GRAZIA DELEDDA, PREMIO NOBEL 1926 PER LA LETTERATURA, MERITA ONORE E RISPETTO. LA CITTÀ DI ALESSANDRIA, INTITOLANDOLE UNA PIAZZA, HA DATO UN BUON ESEMPIO

di PAOLO PULINA

Sabato 23 aprile 2022, “Giornata Mondiale del libro e del diritto d’autore”, una piazza della città di Alessandria è stata intitolata alla grande scrittrice sarda Grazia Deledda (Nuoro, 1871-Roma, 1936), Premio Nobel per la letteratura per l’anno 1926.

Il significativo evento è stato reso possibile grazie alla fruttuosa collaborazione tra il locale Circolo “Su Nuraghe”, la F.A.S.I. (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia), l’Amministrazione e la presidenza del Consiglio comunale di Alessandria e, per l’isola natale della scrittrice, il Comune di Nuoro e la Regione Sardegna.

Propongo qui di seguito alcune riflessioni suscitate in me dalla manifestazione.

L’intitolazione di una piazza, di una strada, di un edificio di pubblico servizio (scuola, biblioteca, ecc.) è la consacrazione dei meriti storico-culturali della personalità cui quel luogo viene intestato. Personalmente – anche per la professione che ho svolto per 35 anni come funzionario dell’Assessorato alla Cultura dell’Amministrazione provinciale di Pavia: mi sono occupato delle biblioteche, dei musei, degli archivi di ben 190 comuni –, ho sempre incoraggiato, soprattutto nei centri più piccoli (alcuni anche con meno di 100 abitanti), la valorizzazione, almeno in prima istanza, dei personaggi locali: non solo apposizione però di una targa ma anche illustrazione dell’opera del personaggio. Non credo che sia molto istruttivo denominare le vie dei piccoli paesi con nomi degnissimi ma tutti uguali: per esempio, Dante, Manzoni, Garibaldi, Roma, ecc.

Cito una intitolazione che, anche per mia sollecitazione, è stata data alla biblioteca comunale del paese oltrepadano in cui risiedo dal 1974, Santa Giuletta, noto come “paese delle bambole” (1600 abitanti). Si tratta di un personaggio, Stellio Lozza (1906-1975), al quale è intestata una via di Alessandria in virtù del fatto che in questa città egli ha vissuto e operato dopo essere stato deputato e aver partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente. Ma era giusto che Lozza, apprezzato docente di Lettere ed esperto di programmazione scolastica, avesse un riconoscimento perenne anche nel paese in cui era nato e in cui è stato sindaco.

Inoltre, nella piccola comunità di Borgoratto Mormorolo (430 abitanti), in Oltrepò pavese, anche per mio interessamento, è stata affissa una lapide commemorativa sulla facciata della casa natale di un illustre docente universitario, critico e teorico della letteratura, specialista, fra l’altro, di Leopardi: parlo di Franco Brioschi (1945-2005), purtroppo prematuramente scomparso.    

La città di Alessandria, per la sua dimensione demografica (94.000 abitanti), ha un sufficiente numero di vie e di piazze per poter provvedere, senza trascurare le glorie locali e le altre personalità di valenza regionale/nazionale, all’intitolazione di una piazza a una geniale personalità femminile universalmente riconosciuta (alle opere di scrittura di una donna come Grazia Deledda è stato assegnato il premio più importante che esiste al mondo, cioè il Nobel per la letteratura).

Questa denominazione la città di Alessandria la ha concretizzata e in tal modo si è  resa benemerita sicuramente nella considerazione dei sardi emigrati (in primis, ovviamente,  quelli residenti  nel perimetro  urbano o negli altri centri della provincia)  e dei sardi residenti ma anche – a livello nazionale – ha compiuto una azione culturale che sarà apprezzata dall’Associazione delle donne che si chiama  “Toponomastica femminile” e che è stata costituita nel 2012 «con l’intento di restituire voce e visibilità alle donne che hanno contribuito, in tutti i campi, a migliorare la società»

Eppure, bisogna dire che, nonostante il Premio Nobel che le ha assicurato fama a livello mondiale, non sempre a Grazia Deledda è stato reso il meritato onore e portato il dovuto, doveroso rispetto.

