CANNE AL VENTO, LA FRAGILITÀ UMANA, LA SARDEGNA  ED IL CORAGGIO  DELLA BRIGATA SASSARI

di GIANRAIMONDO FARINA

A margine di un’inedita ed originale Conferenza del 1921 tenuta a Trieste dal grande etnomusicologo sardo Gavino Gabriel

Uno spunto particolare di riflessione sull’importanza di un romanzo come “Canne al vento” mi viene dal ritrovamento, nelle mie personali ricerche sull’azione ed incidenza storico-economica della Brigata Sassari nella Trieste redenta e liberata (1919-1924) di un interessantissimo articolo attestante ,nel giugno 1921, un’inedita conferenza tenuta nella città giuliana dall’etnomusicologo tempiese Gavino Gabriel dal titolo quanto mai singolare “Canzoni ed armonie di Sardegna”. Per la precisione ci troviamo il 21 giugno 1921 nella storica sede della Società triestina filarmonico- drammatica alla presenza di un pubblico “elettissimo”, per lo più composto da fanti ed ufficiali della Brigata Sassari. Addirittura la titolatura dello storico “Piccolo”, nella sua edizione serale, risultava essere più “esotica” ed, allo stesso tempo, “intrigante” per il tempo: “Canzoni ed armonie della terra dei nuraghi”.  Ma chi era veramente Gavino Gabriel e perché svolse a Trieste questa importante conferenza ? Si tratta di un grande artista poliedrico, nato a nato nel 1881 a Tempio Pausania e scomparso a Roma nel 1980 . Fu letterato, pubblicista, compositore, musicologo, performer, divulgatore, pioniere della registrazione sonora, etnografo, funzionario coloniale, organizzatore culturale, didatta e autore di un manuale per l’uso delle maschere anti-gas durante il primo conflitto mondiale. Conosciuto oggi come “uno dei più intraprendenti pionieri della scienza etnomusicologica in Italia”, si legge nella voce a lui dedicata dal Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani, vol. 51, 1998). È da  ricordare anche per essere stato il primo direttore della Discoteca di Stato e per aver composto un’opera lirica su soggetto sardo, “La Jura”. Uno degli aspetti più rilevanti dell’esperienza di Gabriel è stato il suo interesse per le musiche di tradizione orale della Sardegna. E ne diventò grande, originale ed innovativo divulgatore, soprattutto negli anni a cavallo fra la fine della prima guerra mondiale e gli inizi degli anni venti. È questa quella che fu definita la  “vocazione educativa” di Gabriel e che si dovette riflettere anche nella sua attività di interprete e diffusore delle musiche tradizionali. Egli iniziò ad esibirsi nei salotti intellettuali della Firenze di inizio secolo, dove era conosciuto anche come critico letterario, curatore di testi umanistici e collaboratore de “La Voce”. Città dove prese ad eseguire i suoi canti sardi accompagnandosi alla chitarra al cospetto di intellettuali e artisti del calibro di Papini, Prezzolini, Slataper, Pizzetti, Bastianelli e D’Annunzio (che conobbe nel 1910). E’ interessante evidenziare come, proprio in quel periodo, iniziò a tenere conferenze-concerto nei palcoscenici di tutta la penisola e, più precisamente, a partire dal 1921, si avvalse dell’apporto di autentici cantori a tasja o tasgia di Aggius, che lo seguirono in una serie di trionfali tournée anche all’estero. E furono certamente presenti anche nella sede della Società filarmonica triestina in quel giugno 1921 ad allietare i sentimenti dei fanti della Sassari per la terra lontana.

 La Sardegna, purtroppo, tranne un importante convegno del 2015, tenutosi a Cagliari ed organizzato dalla locale università su “Musiche, valori , identità: l’universo di Gavino Gabriel”, ha quasi del tutto dimenticato l’immenso patrimonio artistico, umano e culturale lasciato dal grande compositore tempiese. Quasi, se si eccettua il grande, certosino e documentatissimo lavoro svolto da Giuseppe Sotgiu a Tempio con l’Archivio dell’Accademia Popolare Gallurese “Gavino Gabriel”. Un lavoro nel quale, grazie alla sua  passione da collezionista, è confluita gran parte del materiale librario e documentario dell’autore (manoscritti, abbozzi compositivi, diari, articoli di stampa, fotografie, etc.). Per il resto, nel panorama sardo, il deserto, con nessuna considerazione neppure dall’emigrazione sarda “organizzata”.

