SAS PARAULAS: LE PAROLE MAGICHE

di ALESSANDRA DERRIU

La parola può essere evocativa, può avere la capacità di guarire, di curare, di placare gli animi, di liberare dalla sofferenza, di salvare, di dare conforto ma anche di condannare. Con la parola si prega, si benedice e si maledice. La parola è dunque la nostra chiave di accesso al mondo, all’altro, il mezzo, la porta dalla quale possiamo lasciar passare il bene o il male: ci può convincere, ammaliare, stregare, allontanare ed avvicinare.

Nel libro ‘Sas paraulas, le parole magiche. Credenze e superstizioni in Sardegna’, Nemapress 2019 di cui ho curato la prefazione, gli autori Marcello Stanzione e Neria De Giovanni ci presentano una panoramica divulgativa sulla storia della magia nei secoli, ed il suo rapporto sincretico con la religione, tra oriente ed occidente, tra sacro e profano, che permette di contestualizzare in un panorama molto più vasto credenze, superstizioni e riti ancestrali sardi, animati da figure fantastiche e mitologiche. Protagonista è la parola. In particolare attraverso le parole di Grazia Deledda e di Salvatore Cambosu, che vengono citati nell’opera, ritroviamo, a distanza di secoli, tradizioni e culti che si sono conservati nel tempo e riviviamo dai loro scritti l’esperienza viva di chi queste usanze le ha trasmesse e condotte fino a noi. Testimonianze orali che anche grazie alla letteratura sono state scritte.

La parola scritta, in questo caso, ha il potere di parlarci delle parole mai scritte: è il potere della parola raccontata davanti ad un camino acceso che diventa narrazione nel romanzo, si intreccia con la testimonianza, con il racconto, con la ricostruzione storica ed antropologica.

È un tappeto tessuto a più fili, a più mani. Neria De Giovanni sceglie di riportare la descrizione dei ‘berbos’ o ‘brebus’  che la Deledda scrisse nel 1895 nelle note per Angelo De Gubernatis e la Società del Folklore: I ‘berbos’ sono la parte più caratteristica e importante delle credenze superstiziose del nuorese. In altre parti dell’Isola sono chiamati ‘sas paraulas’ (le parole) e ne ha discorso un folklorista sardo in un fascicolo della Rivista, dicendo che è impossibile riuscire a saperle. A Nùoro non è impossibile ma è difficilissimo. (…) Si tratta di medicamenti e di scongiuri sovrannaturali, sì, ma non quali si immaginano. Niente di sacrilego e di diabolico, sono piuttosto riti pagani, con reminiscenze dei riti druidici. Sono certamente tradizioni antichissime, anteriori ai Saraceni, ai Latini, ai Cartaginesi, che i Sardi hanno saputo conservare attraverso tante vicende e mescolanze di popoli. Il tempo ne ha potuto alterare le parole ma il rito e la credenza restano. (…) La maggioranza dei  Sardi crede fermamente nella potenza dei ‘berbos’. E mentre molti dicono che queste cerimonie son peccato mortale, i più credono invece che si tratti di riti quasi sacri.

Una testimonianza preziosa e rara. Il detto ‘parli del diavolo e spuntano le corna’ ci fa capire cosa si intende per potere evocativo della parola: dare un nome alle cose e alle persone significa chiamarle, richiamarle, darle forma. Vi sono, nella mitologia e nella tradizione, luoghi, persone e esseri fantastici che è meglio non nominare, per non richiamare gli effetti che il loro nome potrebbe evocare. La parola è creatrice così come può essere distruttrice. Le parole possono essere cancellate e cancellare, lasciare che tutto svanisca nell’oblio e nella dimenticanza. Tutte le pratiche di cura e di guarigione che uniscono la religiosità popolare con antiche credenze pagane, sono basate sull’uso attento e preciso della parola (orazioni, preghiere, cantilene, ‘brebus) e sul suo potere salvifico.  

Pregando si chiede l’intercessione della Madonna e dei Santi, ma non solo, spesso si cerca l’intervento e l’aiuto delle anime dei defunti. Le parole cantate e cantilenate calmano il malato e consolano nella sofferenza dei lutti, pensiamo ai canti funebri e ai lamenti delle prefiche (s’attittu), ma anche alle poesie e lodi recitate in queste occasioni dai parenti del defunto.

Oltre alla ricerca della salute, le parole accompagnavano anche la ricerca delle cose perdute, dell’amore, del lavoro, della ricchezza, dei tesori, di poteri magici e dell’invulnerabilità.

Esistevano formule specifiche da recitare anche per la salvezza degli animali (per es. per i vermi) o contro di essi, nel caso per esempio delle cavallette. Orazioni e preghiere venivano recitate per le carestie, per i temporali, per la siccità e le calamità naturali. Le parole vengono anche ascoltate: dopo aver recitato le orazioni per ritrovare un oggetto smarrito o rubato si recita l’orazione ed in seguito si ascoltano le voci dei passanti che vengono interpretate come risposte ricevute dall’esterno per trovare una soluzione. Ci vuole esperienza, capacità di ascolto e buon senso. A volte le parole vengono scritte: quando si compongono gli involti destinati a proteggere una persona, pezzettini di carta con preghiere che possono accompagnare erbe, fiori, parti di scapolari o di legni, terra consacrata o cenere, ostie etc.

Possiamo porgere l’orecchio e cercare di intuire le parole: la guaritrice bisbiglia, è difficile sentire, è quasi impossibile comprendere. Sono suoni che forse non prendono forma di parola, suoni evocativi che non devono diventare parole, le parole, le formule, devono restare segrete, non cadere in mani sbagliate, non essere usate per altri scopi. Il segreto garantisce la conservazione, la cantilena, il mantra della preghiera permette di entrare in un clima sacro di meditazione e preghiera, di rispetto. Con rispetto’.

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