NELLA II EDIZIONE AMPLIATA DEL VOLUME “LA MIA PRIMA VOLTA CON FABRIZIO DE ANDRE’. 515 STORIE” A CURA DI DANIELA BONANNI E GIPO ANFOSSO, ANCHE UNO SCRITTO DEL GIORNALISTA SARDO-PAVESE PAOLO PULINA

Nel pomeriggio di venerdì 11 gennaio 2019 (a vent’anni esatti dalla scomparsa di Fabrizio De André) è stata presentata in anteprima a Pavia, presso il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria, la seconda edizione ampliata del volume “La mia prima volta con Fabrizio De André. 515 storie” a cura di Daniela Bonanni e Gipo Anfosso, edito da Ibis. 

Le storie, che raccontano la propria, personale “iniziazione” a Fabrizio De André (come-dove-quando-con chi è successo), da 305 sono diventate 515. Questo interesse sempre vivo testimonia il fatto che Fabrizio De André è ancora tanto amato e presente nel nostro immaginario collettivo: di fatto si conferma essere sempre più il “filo rosso” che unisce vite e generazioni. Tanta è la voglia di raccontare e raccontarsi in rapporto al mitico Faber – dichiarano i due curatori –, che sono stati chiamati a presentare la prima edizione del libro in tutt’Italia e lo hanno fatto in osterie, biblioteche, librerie e in qualche festival letterario.

Scrivono Bonanni e Anfosso: «Sono storie scritte da persone di ogni età, dai 10 agli 82 anni. Da persone comuni e personaggi famosi (tra cui musicisti e stretti collaboratori di De André). Tutti inseriti, rigorosamente e molto democraticamente, in ordine alfabetico. Questa edizione, oltre al messaggio pieno d’affetto di Dori Ghezzi, è impreziosita da una introduzione – accurata e appassionata – di Enrico De Angelis. In collegamento con la nuova edizione del libro, in segno di omaggio a Fabrizio De André, si propone l’iniziativa: #deandregoccedimemoria 2019: dedicato a Fabrizio De André. Vent’anni dopo. Si tratta di una proposta semplice: dare un segnale, inserire “frammenti di De André” nelle nostre attività quotidiane. Una canzone, un testo, un pensiero di Fabrizio nella scaletta dei concerti (pop, rock, jazz, rap, musica classica …) per chi è  musicista,  nelle programmazioni scolastiche per chi è insegnante,  nella playlist dell’I Pod, nelle librerie, nelle biblioteche … Ma anche nei negozi e negli uffici in cui lavoriamo. Una sorta di “De André diffuso”, perché mai come ora, in tempi sempre più cinici e disumani, sentiamo il bisogno, la necessità di divulgare la sua musica, la sua poesia, la sua direzione ostinata e contraria.

Adesioni: #deandregoccedimemoria, indicando generalità, luogo, titolo e breve descrizione dell’iniziativa. Info: danielabonanni52@alice.it ;  gipoanfosso@gmail.com

Blog:  primavoltacondeandre.tumblr.com  /  Facebook @primavoltacondeandre».  

La giornata pavese in ricordo di  De André si è conclusa a Spaziomusica con l’omaggio da parte  di  diversi cantanti e gruppi musicali. Il cantautore sardo-pavese Antonio Carta ha cantato due pezzi di De André: “Monti di Mola”  (testo in gallurese) e “Inverno”; con lui  hanno suonato Giovanni Lanfranchi al violino e Matteo Zanesi alle percussioni.

***

Ed ecco qui di seguito “la prima volta con Fabrizio De André” di Paolo Pulina (Ploaghe, 1948)

Quando uscì,  nel 1963, il terzo 45 giri di Fabrizio De André, con i pezzi  Il fannullone e  Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers,  anche in  una classe di quinta Ginnasio del Liceo classico “Domenico Alberto Azuni”  di Sassari, cominciarono subito a circolare – in una specie  di samizdat – le parole trasgressive e i contenuti  dissacratori  di una figura mitizzata nella manualistica storica come Carlo Martello, contenuti molto più “intriganti” di due “licenze poetiche” pur presenti nei versi (Carlo Martello non era re, ma solo “maestro di palazzo” dei re Merovingi; la battaglia di Poitiers avvenne nel 732 nel mese di ottobre, non “nella calda primavera”).

Nel mio paese natale, Ploaghe, vicino a Sassari, in una famiglia di pastori come la mia non era certo disponibile un giradischi né c’erano le possibilità economiche di comprare degli oggetti voluttuari come i  45 giri.

Era successo però che, in cambio di numerose forme di formaggio pecorino, una famiglia che stava per emigrare in Francia, nei primi anni Sessanta, ci aveva  consegnato una vecchia, ingombrante RadioMarelli e lo Zingarelli, il famoso dizionario della lingua italiana: due strumenti di acculturazione sicuramente non di prima necessità vitale nel luogo di nuova residenza della famiglia costretta all’espatrio alla ricerca di un lavoro.