Tornando alla Brigata Sassari, vi è, poi, un altro aspetto trascurato dalla storiografia in genere e da quella sarda in particolare, più propense a celebrare l’epopea di una “Brigata in guerra”. Descrizione a cui, peraltro, si sono prestati ( e si prestano ancora) i numerosi convegni organizzati dalla citata emigrazione sarda “organizzata”. Senza considerare un aspetto particolare che, certamente, non sfugge a chi fa lo storico economico. Ossia che la Brigata Sassari, nei suoi due reggimenti, il 151 ed il 152 , dopo la fine del primo vittorioso conflitto mondiale, non abbandonò le terre redente della Venezia Giulia ma, proprio perché ritenuto essere uno dei migliori reparti d’élite (di “proiezione”) del Regio Esercito, pluridecorato, rimase a presidiare il delicatissimo confine nord-orientale, stanziandosi a Trieste con il comando generale dal 1919 al 1940. Una storia, questa, poco conosciuta, ma non meno importante, che il sottoscritto sta’ cercando di portare “alla luce”, in cui i triestini entrarono a contatto con questi singolari e coraggiosi fanti, venuti a combattere per loro da una terra lontana e, fino ad allora, quasi misteriosa. 

La Sardegna che quei due reggimenti di brigata si lasciavano dietro era un’isola che ancora soffriva, dal punto di vista economico, dei mali atavici che l’ avevano sempre caratterizzata, nonostante la fine della Grande Guerra l’avesse fatta conoscere, grazie alle imprese eroiche di quei prodi .Era,  però, con la fine del primo conflitto mondiale che “tutti i nodi ritornarono al pettine”. Si parlò nuovamente di Questione Sarda, ben descritta da Giovanni Maria Lei- Spano, magistrato sassarese (era nato a Ploaghe nel 1872) nella centenaria opera (é del 1922), intitolata, appunto, “La Questione Sarda”, preceduta dalla bella prefazione di Luigi Einaudi.  Opera che l’autore, si noti bene, portò a compimento proprio mentre era giudice a Monza. Una ricorrenza, anche questa (l’ennesima) “sfuggita” ai taccuini ed ai diari dell’emigrazione sarda organizzata, non però a quelli del Circolo Culturale Sardegna di Monza che ha già in programma di ricordare Lei-Spano e la “Questione Sarda” con un apposito convegno nel 2023.

Per l’esattezza, Lei-Spano fu giudice a Monza nel biennio 1922-24 per poi essere trasferito, a Milano presso la Corte d’Appello (1924-1933) ed a Genova (1934), prima di morire, a causa delle sue cattive condizioni di salute, l’11 Ottobre 1935, nella sua casa meneghina .

Lei-Spano individuo’ i problemi della Sardegna di allora nell’emigrazione, nella pubblica sicurezza, nel reato onnipresente dell’abigeato, nel mancato sviluppo delle strade e nell’irrisolta e drammatica questione forestale alla quale risulteranno interessati anche imprenditori e mobilieri italiani, in particolare brianzoli. L’aspetto decisivo della “Questione Sarda”, uscita esattamente il 29 Gennaio 1922 per la casa editrice Fratelli Bocca, fu la quasi contemporaneità ed attendibilità dei dati economici e statistici, nonostante la “drammatica pausa” del primo conflitto mondiale.  “Dati ricostruiti con fatica in un’isola, ricca di tanta letteratura sui suoi problemi e sui suoi mali, ma poverissima di rilevazioni credibili”, come scrisse lo storico Manlio Brigaglia nella sua postfazione alla riedizione del 1990. Considerata l’emigrazione come danno in generale (e per la Sardegna fu un danno maggiore), la tesi di Lei Spano fu facilmente documentata in un dato: dal 1911 al 1914, l’ammontare delle rimesse personali di ogni emigrante sardo rimaneva al di sotto delle 700 lire. L’emigrazione sarda, in sostanza, era e fu povera e non incise decisamente nella valutazione delle rimesse.

