STORIE DI CRONACA IN SARDEGNA DEL SECOLO SCORSO: IN RICORDO DI PIERO MANNIRONI, LEGGENDO IL SUO LIBRO “ANIME MALEDETTE”

Piero Mannironi

di SERGIO PORTAS

Che si debba aver timore a entrare in un teatro, in un cinema, in un museo, dice della strana temperie che ci attanaglia, che ci fa dubitare dei luoghi in quanto tali, e a questo proposito anche le librerie non se la passano granché  bene. I quotidiani che “fanno tendenza”, tutti chi più chi meno, in occasione delle feste natalizie si sono premurati di consultare alcune librerie sparse nel paese e hanno chiesto ai librai di consigliare loro, visto che di persona era difficile poterli incontrare, alcuni titoli “imperdibili”. Così è che, seguendo la “Volare” di Pinerolo ho scoperto che il Dante che noi conosciamo ( Alessandro Barbero: “Dante”, Laterza) si chiamava in realtà Durante e che la Beatrice Portinari di cui si innamorò era in tutta Firenze detta Bice. Se ne innamorò che lei aveva appena compiuto otto anni, lui (che avevo sempre creduto essere posseduto da una vena di pedofilia) andava per i nove. Erano bambini. E non la rivide più che  nove anni dopo”, lei già sposata e  con due figli, lui “ un adolescente pieno di desideri insoddisfatti, incrociatela per strada “come qualsiasi teen-ager imbranato, era in preda al panico e cercava di non farsi vedere, ma Beatrice incrociò il suo sguardo e lo salutò” (pag.75). Non mi è andata così bene per tutti gli altri “consigliati”, che Amazon mi ha fatto avere in un battibaleno, ma quelli della “Koinè” di Sassari proponendo delle “Cronache (nere) di Sardegna” col libro “Anime maledette” di Pietro Mannironi (Il Maestrale, pp.230,euro 18) non hanno certo peccato di campanilismo: “Il suo autore per quarant’anni ha scritto da inviato speciale per “La Nuova Sardegna” e i 27 capitoli che compongono la raccolta non sono solo un resoconto dei più clamorosi fatti di cronaca accaduti in Sardegna (e Corsica, ndr.) nel secolo scorso, con i tanti misteri che a tutt’oggi restano irrisolti”. “E’ un viaggio nel male, in tutte le sue declinazioni, nelle sue buie suggestioni e nelle sue imprevedibili incarnazioni”. Il nuorese Mannironi, classe ’53, ha di certo rivisto alcuni suoi pezzi di cronaca usciti in così tanti anni di giornalismo e, dico io, li ha spruzzati di una vena di poesia che in qualche modo è stata capace di addolcire anche l’indicibile. A pag.23 scrivendo del “mostro di Arbus”: “Una coppia di tedeschi: una fuga romantica in un luogo magico: la costa di Arbus, tra le dune dorate di Piscinas e scogliere brune, tra i ruderi tristi di una stagione mineraria ormai tramontata e davanti a un mare di una bellezza struggente. Era il 2 settembre del 1982…dopo aver raggiunto il borgo di Montevecchio, erano scesi lungo la stretta e tortuosa strada che porta al mare. Si erano fermati davanti alla spiaggia ambrata di Portu Sèssini, dominata da un promontorio roccioso chiamato “Su Pistoccu”, il Biscotto. E qui avevano parcheggiato, a ridosso di un rudere. C’erano solo loro. Era il paradiso solitario che andavano cercando. Quel giorno c’era un vento teso di libeccio che trascinava in cielo nuvole di piombo: una promessa di pioggia”(Pag.24). Poi furono spari e morte. E quanti morti, tutti sardi, furono nella “strage di Itri” non è dato sapere ( a 40 giorni dall’eccidio, non si conosceva l’esatto numero delle vittime, pag.46). Anche qui Mannironi sfoga la sua vena elegiaca a fare da contraltare all’orrore che verrà: Itri, una cittadina di oltre settemila abitanti tra Formia e Fondi, in una regione chiamata, ironia del destino, “Terra di lavoro”. Circondata dai monti Aurunci, coperta di boschi di lecci e di faggi, Itri sorge in una valle che degrada dolcemente verso il mare di Gaeta e Sperlonga. E’ aggrappata a un ripido poggio sul quale sorge un castello medievale circondato da miti e leggende (pag.41). “Siamo nel luglio del 1911. Occorrevano braccia e sudore per costruire a nuova linea ferroviaria Roma-Napoli. Dalla Sardegna arrivarono un migliaio di lavoratori. Quasi tutti erano reduci dalla drammatica “guerra delle miniere” esplosa sette anni prima in seguito ai fatti di Buggerru, che aveva portato al primo sciopero generale nazionale della storia del sindacato italiano” (pag.40).”Fuggivano dalla miseria e dalla disperazione. Fuggivano da pascoli avari e da campi nei quali non germogliava la speranza di una vita possibile. Ma sopratutto scappavano dall’inferno della miniere, nelle quali si perdeva, nel buio e nella fatica, la possibilità di affermare la propria dignità di uomini (pag.39). Comunque perché una massa di civili si spinga ad un vero e proprio linciaggio occorre identificare il “diverso” come un pericolo per la comunità tutta. Oggi è più semplice se i “migranti” sono neri, già quelli che stanno morendo di freddo al confine bosniaco creano più problemi, tutti comunque tentano di arrivare da noi “per rubarci il lavoro”. Come a Itri 110 anni fa. Dei sardi si scriveva “scientificamente” (Lombroso, Niceforo) essere “razza delinquenziale, biologicamente inferiore. Oggi, si sa, intrinsecamente delinquenti sono gli albanesi, e i rumeni, ed è noto che