CONVEGNO DE "IL GREMIO" DI ROMA: IL DOSSIER STATISTICO CARITAS/MIGRANTES. L'EMIGRAZIONE NELL'ESPERIENZA DEI SARDI

nella foto da sinistra: Gemma Azuni, Roberto Olla, Angel Miguel Oropeza, Raffaele Callia, Pape Kanoutè, Ilaria Onorato, Antonio Maria Masia


di Raffaele Callia

Permettetemi anzitutto di ringraziare coloro che hanno organizzato questa serata: una circostanza lieta di incontro fra sardi migranti, di ieri e di oggi, e di condivisione fra quanti, a vario titolo e da diversi osservatori, si occupano quotidianamente di migrazioni. Una feconda occasione di convivialità delle differenze, come direbbe l’indimenticato don Tonino Bello, che è anche per me opportunità per un’altra attestazione di gratitudine.  Il mio grazie va a Franco Pittau: anzitutto per la sua amicizia e per gli stimoli che solo da un autentico mèntore come lui possono provenire; sulle questioni socio-culturali poste dai fenomeni migratori, così come su diversi temi di carattere generale che ci hanno visti compagni di viaggio in questi anni. Stimoli continuamente rinnovati, con un’invidiabile energia, freschezza e curiosità da parte sua, in un coinvolgimento di persone, istituzioni, idee progettuali che è difficile censire nel dettaglio e che, almeno per il sottoscritto, hanno riguardato, fra gli altri: il Dossier Statistico Immigrazione, il Rapporto Italiani nel Mondo, gli studi per EMN (European Migration Network), il Cnel e l’Inps, per non parlare dei viaggi-studio compiuti insieme a lui e agli altri redattori del Dossier in Ucraina, in Argentina, a Capo Verde e, di recente, nelle Filippine. Tante occasioni in cui è stato in grado, con grande generosità, di far crescere gli altri.  Venendo al tema affidatomi (Emigrazione e immigrazione nell’esperienza dei sardi), e tenuto conto del tempo a disposizione, credo sia importante partire da un punto fondamentale che ho già avuto modo di sviluppare nel recente passato. Nello studio dell’esperienza migratoria non si può rinunciare a un’analisi sulle dimensioni regionali. Da un lato perché diversi sono i tempi e le modalità, ma anche le destinazioni che contraddistinsero le vicende migratorie delle regioni italiane (se si vuole, furono perfino differenti le esperienze a livello provinciale e comunale, in ciascuna regione). Dall’altro lato è bene rimarcare il carattere distintivo regionale, non tanto per porre steccati campanilistici fra le varie dimensioni locali quanto per poter apprezzare al meglio, nelle loro specificità, i diversi percorsi migratori (del passato, come del presente) ed evitare valutazioni standardizzanti e ingenerose, oltre che fuorvianti. Per usare una metafora, è come se dovessimo analizzare nel dettaglio le varie tessere per ricondurre ad unità, e nel migliore dei modi, il “mosaico” dell’esperienza migratoria nel suo complesso. Si tratta, in fondo, dello stesso sforzo che dovremmo fare noi oggi di fronte al puzzle offertoci dalla presenza degli immigrati in Italia. Questa riflessione di carattere generale vale anche per il caso della Sardegna. Come molte altre regioni d’Italia, anche la Sardegna ha preso parte ai flussi emigratori di massa dell’Ottocento e del Novecento, anche se, nel caso dell’Isola, le caratteristiche di tale fenomeno si differenziano da quelle di quasi tutte le altre regioni italiane riguardo ad alcuni aspetti principali.  È alla fine del XIX secolo che si registrano le prime ondate migratorie di particolare consistenza. Basti pensare che nel periodo 1876-1900 le persone emigrate dalla Sardegna furono circa 8.000, mentre nel primo Novecento (in particolare tra il 1901 e il 1915) si registrarono circa 90.000 espatri. Partiti in ritardo, i flussi migratori dalla Sardegna, nel corso del primo decennio del Novecento coinvolsero in modo particolare le aree nord-occidentali dell’Isola: il Goceano, il Marghine, il Meilogu, il Monteacuto, il Montiferru e la Planargia. Coinvolgimento che ebbe il suo peso non solo in termini assoluti ma anche rispetto alla popolazione residente. Si consideri che mentre il capoluogo, Cagliari, nel triennio 1908-1910 registrò un’incidenza della popolazione emigrata su quella residente dello 0,3%, il ben più piccolo comune di Ozieri riportò una percentuale del 2,2%. Prima della seconda guerra mondiale i flussi in uscita subirono una sostanziale battuta d’arresto. Oltre