Ancor più problematica fu la questione legata al reato dell’abigeato, praticamente sconosciuto nelle aree più industriali e sviluppate del Paese, come il Nord Italia, come ebbe a scrivere nella prefazione, sempre Luigi Einaudi. E qui i dati, fino al 1920, furono ancora sconcertanti: su un totale di 6712 uomini condannati in Italia per furto qualificato di bestiame dal 1891 al 1920, ben 3694 spettavano alla sola Sardegna. Nel 1917 si verificarono nell’isola 1232 abigeati per un valore di bestiame rubato di 797.592 lire  e 159 danneggiamenti. Nel 1918 il numero degli abigeati fu di 1834 per un valore di 1.517.704 lire. Tale problema si collegava a quello delle strade. Al 1910 esistevano in Sardegna appena 1.874 km di strade provinciali e 1672 di strade comunali contro i 4634 e 2418 della Sicilia, i 13338 e 13185 dell’Italia meridionale, i 13363 e 32728 dell’Italia centrale gli 11462 e 45403 del Nord Italia. Nessuno, prima del Lei- Spano, neppure le due precedenti inchieste sull’isola (quella agraria e quella della commissione parlamentare Pais- Serra) aveva preso in considerazione l’argomento dello stato delle strade in Sardegna, neppure incidentalmente. Senza, peraltro, considerare quanto già denunciato  in merito da Giuseppe Sanna Sanna  (Anela,1821- Genova,1874) nelle “Grandi Utopie sulla Sardegna” (1872).

 Ancora più drammatica fu la situazione dell’immenso patrimonio boschivo e forestale, con la Sardegna, da più di un secolo, oggetto, di una progressiva devastazione delle foreste, iniziata dagli industriali piemontesi e continuata ,dopo l’Unità, nonostante l’applicazione di una legislazione sui boschi ex-ademprivili, con il fallimento dei progetti di rimboschimento e l’iniziativa privata per niente incoraggiata.  Nel 1920, poi, finiva la sua ragione d’essere, perché riscattato dallo Stato , quell’ente che è stato un po’ il simbolo, controverso, di questo progressivo processo di devastazione forestale, soprattutto perché sostenuto ed alimentato dalle speculazioni di una certa classe imprenditoriale. Si trattava della Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde, costituitasi a Londra nel 1863, con l’unione e la sinergia di un consistente gruppo di investitori inglesi (tra i quali vi erano alcuni membri del Parlamento inglese) e uomini di affari italiani, tra cui l’imprenditore lombardo Gaetano Semenza, rappresentante legale del gruppo.

 Il tutto avvenne con la cessione di oltre 200000 ettari di terreni ademprivili (erano gli antichi e consolidati usi civici), peraltro molto contrastata fino all’applicazione ed entrata in vigore della legge rispettiva, avvenuta con una quarta convenzione nel 1870 e con l’arrivo in Sardegna dell’ingegnere britannico Benjamin Piercy. Lo scopo della costituzione della CRFS era ben delineato nella relazione di Quintino Sella, ministro delle finanze, del 1871: aveva sostenuto che la poca redditività dell’industria mineraria sarda era riconducibile soprattutto all’alta incidenza delle spese di trasporto e che se il treno fosse potuto arrivare ad Iglesias, il costo dei trasporti minerari sarebbe caduto da 15 lire per tonnellata a 4, e forse a 3. 