tutti i tunisini nascano spacciatori. Per tacere dei nigeriani, le nigeriane vengono da noi solo per prostituirsi a prezzi stracciati. Joseph de Maistre, responsabile della cancelleria sabauda aveva scritto sui sardi: “I sardi sono più selvaggi dei selvaggi perché il selvaggio non conosce la luce, il sardo la odia…Razza refrattaria a tutti i sentimenti, a tutti i gusti e a tutti i talenti che onorano l’umanità”. E ora questi sardi se ne venivano a Itri, faticavano dieci ore al giorno accettando salari inferiori a quello dei lavoratori arrivati dal resto d’Italia, e in più non ne volevano sapere di pagare “il pizzo” alla camorra. Addirittura (con l’aiuto di due avvocati socialisti, Nardone e Di Lauro) osavano organizzarsi per creare una Lega sindacale. Tutto comincia da una rissa scoppiata tra un locale e un gruppo di sardi che aspetta di essere pagato, è il giorno della “quindicina”, il giorno di paga di metà mese, nella piazza principale si respira un’aria di liberatoria euforia. Un gruppo di itriani si scaglia contro gli operai sardi: prima urla e spintoni, poi volano pugni e calci. Arrivano i carabinieri, armi in pugno, e subito arrestano uno dei sardi, Giovanni Cuccuru di Silanos. Ma è il pomeriggio che la scintilla fa deflagrare il delirio della folla: “Dalle case e dalle bettole escono di corsa decine di uomini armati di fucili, pistole, scuri, pugnali e zappe. Con loro ci sono anche i carabinieri, le guardie forestali, il sindaco e gli amministratori. E’ una spaventosa caccia all’uomo per le strade e le piazze della cittadina” (pag.43). La parola d’ordine, l’urlo della folla impazzita è “Fuori i sardegnoli”!   C’è chi viene colpito al collo da un colpo di pistola sparato a bruciapelo, chi pugnalato alla schiena. Così per tutta la notte. E all’indomani si riprende. La camorra ha evidentemente pianificato tutto. Si distribuiscono fucili, le campane suonano a distesa. Gli itriani sono divorati da un odio bruciante e selvaggio. Sparano contro quegli uomini che detestano semplicemente perché li sentono diversi da loro. Tanto diversi da aver avuto l’impudenza di dire no ai signori della camorra, davanti ai quali invece loro chinano la testa e pagano il “pizzo” (pag.45). E’ una mattanza, si muore straziati a colpi di coltello e di scure, la testa schiacciata con un masso. Scende la notte. Sul selciato ci sono otto morti, ma si dice che le vittime siano addirittura dodici, perché alcuni cadaveri sono stati trascinati via dagli itriani e sepolti frettolosamente in campagna. I feriti sono più di sessanta, alcuni gravissimi. Dopo il danno la beffa: alcuni sardi vengono arrestati, altri espulsi e molti altri ancora licenziati. Nessuno sarà condannato per la strage (pag.46). La conoscenza della propria storia dovrebbe funzionare come un vaccino, lasciare nell’animo delle genti contemporanee quegli anticorpi che ti permettono immediatamente di riconoscere torti e ingiustizie che hanno subito i tuoi parenti, i tuoi avi, i medesimi che oggi toccano agli sfortunati di oggi: migranti, gente che scappa dalla guerra, dalla fame. E i sardi, bisogna riconoscerlo, di questi anticorpi dovrebbero andare fieri, tanto è travagliata la storia che li ha contraddistinti. Da qui è lecito attendersi da loro uno sguardo più compassionevole verso i diversi di adesso, loro che nel regno di Sardegna targato Savoia, ancora agli inizi del 900 erano i diversi per antonomasia, quelli che si potevano prendere a fucilate, a roncolate, senza pagare pegno. Il cui lavoro si poteva pagare meno, nel 1906 nel Sulcis-Iglesiente i minatori avevano visto scendere il salario giornaliero da 2,54 lire a 2,30, e alle rivendicazioni legittime che nelle miniere toscane gli operai guadagnavano quasi una lira in più al giorno (poco meno del 50%) le Compagnie opponevano argomenti di evidente intonazione razzistica ( da Giuseppe Fiori: “Vita di Antonio Gramsci”, Laterza ed.). Il lavoro dei minatori sardi veniva descritto, anche nelle sedi istituzionali, come: “molto inferiore in media a quello del continente, causa la tendenza all’ozio, il clima, la mancanza di iniziativa e di energia”. Discorsi da “uomo bianco” in colonia li definisce Fiori “puro alibi a giustificazione di salari inferiori al costo di mantenimento di uno schiavo e questa mentalità affiorava anche laddove i minatori chiedevano una più umana disciplina del lavoro. Un gruppo di operai della Seddas Moddizzis venne licenziato per aver osato chiedere un po’ di regolarità nella corresponsione dei salari (non più ogni due o quattro mesi), due giorni pagati al mese, la riduzione a dieci delle ore giornaliere di lavoro e un’ora di riposo da mezzogiorno all’una per mangiare (pag.50, op.cit.). I “sardi di oggi” sono quasi tutti neri e raccolgono nel Salento ortaggi per un imprecisato numero di ore al giorno, per un imprecisato salario giornaliero, dormono in posti fatiscenti senza acqua corrente e servizi. Qualcuno, ogni tanto, li prende a fucilate. Noi “i sardi di ieri” e quasi omologati in una italianità incerta, almeno un po’ di solidarietà non gliela possiamo proprio negare.

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