Avendo potuto ascoltare fortunosamente “Carlo Martello” alla radio anche io potei vantare il “privilegio emozionante”  (secondo il ben conosciuto meccanismo del  “fascino del proibito”) di aver sentito dalla viva voce di Fabrizio De André quelle “parole brutte” e dissacranti che non potevano non sollecitare l’interesse dei giovani  allevati in un contesto socio-culturale (prima metà degli anni Sessanta) di asfissiante pruderie che la studiosa Nora Galli de’ Paratesi si apprestava a documentare addirittura in un volume degli Oscar Mondadori (1969;  ma l’edizione originale presso Giappichelli di Torino  era del 1964) con un titolo ineccepibilmente scientifico ma veramente ostico per la comprensione da parte di lettori comuni, cioè Le brutte parole: semantica dell’eufemismo. Sicuramente la spiegazione  riportata in copertina dell’edizione economica era più intelligibile (“Uno studio sulla censura del linguaggio; l’interdizione verbale operata dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza; le parole proibite nell’italiano, nei dialetti, nei gerghi”)  anche rispetto al sottotitolo originale che era “L’eufemismo e la repressione verbale: con esempi tratti dall’italiano contemporaneo”.

Da allora Fabrizio De André per me ha significato “trasgressività” e nel clima di rivoluzione sessuale inaugurato nel 1968 dal movimento studentesco la “favola d’amore” intitolata  La canzone di Marinella ha trovato la sua più adatta collocazione e valorizzazione, diventando la colonna sonora di molte reali storie d’amore.

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Scritta questa testimonianza – racconta Paolo Pulina –, da sardo, in omaggio  a De André innamorato della Sardegna, mi sono divertito a tradurre  nella variante logudorese della lingua sarda (Faber avrebbe certo apprezzato di più la variante gallurese, quella parlata nei luoghi a lui cari giustappunto in Gallura, ma non è la mia parlata materna…) La canzone di Marinella, in versione ovviamente cantabile.

Sa cantone de Marinella
 
Custa de Marinella est s’istòria bera  
chi in d’unu riu at illitàdu in berànu  
ma su entu chi l’at bida gai bella  
da-i su riu l’at giuta subra un’istèlla.  
Sola, chena amméntos de dolore,
vivías chena sónnios de amore,  
ma unu re, chena corona e chena iscorta  
at tzoccàdu tres bortas a sa porta.  
Biancu che-i sa luna  at su cappéddu  
che-i s’amore  ruju at su mantéddu  
tue l’as sighídu chena una rajone  
comente unu pitzínnu sighit s’abbilòne.
E bi fit su sole e aías ojos beddos
e isse t’at basadu laras e capíddos,  
bi fit sa luna e aías ojos istràccos  
isse t’at postu  sa  manu  in sos fiancos  
et fint meda basos et fint meda risíttos
poi fint solu sos frores bellítos   
e sas istèllas ant bidu cun própios ojos
trèmere sa pedde tua pro entu e basos.  
E naran poi chi cando ses torràda
in su riu chissà comente che ses falàda
e isse  chi non cheria a ti crèere morta  
at tzoccàdu àteros chent’annos a sa porta.  
Custa est sa cantone tua, Marinella,  
chi ses bolàda in chelu subra de un’istèlla  
e comente totu sas pius bellas cosas  
as vívidu solu una die comente sas rosas.
e comente totu sas pius bellas cosas  
as vívidu solu una die comente sas rosas.
 
Traduzione in logudorese di Paolo Pulina

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera

che scivolò nel fiume a primavera

ma il vento che la vide così bella

dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore

vivevi senza il sogno di un amore

ma un re senza corona e senza scorta

bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello

come l’amore rosso il suo mantello

tu lo seguisti senza una ragione

come un ragazzo segue un aquilone.

E c’era il sole e avevi gli occhi belli

lui ti baciò le labbra ed i capelli

c’era la luna e avevi gli occhi stanchi

lui posò la sua mano sui tuoi fianchi

furono baci e furono sorrisi

poi furono soltanto i fiordalisi

che videro con gli occhi delle stelle

fremere al vento e ai baci la tua pelle…

Dicono poi che mentre ritornavi

nel fiume chissà come scivolavi

e lui che non ti volle creder morta

bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella

che sei volata in cielo su una stella

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno, come le rose

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno come le rose.           

Fabrizio De André

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Un commento

  1. “La canzone di Marinella” è certamente una delle migliori composizioni di De Andrè e Paolo ha fatto bene a tradurla nel suo logudorese anche se intriso di licenze poetiche che io gli perdono non solo come poeta ma anche come logudorese da molto tempo lontano dalle sue radici.E gli faccio osservare anche che io, quando leggo uno scritto sia di un editorialista, sia di un critico sia di uno pseudo- letterato, che contiene un’espressione come “semantca dell’eufemismo” abbandono immediatamente la lettura. Per carità patria.

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