Infine, altro dato non trascurabile, più volte accennato dallo stesso Einaudi nella prefazione, fu il riferimento all’appena costituito dagli ex reduci, e compagni dei sassarini di stanza a Trieste, Partito Sardo d’Azione. Luigi Einaudi ben spiego’ che si trattava di un’opera come modello di “un nuovo regionalismo”, diverso da quello radicale e separatista che stava prendendo piede in alcune parti d’Italia. Einaudi non lo disse espressamente, ma la sua perorazione sembrava anche riguardare la Sardegna , con una sorta di contrapposizione fra un “regionalismo cattivo”, di cui tendevano a farsi “padroni quegli uomini politici che (…) vivono e prosperano eccitando l’animosità  e il rancore e l’invidia  delle regioni povere contro quelle ricche” ed il regionalismo “buono” di Lei -Spano, attento a studiare le specificità locali, a farle conoscere agli altri italiani, a proporre dei rimedi concreti. Nel libro di Lei Spano, in realtà, si fronteggiarono, da subito, due posizioni classiche della storia della questione sarda: da una parte il lungo e già delineato elenco delle “doléances” e, dall’altra, la consapevolezza dei difetti della classe dirigente economica e politica e la convinzione che un’appropriata legislazione avrebbe potuto far fare quei passi indifferibili verso il progresso.  Una legislazione specifica, non “speciale”, come era stato, con connotazioni negative, l’insieme delle disposizioni legislative applicate per l’isola nel 1897 e nel 1907. Per questo il magistrato ploaghese, nel maggio 1923, a neanche un anno dalla “Marcia su Roma”, indirizzerà a Mussolini, prima del suo viaggio da Capo del Governo in Sardegna, una lettera aperta, pubblicata sulle colonne del “Popolo d’Italia”, firmandosi ancora come “presidente dell’Associazione Economica Sarda”, da lui fondata il 23 settembre 1917. Dopo aver sintetizzato alcune delle “doleances” storiche del rivendicazionismo isolano, l’autore passo’ subito alle sue proposte concrete. Queste risposte, scrisse, gli erano state suggerite dall’attenzione con cui la “Milano intellettuale ed industriale”, in cui egli viveva, aveva seguito, qualche giorno prima, al “Circolo Filologico” la “magica parola” e le “stupende proiezioni” con cui l’ing. Omodeo aveva illustrato il programma idrico ed elettrico che la Società del Tirso, fondata da lui, stava realizzando in Sardegna. Intorno a quelle parole del famoso ingegnere, Lei Spano sostenne di avervi visto “aleggiare” lo spirito di Carlo Cattaneo. La proposta del magistrato storico-economico, infatti, riprendeva l’antico progetto del grande lombardo: un prestito nazionale ad interesse garantito dallo Stato, per investire in Sardegna un miliardo in dieci anni. Di là ad alcuni anni Lei- Spano poté scrivere, non senza qualche ragione, di avere suggerito lui a Mussolini  il contenuto del Regio Decreto Legge 6 novembre 1924 n° 1931, poi chiamato “legge del miliardo”. Nello specifico si trattava di redimere un immane latifondo fra breve “fruttuosissimo” e d’istituire due porti franchi a Cagliari ed a Porto Torres. La “Questione Sarda”, per concludere quest’aspetto, cadeva in un momento del dibattito politico- economico in Sardegna che avrebbe dovuto offrire maggiore risonanza al testo. Umberto Cardìa, in una scheda che offriva la più lucida lettura del libro di Lei Spano, scrisse che, in effetti, “molti temi della polemica condotta dall’autore coincisero largamente con quelli svolti dalla componente salveminiana e liberista del Partito Sardo d’Azione”. Differente, però, l’atteggiamento sul terreno politico- istituzionale. I sardisti erano regionalisti ed autonomisti, con punte di eversivismo antistatuale ed indipendentismo. Il Lei- Spano, invece, continuò a sperare nelle virtù del sapere e della ragione ed a credere che lo Stato potesse, finalmente, rinsavire. “Il fascismo, però”- chioso’  Cardìa- “si incaricò di spezzare ogni residua speranza”.