Dobbiamo ricordare infatti che solo con la Risoluzione n. 7-01066 del 19 dicembre 2012,approvata dalla Commissione Cultura della Camera dei deputati, il Governo è stato impegnato a far conoscere nelle scuole la figura e le opere di Grazia Deledda – colpevolmente esclusadai programmi scolastici curriculari e non inserita neanche nel programma di letteratura italiana dell’ultimo concorso per insegnanti della scuola pubblica –,  e a formulare per il 2013 iniziative celebrative della grande autrice sarda e, in particolare, dell’opera “Canne al vento”, a distanza di un secolo dalla  prima edizione del 1913.

Senza quella ufficiale presa di posizione, per così dire moralmente “riparatoria”, non so se nell’ottobre 2015 sarebbe stata istituita, con decreto del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, la realizzazione dell’Edizione Nazionale dell’Opera Omnia di Grazia Deledda.

(La sede legale è il Laboratorio di Filologia digitale del Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari. Presidente del Comitato Scientifico incaricato di concretizzare l’Edizione è il prof. Aldo Maria Morace, da oltre quindici anni titolare della cattedra di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Sassari e già preside della Facoltà di Lettere. Le Edizioni Nazionali rispondono alla fondamentale esigenza scientifica di garantire la tutela, la valorizzazione e la fruizione del patrimonio letterario e di pensiero costituito dagli scritti degli autori più rilevanti della ricchissima tradizione italiana. Queste iniziative assicurano la pubblicazione dell’Opera Omnia di un autore in edizione critica, fondata sulla ricognizione e sulla trascrizione dei testi editi e inediti, e chiarendone – attraverso ogni possibile documentazione – la storia testuale. Sono edizioni che rimangono per decenni e decenni come opera di riferimento imprescindibile e che, nel caso di Grazia Deledda, prevedono la pubblicazione di oltre trenta volumi. Per la prima volta una Edizione Nazionale è riservata a una donna).

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In precedenti articoli ho stigmatizzato alcuni esempi di mancato rispetto nei confronti di Grazia Deledda, Premio Nobel per la letteratura per l’anno 1926.

Nel novembre 1951 si laureò presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pavia, discutendo una tesi su Grazia Deledda, l’alunno del Collegio Ghislieri Giancarlo Buzzi, nato a Como nel 1929. La sua tesi diventò un volume a stampa di 170 pagine, come n. 3 della collana “Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia”, presso Fratelli Bocca editori in Milano, 1953.

Buzzi, con il suo lavoro, si era posto l’obiettivo di contrastare «coloro che sostengono la scarsa importanza della incultura della scrittrice»: infatti, nel caso della Deledda, «ci si trova di fronte ad una mancanza d’equilibrio disastrosamente accompagnantesi ad una vera e propria grafomania».

A causa dell’incultura, scrive Buzzi ancora più distesamente (cioè più ampiamente, non certo con animo disteso), «le contraddizioni in materia di religiosità e morale, nell’opera della Deledda, assumono la caratteristica di un disordine mentale enorme, risentono di una mancanza di abitudine, di esercizio al pensiero e al controllo del pensiero stesso: in altre parole, la Deledda con scarse forze cerca di superare l’atteggiamento fatalistico che è alla base della sua spiritualità, ma non avendo alcuna guida, alcun punto di riferimento, sia per aiuto sia per contrasto, si disperde in ghirigori fantastici o in conati intellettuali che, quando non rovinano i suoi già fragili volumi, sono soverchiati dai motivi più schiettamente sentimentali o non vengono neppure percepiti dal lettore».

Il critico Nicola Tanda (Sorso, 1928 – Londra, 2016), che è stato Ordinario di Letteratura e Filologia Sarda presso l’Università di Sassari (autore, fra le altre opere, di una raccolta di saggi intitolata “Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Bulzoni, 1992), in incontri organizzati da alcuni Circoli sardi della Lombardia, ha avuto modo di contrastare il penoso, patetico, luogo comune della “incultura” della scrittrice.

