NO ALLA MONOCULTURA TURISTICA: SONO NECESSARIE LE POLITICHE DI VALORIZZAZIONE DELLE POTENZIALITA’ LOCALI PER INNESCARE LO SVILUPPO

di FRANCO SARDI

Troppe volte ci siamo illusi di aver trovato una soluzione capace di migliorare le condizioni di vita e assicurare un futuro alle nuove generazioni in Sardegna. Quasi un secolo fa il fascismo con la “Legge del miliardo”, puntò su infrastrutture, agricoltura e miniere, nel secondo dopoguerra il Piano di Rinascita scommise sui poli industriali, mentre negli ultimi decenni abbiamo sperato nei fondi europei, faticando troppo spesso su regole scritte a misura di altre realtà sociali. Fin dall’inizio di questa storia si è affermata la convinzione che potenziare l’offerta turistica avrebbe sostenuto lo sviluppo: sembrava la panacea che doveva trainare agroalimentare, servizi, trasporti, riqualificazione del territorio e via dicendo. Invece non è andata esattamente così, anche perché non si sono costruite le filiere agricole e abbiamo importato la maggior parte dei prodotti alimentari consumati dai turisti (e da noi sardi) o perché la domanda di nuovi servizi e di trasporti non è stata orientata verso l’imprenditoria locale, anzi.

Ora, questi mesi lunghi di epidemia hanno mostrato che basta un impalpabile coronavirus per sconvolgere l’economia turistica a livello mondiale, gettando nello sconforto gli operatori del settore nei molti Paesi privi di ogni rete di protezione, mentre dove un forte intervento pubblico sta cercando, come in Europa, di mitigare i danni maggiori ci si domanda fin quando potremo reggere o quanto debito pubblico si potrà scaricare sulle generazioni future.

Così, se fino a un anno fa il turismo dava respiro alla Sardegna, con più di 50.000 giovani (molte le donne) impegnati in lavori stagionali e coinvolgeva una pletora di piccole imprese nei servizi ai viaggiatori, è bastato il 2020 per mettere tutto a soqquadro e ricordarci la nostra fragilità. Quelle che ci sembravano certezze si sono rivelate semplici speranze figlie della nostra finitudine: è una lezione difficile da accettare, anzi quasi indecifrabile per l’umanità del XXI secolo ostinata a rifiutare l’idea stessa del limite. Eppure è un monito estremamente semplice e già vissuto: non siamo onnipotenti, ma esseri fragili in un mondo che non fa sconti. Certamente arriverà un vaccino, probabilmente supereremo questi mesi difficili, ma le ferite resisteranno, anche quando le negheremo.

La pandemia ha dimostrato ancora una volta che nessun comparto da solo crea e mantiene lavoro e benessere. Senza agricolture e manifatture sane, senza un sistema efficiente di servizi alla persona e per il territorio il turismo sardo non andrà lontano. Illudere i ragazzi che potranno divenire facilmente chef stellati o imprenditori turistici di successo perpetua quell’inganno che decenni fa li ha spinti ad emigrare verso terre promesse, dove pochi hanno vinto e molti si sono arenati. Diverse ricerche sul modello turistico mare e sole chiariscono che senza politiche regionali e locali capaci di contrastare interessi estranei all’isola di un sistema chiuso di resort e villaggi si distribuisce temporaneamente reddito, ma non s’innesca lo sviluppo.

In questo difficile 2020 è naturale dare tutte le colpe al coronavirus, ma l’esperienza di sistemi turistici messi in crisi dal terrorismo, Egitto e Tunisia, dai cambiamenti climatici o semplicemente andati fuori moda in un breve volgere di anni avrebbero dovuto aprirci gli occhi da tempo. Poche industrie sono esposte a rischi esiziali come quella turistica, che può contribuire alla crescita, ma non esserne l’unico fattore. Una controprova la forniscono paesi come Sadali o Baunei e itinerari come “Selvaggio Blu” con il loro incremento lento, ma costante di attrattività che li espone meno ai cicli negativi. Forse non tutti lo sanno, ma alla fine degli anni ’60 i Cooperatori salesiani avevano intuito che aprirsi al turismo avrebbe potuto dare una prospettiva a quei territori, a condizione che la novità non sostituisse quanto già esisteva e che, innanzitutto, si mettessero a posto scuole e campi sportivi, partissero esperienze di formazione continua, si recuperassero tradizioni e saperi, si producesse e si ospitasse a chilometro zero, come si direbbe oggi, e innescarono il cambiamento con ripetuti campi di lavoro estivi in Ogliastra e Barbagia di Seulo.

Cinquant’anni dopo i risultati si vedono, paesi più piacevoli, imprese familiari, donne protagoniste, offerta tipica diversificata che genera lavoro, piccole ma solide corazze a difesa delle fragili prospettive di ogni monocultura turistica.

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