicale italiana, sotto la sua direzione il primo disco nell’oramai lontano 1960 di un ragazzo che ne avrebbe fatto di strada: tale Adriano Celentano. A parte il mio vicino di sedia, il teatro viene giù dagli applausi, questo sentire le armonie di Gherswin che scorrono sulle note dei classici e dei maestri d’opera come fossero un fiume carsico che se ne deve pure uscire per il troppo spumeggiare, conquista la platea. Un pezzo di carta bianca se ne viene giù dall’alto del palcoscenico, lanciata da chissà quali mani. E alla fine dello spettacolo, quando saliamo sul palcoscenico, con Pierangela, a scambiare saluti e baci coi coniugi Fresu, mi imbatto in Andrea Fresu che, dall’alto dei suoi quattro anni, ha per le mani quel magico foglietto che , non si sa come, se ne è sceso di lassù. Lo fissa con la meraviglia dei bimbi, lui oramai “vecchio di palcoscenico”, trovando miracoloso che abbia potuto volare meglio dell’aeroplanino di carta che stringe nella destra. Anzi ora l’aeroplano decide di lanciarlo e finisce in platea. Svelto come un gatto selvatico scavalca il dislivello e se lo riprende, protetto da un via vai di persone che per lui agisce da “genitore collettivo”. Nel mentre mentre il suo babbo dice a Pierangela del progetto che sta mettendo su col Politecnico di Milano, l’ennesimo di un numero davvero infinito,  i più diversi fra di loro che spaziano dai duecento concerti che fa ogni anno, la registrazione dei dischi, duecentosettanta finora di cui oltre trenta a proprio nome, le direzioni artistiche del festival “Time in jazz” di Berchidda e dei seminari jazz di Nuoro, il suonare ospite in grandi orchestre italiane e straniere, il coordinare progetti multimediali collaborando con attori, danzatori, pittori, scultori, poeti, lo scrivere musiche per film, documentari, video per balletto e teatro. E meno male che , scrive nel suo libro: ” Ero di salute cagionevole, avevo spesso la febbre. Mangiavo poco, al punto che mia madre era costretta a ingollarmi a forza e la minestra mi usciva dal naso” (pag.18). Questa mamma, vero capofamiglia, come nella migliore tradizione
matriarcale sarda; sa sempre tutto, e quello che non sa lo immagina (pag.25). Andrea viene su pensando che la normalità sia che babbo e mamma suonino sui palchi dell’intero mondo, e che oggi il vero miracolo sia un aeroplano di carta che riesca a librarsi con soffio di magia in un orizzonte di teatro. Per Paolo ci sono stati i graniti del Limbara, sempre a fare da quinte, per scavalcarli e volarsene via da Sardegna usa una tromba, anche per condividere con  noi la musica che ha dentro.

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