Per quanto riguarda la vicinanza della narrativa deleddiana ai codici della lingua e della cultura sarda –  secondo Tanda –  la traduzione in sardo, per esempio, di Elias Portolu (bortau in nugoresu dae Serafinu Spiggia, per l’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, 1982; con presentazione dei linguisti Massimo Pittau e Leonardo Sole) o, per fare un altro caso, di Canne al vento (Cannas in podere a bentu, traduzione di Giorgio Addis, Sassari, Edes, 2001; con prefazione di Tanda) rivela pienamente nella Deledda lo stile del pensare in sardo.

Tanda amava sottolineare la modernità della Deledda, scrittrice che in pieno positivismo (quando la Sardegna era classificata come la terra della “razza delinquente”), confrontandosi con il tema del male (Dostoevskij), ha messo in evidenza la responsabilità individuale, ha posto l’accento sulla libertà di scelta. Grazie alla Deledda, che tratta le moderne problematiche collegate alla funzione dell’interiorità psicologica, al sentimento della fragilità dell’uomo, la Sardegna acquista un suo preciso spazio «come la Sicilia di Pirandello, la Trieste di Svevo, la Liguria di Montale».

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E veniamo a un altro tipo di mancanza di rispetto riguardo a Grazia Deledda, per contrastare il quale mi sono mosso personalmente.

Fastidiosi refusi in edizioni di “Canne al vento” di Grazia Deledda: la madre Cambosu diviene Cambuso; le piante diventano “pinte”!

Come docente dell’Università della Terza Età di Pavia, per l’a. a. 2007-2008 decisi di presentare in un cinema della città i film e gli sceneggiati televisivi tratti dai romanzi di Grazia Deledda. Nell’estate precedente l’inizio delle lezioni lessi e rilessi i più famosi romanzi della Deledda, quasi tutti disponibili in edizione economica nella collana degli Oscar Mondadori.

In  tutte le edizioni di queste opere,  curate da Vittorio Spinazzola (“Elias Portolu”, “Canne al vento”, “La madre”, “L’edera”, “Colombi e sparvieri”,  “Cenere”,  “Annalena Bilsini”, “L’incendio nell’oliveto”, “Marianna Sirca”, “La chiesa della solitudine”, “Naufraghi in porto”, “Il vecchio della montagna”,  “Il segreto dell’uomo solitario”,  “Cosima”), il primo paragrafo dell’introduzione – dal titolo  “Dalla narrativa d’appendice al premio Nobel” –  si ripete identico nelle prime pagine di ogni volume (segue poi naturalmente un’analisi specifica del contenuto e della forma di ogni singolo romanzo).  Ne estraiamo una brevissima citazione riferita alla biografia della Deledda: «Grazia nacque a Nuoro nel 1871, da famiglia benestante. Le elementari furono le sole scuole che frequentò regolarmente. In seguito si abbandonò a una congerie di letture, accavallando Dumas, Balzac, Byron, Hugo, Sue, Scott, e la Invernizio».

Per l’a.a. 2013-2014 dedicai le lezioni per l’Unitré a “‘Canne al vento’, a 100 anni dalla pubblicazione”, e consultai tutte le diverse edizioni del romanzo reperibili.

Scoprii che la prima edizione di “Canne al vento” nella collana Oscar Classici moderni (aprile 1990), fino alla ristampa 1999 in mio possesso, sostituiva la classica introduzione di Spinazzola con una nuova nota introduttiva non firmata. Nel capitolo II di quella edizione del testo deleddiano, trovai un incredibile, ridicolo refuso che aveva superato brillantemente per anni i controlli perché, evidentemente, non ce ne erano stati!  Ne parlerò fra poco.

Ebbene, mi procurai un’altra edizione della stessa collana “Oscar Classici moderni”.

È una edizione che parte dal 2005 (io posseggo copia della ristampa 2008). Qui è scomparsa anche la appena citata nuova nota informativa, ne è pubblicata una nuova, anch’essa non firmata, che così esordisce: «Grazia Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871, da Giovanni Antonio Deledda  e Francesca Cambuso [sic!]». Quel cognome Cambuso invece che Cambosu è un pugno allo stomaco: non è un refuso ammissibile in nessun modo ma soprattutto oscura una parentela della Deledda con un altro importante scrittore e giornalista culturale sardo: Salvatore Cambosu (Orotelli, 1895 – Nuoro, 1962), figlio di Gavino Cambosu (zio materno di Grazia Deledda) e Grazia Nieddu. Non è difficile stabilire quale era il grado di parentela fra i due scrittori!