alla crisi economica giocarono un ruolo decisivo anche le politiche restrittive poste in essere dai Paesi di immigrazione (fra cui gli Stati Uniti), di pari passo con il contenimento delle partenze voluto dal regime fascista. Alla fine della seconda guerra mondiale, invece, si registrò una forte ripresa degli espatri. Non a caso, gli anni ’50 vengono considerati come un periodo di “nuova emigrazione”. Il Paese, uscito sconfitto dalla guerra, si trovava in ginocchio dal punto di vista socio-economico; la Sardegna, dal canto suo, doveva ancora una volta misurarsi con i non pochi problemi irrisolti del passato. La fame e la miseria, aggravate da una guerra che aveva messo a dura prova la popolazione, costituirono il principale fattore di questa nuova stagione migratoria. A differenza delle altre ondate del passato, la corrente emigratoria che prese avvio negli anni ’50 vide protagoniste anche le zone urbane e industriali dell’Isola, in particolare le aree minerarie in crisi, fra cui quella del Sulcis-Iglesiente. È da rilevare come il periodo di emigrazione più consistente coincise con l’avvio di quel cambiamento che, nelle intenzioni della classe politica dell’epoca, avrebbe dovuto determinare il passaggio da un’economia primariamente agropastorale ad un sistema economico a prevalente vocazione industriale, soprattutto in virtù delle consistenti risorse finanziarie messe a disposizione dai cosiddetti “piani di rinascita”. Le traiettorie di questi nuovi flussi coinvolsero principalmente le regioni dell’Italia nord-occidentale, con una presenza comunque significativa anche nell’area laziale e tosco-emiliana. In particolare, nel caso degli emigrati sardi nel Lazio, regione che pure annoverò un interessante fenomeno migratorio di persone dedite alla pastorizia nelle campagne, nei primi anni Settanta la sola città di Roma ne accolse oltre l’80%. L’emigrazione verso l’estero, invece, confermò ancora una volta la preferenza dei sardi per il continente europeo. Anzitutto la Repubblica Federale Tedesca, il Paese in cui tra il 1962 e il 1966 si concentrò circa la metà di tutti i sardi emigrati in Europa; ma anche la Francia, il Belgio, la Svizzera e i Paesi Bassi. Tra i Paesitransoceanici, invece, l’Argentina continuò a rappresentare una meta privilegiata ancora nel corso degli anni Sessanta. Proprio con l’Argentina, Paese che ho avuto la fortuna di conoscere e che mi ha ospitato durante i miei studi di specializzazione, sussiste ancora oggi un forte legame che la unisce con la Sardegna: si pensi ad alcuni aspetti a metà strada tra la storia e il mito, come nel caso del legame tra Buenos Aires e il Santuario di Nostra Signora di Bonaria di Cagliari, al “mito Piras-Perón” (secondo cui il presidente argentino Juan Domingo Perón non sarebbe altri che il mamoiadino Giovanni Piras), o alle pagine – rigorosamente documentate dalla storiografia – a volte esaltanti, come quelle settecentesche riguardanti il Padre gesuita Antonio Machony di Iglesias (che, a seguito dei suoi viaggi in Sud America, scrisse, fra gli altri, il fondamentale volume Arte y Vocabulario de la lengua Lule y Toconoté); altre volte tragiche, come quelle novecentesche che riguardarono i desaparecidos sardi Marras, Mastinu, Chisu, Zidda e Perdighe, fagocitati dalla follia della dittatura argentina. Ma torniamo all’emigrazione sarda della seconda metà del Novecento. Durante gli anni ’70, in particolare, si verificò un ribaltamento del movimento migratorio, con dei saldi finalmente positivi (con più arrivi che partenze). A cominciare ad intraprendere la strada del rientro furono per lo più gli emigrati provenienti dalla Germania, dalla Francia e dalla Svizzera; mentre tra coloro che rientrarono dai Paesi extra-europei si segnalarono soprattutto gli emigrati provenienti dall’Argentina e dagli Stati Uniti. Tra gli anni ’80 e ’90 prende corpo una nuova stagione migratoria, con una mobilità che potremmo