A Trieste, però, la speranza per un futuro migliore e diverso era agli “albori” e, nonostante le prime, drammatiche, “avvisaglie” degli scioperi e delle barricate nel quartiere popolare di San Giacomo, i soldati sardi vivevano ancora in quel clima aulico di “redentori della Patria” quale furono accolti nel luglio del 1920 dalla quasi totalità della popolazione triestina.

Quello, però, era per la Sardegna un momento particolare: il coraggio e le imprese sul Grappa, sull’Altipiano, sui Tre Monti ed a Losson della Battaglia avevano fatto conoscere all’Italia gli “intrepidi sardi” della Brigata Sassari. Ed ora Trieste li aveva accolti con riconoscenza e grande calore. Quello che l’allora grande etnomusicologo sardo Gavino Gabriel  svolse nella città giuliana non fu altro che il compimento conclusivo di un “viaggio” che aveva portato la sua originale Conferenza sulla Sardegna nelle capitali dell’Intesa: Londra, Parigi e Roma. E l’intento era più che chiaro: far conoscere la Sardegna al mondo di allora. A Trieste, poi, tappa conclusiva della “tournée”, la scelta non fu casuale: era, ormai da quasi due anni la sede del comando generale della gloriosa Brigata Sassari che, dopo le glorie di guerre, si era già messa in mostra nel cercare di controllare l’incalzante malcontento popolare del biennio rosso, qui fomentato ancora da elementi austriacanti. Per gli ufficiali ,ma soprattutto per i fanti, quella conferenza fu un richiamo nostalgico  e bello di un “ritorno alle radici”. Come scriveva l’articolista del “Piccolo”, un modo diverso di sentirsi “canne al vento”, dalle origini ben radicate nella loro terra, ma proiettati anche al futuro grazie al loro coraggio. È significativo pensare, quindi, che mentre questi soldati assistevano coinvolti alla conferenza tenuta dal loro affermato  conterraneo, avessero “sotto gli occhi” , come peraltro molti dei presenti, le pagine nitide di “Elias Portolu” o di “Canne al vento” di Grazia Deledda, definita come “l’indigente Nume che tutti i sardi adorano”. La Sardegna conosciuta, fino ad allora, da queste pagine, “entrerà” nella storia italiana con l’azione coraggiosa di questi umili fanti pastori -contadini . Ma cosa legava l’umanità dei romanzi deleddiani con quei guerrieri  progenie di Amsicora? Gavino Gabriel, stando ai resoconti giornalistici di quel singolare momento, l’aveva ben reso.

Quello che legava questi due aspetti era, in fin dei conti, quanto asserito nel romanzo :” Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento”. L’ uomo- canna assurto a metafora della vita. L’uomo è la canna, ancorata al terreno ma mossa costantemente dal vento, trascinata in ogni direzione: è la sorte che tutto piega al suo volere. Una definizione ben viva nella Deledda, presente anche in “Elias Portolu”, da lei presa dal pensiero di Blaise Pascal in questo significativo passaggio: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”. Una grandezza umana che, pertanto,  sta nel pensiero, ossia nella consapevolezza del carattere limitato della natura umana ed, allo stesso tempo, nel rivendicare la propria grandezza rispetto alla sorte che può schiacciarla senza difficoltà. A questo si aggiunge l’elemento fiabesco, quasi leggendario, deleddiano, dei suoi  fragili e disorientati personaggi che vivono chiusi nella loro terra ma hanno la consapevolezza che, al di là del mare, c’è un altro mondo, che cercano di inseguire. Un mondo prima mitizzato da quelli che la grande scrittrice nuorese definiva “folletti, spiriti erranti”, che abitavano la notte e che, memori dell’antico passato, scendevano nelle valli a riempire di speranza la vita di quell’umanità fragile di contadini e pastori. Ora, in quel momento, quegli esseri fiabeschi e leggendari, si erano materializzati, concretizzati ed incarnati nei fanti della Brigata Sassari.

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Un commento

  1. Adriana Valenti Sabouret

    Panoramica storico-economica esaustiva e interessanti spunti di riflessione. Grazia Deledda attinse con intelligenza da filosofi come Pascal e da quelli dell’antichità.

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