Nella stessa prefazione, a p. IX,  un bell’apostrofo fra un e intero «un’intero [sic!] villaggio»; a p. XI l’etnologo sardo Fernando Pilia ha l’errato cognome di Pillia.

Nel testo deleddiano è rimasto inoltre non corretto (si veda a pagina 16), nella descrizione del cammino percorso da Efix, l’incredibile sgorbio lessicale presente già nell’edizione 1990: «[…] qualche casa nuova sorge timida fra tanta desolazione, e pinte [sic!] di melograni e di carrubi, gruppi di fichi d’India e palmizi danno una nota di poesia alla tristezza del luogo».

Uno dice: «Ci vuole poco a comprendere che qui si tratta di un refuso: pinte invece che piante!». Ma è sopportabile questo tipo di mancanza di rispetto nei confronti del testo di una scrittrice Premio Nobel per la letteratura? Credo proprio di no.

Nel gennaio 2013, scrissi perciò alla redazione degli Oscar Mondadori e modestamente suggerii che era il caso di evitare di perpetuare questi madornali svarioni in un romanzo di un Premio  Nobel per  la letteratura.

La mia segnalazione probabilmente è servita. Nella prima edizione di “Canne al vento” nella collana Oscar Scuola (giugno 2014), nella prefazione non firmata, che però è la stessa del 2012 i tre necessari aggiustamenti correttivi sono stati operati: 1) Cambuso è stato corretto nel giusto Cambosu; 2) è stato eliminato l’apostrofo laddove si parla di  «un’intero [sic!] villaggio» (p. IX); 3) all’etnologo sardo è stato dato il cognome  corretto: Pilia e non Pillia (p. XI).

Il testo di “Canne al vento”, con la cessazione dell’obbligo di pagare dei diritti, è stato però stampato e ristampato da diverse case editrici che hanno utilizzato il citato modello erroneo del 1990 e, per pigrizia, e con poca coscienza culturale, non si sono neanche degnate di far rileggere e di far ricontrollare: non sto a tediarvi oltre ma sono veramente numerose le edizioni ancora in circolazione (io ne posseggo nove!) che ripropongono lo strafalcione delle pinte. È il caso di dire solo che la famigerata edizione del 1990 ha prodotto – è il caso di dirlo – male piante!  

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In un articolo pubblicato su “La Nuova Sardegna” del 25 aprile 2012, Giulio Angioni, a proposito della Deledda, ha affermato: «Il suo collega premio Nobel Gabriel García Márquez (1927-2014) in un suo scritto, in cui dice la sua sui premi Nobel per la letteratura, scrive laconicamente della Deledda che nel 1926 ha vinto il Nobel, e che è sopravvissuta altri dieci anni “per riuscire a crederci”».

Angela Guiso, critica letteraria, sostiene: «Dopo tanti anni, per una serie di circostanze fortuite, si scopre che Gabriel García Márquez rivide il suo giudizio nei confronti di Grazia Deledda. Non per simpatia, certo, per una scrittrice che non lo aveva convinto, ma per ragioni letterarie, per la possibilità che la stessa critica si dà di nuovi strumenti e riletture, e ciò che prima si sottovaluta può assumere poi un diverso merito. Fu l’incontro con Ignazio Delogu, l’ispanista algherese scomparso nel 2011, a fargli mutare idea, come afferma Antonangelo Casula, già sindaco di Carbonia e sottosegretario nel secondo governo Prodi». Se c’è stato questo ravvedimento in Gabriel García Márquez, ce ne rallegriamo.