definire “vai e vieni” e che caratterizza in modo distintivo la Sardegna della fine del Novecento (con partenze, ritorni, nuove partenze con nuove destinazioni e nuovi ritorni). Peraltro, negli ultimi anni hanno cominciato ad affacciarsi anche nell’Isola nuovi e più complessi aspetti concernenti le dinamiche demografiche: in primis il saldo naturale, costantemente negativo dal 1998 fino ad oggi (fatta eccezione per il 2000), e il progressivo invecchiamento della popolazione residente. Oltre a ciò, va pure rilevato come anche la Sardegna, così come le altre regioni italiane (sebbene in misura contenuta rispetto a queste), stia diventando progressivamente terra di immigrazione. Ad oggi sono meno di 40.000 gli stranieri residenti nell’Isola (lo 0,8% di tutti gli stranieri in Italia), di cui circa i tre quinti risultano concentrati nelle sole province di Cagliari e di Olbia-Tempio. Nell’attualità convivono la presenza crescente degli stranieri in Sardegna e la ripresa delle partenze verso altre regioni italiane e verso l’estero, seppure secondo la specifica tipologia della mobilità “vai e vieni” e con caratteristiche socio-demografiche alquanto diverse rispetto al passato. Fra i nuovi emigrati sardi, infatti, vi sono molti giovani, con titoli di studio mediamente più elevati rispetto agli emigrati del passato, anche recente. Basti pensare che tra il 1982 e il 1986 a possedere il diploma o la laurea era il 19% dei migranti. Tra il 1997 e il 2002 tale dato è arrivato al 35%. Si affaccia un orizzonte in cui è evidente una perdita netta per la Sardegna in termini di sviluppo socio-culturale e socio-economico, di capitale umano e dunque di capitale sociale. Rispetto a ciò, sono in molti a chiedersi quale possa essere il contributo delle associazioni che si occupano della tutela degli emigrati (vecchi e nuovi), in particolare nel governare la complessità del momento presente. A livello istituzionale si tratta di favorire un’attenzione diversa per il mondo dell’emigrazione, troppo spesso associato retoricamente al passato storico, privo di ricadute sul presente e ancora di più sul futuro della Sardegna. Ebbene, io ritengo che soprattutto le istituzioni regionali debbano riconoscere un ruolo di maggiore protagonismo ai sardi che hanno fatto esperienze migratorie; credo che proprio il vedere dall’esterno, con occhi disincantati, quel che è la Sardegna oggi, nel bene e nel male, nelle sue virtù e nei suoi difetti, possa contribuire ad aiutare i decisori politici nell’individuare una possibile traiettoria da seguire, a maggior ragione nel momento presente, in cui sembrano mancare i punti di riferimento. Sono in tanti, oggi, i sardi che pur non vivendo quotidianamente in Sardegna continuano a contribuire per il suo benessere e per la sua crescita morale e civile. A questo proposito permettetemi, in chiusura, di rivolgere con spirito di riconoscenza un pensiero a quanti si sono spesi per la Sardegna e per i sardi, in Italia e nel mondo, e a quanti continuano a farlo incessantemente ogni giorno. Vorrei citare due persone, tra le tante, cui mi sento legato per varie ragioni e che ci hanno recentemente lasciato: il prof. Giovanni Lilliu, che ha contribuito a far conoscere con straordinaria autorevolezza la dignità del nostro passato e quel carattere antropologico della “costante resistenziale” che continua a caratterizzare i tratti delle nuove generazioni. Il secondo è il prof. Tito Orrù (amico dei Circoli sardi), verso cui siamo tutti debitori per i suoi fondamentali studi sulla Sardegna dell’Ottocento e su alcune figure del pensiero politico sardo, fra cui il bittese Giorgio Asproni. A Tito Orrù mi univa un fecondo rapporto di collaborazione scientifica e un sincero legame di affetto e di amicizia, mai venuto meno, neanche dopo gli anni da studente e nella breve esperienza da suo assistente volontario per la cattedra di Storia economica. Infine, da sardo impegnato nella promozione umana, in un organismo ecclesiale come la Caritas, che opera in tante parti del mondo, non posso trascurare la mia vicinanza ad un’altra giovane sarda, Rossella Urru, ma anche ai suoi familiari ed amici, unendo le mie preghiere a quelle di quanti ne chiedono l’immediata liberazione. La sua, personale, quella dei suoi colleghi spagnoli e la liberazione di tutte le popolazioni oppresse, vittime della guerra e dell’ingiustizia sociale. Cari amici, il futuro della mobilità umana e della convivenza fra i popoli dipende dalla capacità che avremo di non pensare solo a noi stessi ma anche agli altri; non solo al presente ma anche al futuro. Detto in altri termini: a coloro che sono altro da noi e a quanti verranno dopo di noi.

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