Rivelazioni di Gavino Ledda in vacanza sul lago di Como: riscrivo "Padre Padrone"

di Alberto Longatti *

 

Durante un breve periodo di vacanza a Como nei giorni scorsi, ospite di un amico, Gavino Ledda si è soffermato in ammirazione davanti alle statue dei Plinii sulla fronte della cattedrale. Due pagani, ben noti a chi, come lui, ha studiato la storia antica, celebrati dal cristianesimo! Un grande gesto di ammirazione, in aggiunta a ragioni già radicate da tempo nell’animo, che hanno invogliato lo scrittore sardo a visitare il territorio lariano. Motivi che sono sostanzialmente collegati con le scoperte di Volta e Marconi, due sperimentatori delle forze occulte esistenti in natura.  «Non si ha un’idea – ci ha detto Ledda – di quanto si parlasse di questi geniali scienziati capaci di imprigionare voci e luci e lanciarle nello spazio fra i pastori delle campagne sarde, quand’ero ragazzo».

La pila, la radio, il telegrafo senza fili dunque erano diventati una specie di leggenda?

Un mito, sì. Io stesso me n’ero innamorato al punto da trascinarmi ad approfondire la conoscenza del funzionamento della radio ed i fenomeni legati all’elettricità. Per questo ho voluto andare a scuola. Ma mio padre mi ha strappato dalle elementari quando ero arrivato a metà. Il bisogno di studiare è rimasto represso fino ai vent’anni. Divenuto uomo non ho più resistito e, per togliermi dalla pastorizia, ho voluto arruolarmi nell’esercito. A un patto: che potessi applicarmi allo studio e all’uso, al montaggio delle radio. Così è avvenuto.

In fondo, si sentiva lei stesso, per indole, vicino a Marconi.

Certo, perché era un istintivo. Come faceva il suono a scavalcare le montagne? Ai suoi tempi non si sapeva dell’esistenza della ionosfera. Ma c’era e funzionò come superficie di rimpallo delle onde elettromagnetiche.
Questo il dato di conoscenza, di curiosità per i fenomeni della natura. Ma nel romanzo «Padre padrone», pubblicato nel 1975?

Ma lo cominciai a scrivere almeno cinque anni prima.

Nel romanzo, dicevamo, lei ha raccontato questa prima esperienza e poi la lotta per riuscire a coltivare liberamente le sue aspirazioni di maturità intellettuale e umana. Oggi tutti lo conoscono o ne hanno sentito parlare, condividono ciò che ha sofferto ed è riuscito ad ottenere.

La diffusione del libro mi infonde una grande speranza per ciò che sto facendo ora. A distanza di oltre trent’anni sto infatti riscrivendo l’opera in una doppia versione linguistica, in sardo e in italiano perché io mi sento sardo e italiano insieme. Allora lo scrissi, metaforicamente, nella lingua di Marconi, di Leonardo, di Dante, ma non in un dialetto che nessun poeta degno di questo nome ha fatto finora assurgere a dignità di mezzo di comunicazione universale.

E lei sta tentando di trasformare il vernacolo in una lingua?

Con un salto indietro di oltre mille anni, quando il sardo si arrestò, si rinchiuse in crisalide, mi sono impadronito del dialetto in tutte le sue componenti, glottologiche, sintattiche, storiche e voglio che rinasca, arricchendolo.
Ma la nuova versione in sardo sarà accompagnata da una traduzione in italiano?

Non una traduzione, ma una traslazione. Un poeta non traduce se stesso, sarebbe una vergogna; può concedersi delle licenze. Anche l’italiano sarà diverso: e nuovo. Pluridimensionale.

In che senso?

Le parole sono bloccate dalle convenzioni d’uso. Ma la loro potenzialità inespressa va ben oltre un significato imposto. È la prima volta che lo rivelo a un intervistatore: ritengo che ogni parola viva in uno spazio-tempo.
Una concezione einsteiniana …

Secondo la sua visione del mondo, che trascende la realtà percepibile. Credo che il tempo sia inquilino della materia, che finora è stata inventariata come oggetto. L’acqua, per esempio: un oggetto formato da due elementi, idrogeno e ossigeno, con un solo nome che la contraddistingue, ma anche la madre stessa della natura, parte di noi stessi. Quindi l’acqua non può essere chiamata solo "acqua", ma con un qualcosa che identifichi la sua valenza ben superiore. Lo stesso procedimento può essere adottato per ogni parola, rispettandone comunque formazione e storia.

Perciò?

Perciò aggiungo alle parole particelle che le ampliano, mai comprese nella grammatica. Una struttura nuova della lingua.

È un concetto che non sembra facile da capire.

Sono vent’anni che lavoro per ottenere un risultato convincente.

Crede di esserci riuscito?

Bene, sono arrivato circa a metà del mio lavoro, ma sono sicuro di quanto ho fatto e penso di continuare sempre meglio. Manzoni, per citare un maestro di queste parti, impiegò un tempo simile innestando però sul lombardo un’altra lingua, il toscano, già esistente. Il mio intento è invece di ottenere la pluridimensionalità delle parole in un modo del tutto inventivo.

Che cosa si aspetta da quest’opera?

Le sembrerò troppo ardito, ma mi sento in una posizione di attesa non molto lontana da quella di Marconi. Una rivelazione. La scrittura creativa aperta alla possibilità di fruire di una formula matematica, lo spazio-tempo di Einstein, che la proietti nel cosmo.

Una trasformazione che faccia guadagnare l’universalità ad un’opera lirico-narrativa impegnata a potenziare la dimensione espressiva di lingua e dialetto, a pari livello?

Ecco, lei mi ha augurato ciò che davvero sarebbe il pieno successo di tanto lavoro. Chissà che per la fine del 2009 non mi riesca di darne un saggio, pubblicando un breve racconto concepito per lettori adolescenti.

E mentre pronuncia queste parole, gli occhi di Gavino Ledda paiono farsi di brace, nel legno scuro del suo volto di ex pastore fedele comunque alla sua terra d’origine.

 

Da pastore a scrittore

Gavino Ledda è nato a Siligo, in provincia di Sassari, il 30 dicembre 1938; fa il pastore fino a 20 anni, senza frequentare alcun tipo di scuola. Nel 1958, dopo di essersi ribellato al padre che lo vorrebbe costringere con la violenza a fare il pastore, decide di arruolarsi nell’esercito. Nel 1969 si laurea in Glottologia. Nel 1971 insegna negli atenei di Cagliari e Sassari. Scrive il libro «Padre padrone. L’educazione di un pastore», che nell’aprile 1975 viene pubblicato da Feltrinelli e nel 1977, diventa un film con la regia dei fratelli Taviani, che vince al Festival di Cannes. Vive a Siligo con una modesta pensione assegnatagli attraverso i benefici della legge Bacchelli.

 

* La Provincia di Como

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