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Un pensierino bisogna riservarlo anche a un altro Premio Nobel per la letteratura (assegnatogli nel 1934, quindi otto anni dopo quello conferito a Grazia Deledda). Proviamo ad immaginare con quanto piacere Luigi Pirandello accolse la notizia del Nobel alla scrittrice sarda, lui che nel 1911 aveva dovuto pubblicare a proprie spese il romanzo “Suo marito” dopo il rifiuto dell’editore Treves di stamparlo perché i personaggi erano manifestamente ispirati a Grazia Deledda e al marito, Palmiro Madesani (oggetto di una rappresentazione caricaturale) e comunque con loro potevano essere identificati.

In seguito Pirandello ne fece una revisione da intitolarsi “Giustino Roccella, nato Boggiòlo” ma non la pubblicò, secondo il figlio Stefano perché temeva l’identificazione dei personaggi con Grazia Deledda (ormai insignita del Premio Nobel per la letteratura) e il marito. In ogni caso il romanzo con il doppio titolo “Suo marito-Giustino Roccella, nato Boggiòlo”, sia pure postumo e incompiuto, è sempre stato ripubblicato a partire dal 1941.

La trama non poteva non suscitare grande rabbia in Grazia Deledda.  Giustino Boggiòlo, un modesto impiegato fornito di una cultura altrettanto modesta, sposa la giovane scrittrice Silvia Roncella e, dopo che questa diventa celebre, rivela uno straordinario fiuto negli affari, prendendo tutte le iniziative di contratto con gli editori, i critici, i giornalisti, i traduttori e il pubblico, per reclamizzare e far fruttare la produzione letteraria della moglie. Questa sua frenetica attività di agente pubblicitario lo espone alla malignità dei colleghi d’ufficio, che lo ridicolizzano appioppandogli il nomignolo di Roncello e facendogli trovare i biglietti da visita intestati a Giustino Roncella nato Boggiòlo.

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Due chicche finali

1) Il 14 ottobre 2016, il giornalista de “L’Espresso” Alessandro Gilioli ha twittato: «Io vorrei ricordare a chi contesta il Nobel a Bob Dylan che l’hanno dato a Grazia Deledda». Non esistono i presupposti perché questa infelice battuta qualifichi Gilioli come critico, sì, antipatizzante ma almeno degno, per la sua produzione saggistica sull’argomento, di essere messo a confronto con altri studiosi. Degno non lo è proprio!

2) Nella sua opera “La Teologia del Cinghiale”, Premio Campiello Opera prima, 2016, lo scrittore sardo Gesuino Nemus (pseudonimo di Matteo Locci, nato a Jerzu nel 1958), racconta questo aneddoto: «Gavino Bardanzellu per anni aveva fatto credere a tutti d’aver insegnato lui, a Grazia Deledda, i primi rudimenti d’italiano. Poi un giorno disse che aveva conosciuto il zio di lei, insomma, come dire, a Telévras a tutto c’era un limite, anche all’ignoranza nelle lingue straniere e i ragazzetti, freschi di coscrizione scolastica e di abbecedario collodiano, presero a canzonarlo in perfetto italiano:

Ho visto il zio / comprare il zafferano

Metterlo nel zaino / perché fa il zappatore

Con il zucchero, il zenzero e il zabaglione

Il zibibbo, il zufolo e il zoccolone

Commento mio: parafrasando il titolo di un famoso libro di poesie di Elsa Morante, è il caso di dire: «Grazia Deledda salvata dai ragazzini»!  

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5 commenti

  1. Bellissimo articolo, complimenti Paolo Pulina

  2. Un’ analisi lettraria sempre molto puntuale , dettagliata e appassionata; come tutte quelle del prof .Paolo Pulina!
    Cpmplimenti!

  3. virgilio mazzei

    Bellissimo articolo.
    Un ringraziamento a Paolo Pulina che, a costo zero, ci ha “regalato” una pagina di storia e di letteratura sulla troppo trascurata Grazia Deledda.

  4. Grazie Paolo, per aver dedicato il tempo necessario alla redazione di questo bellissmo interessante articolo, che rende merito a una grande autrice. Grazia Deledda è (non solo è stata) capace di trasmettere al lettore l’emoziome di vedere con gli occhi , con la mente e con il cuore la realtà di una Terra, la Sardegna, unica negli aspetti che la caratterizzano. Onorata di essere sua conterranea.

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