MANCANZA D’IGNORANZA: AL DI LA’ DEI LUOGHI COMUNI E DELLE GENERALIZZAZIONI, IL SARDO E’ INTELLIGENTE

di Omar Onnis

Com’è noto, gli stereotipi sul conto sei Sardi si sprecano. La nostra mitologia identitaria è ricca di luoghi comuni e generalizzazioni quasi sempre degradanti, spesso reciprocamente contraddittori, ma oggetto di fede e di venerazione da parte di molti di noi.

Ci crogioliamo nella scemenza pseudo-antropologica della nostra atavica arretratezza o della nostra disunione congenita, ci perdiamo in discorsi pseudo-storici relativi al nostro destino di sottomissione inevitabile, dopo di che, contenti e soddisfatti, pieghiamo la testa davanti al nostro presente di degrado sociale e politico e andiamo avanti come sempre.

Mi pare che invece non ci si soffermi mai abbastanza su alcuni tratti culturali che in realtà sono piuttosto diffusi e condivisi e che spiegano molto meglio degli stereotipi subalterni alcuni dei nostri problemi.

Uno, secondo me molto vistoso, è l’eccesso di intelligenza.

I Sardi sono una popolazione, che – per varie ragioni storiche – ha maturato nel tempo un alto livello medio di capacità cognitive.

Capacità cognitive nella sfera dell’astratto e del teorico, per lo più. Che ha riverbero diretto sulle abilità retoriche e sul gusto per la narrazione.

Siamo dei chiacchieroni indefessi, insomma. Ma non solo e non sempre in termini banali, bensì, per lo più, con pretese di onniscienza.

Il tasso di depositari dell’ultima parola su qualsiasi cosa, tra i Sardi, sfiora il 100%.

Ci piace sentenziare, ci piace discutere, ci piacciono le controversie, lo sfoggio di artifici retorici, ci piace aver ragione tramite le nostre superiori capacità dialettiche.

Del contenuto e del merito delle questioni ci importa poco, di solito. Non è su quello che conquistiamo il nostro riconoscimento sociale.

Perciò dico che si tratta di una forma di intelligenza molto marcata ma altrettanto astratta.

Quando ci meravigliamo che territori e popolazioni meno dotati di risorse materiali e spirituali ci surclassino sotto il profilo delle realizzazioni concrete, di solito ricorriamo alle spiegazioni tossiche prelevate dalla nostra mitologia identitaria.

Il che non fa che generare un circolo vizioso di auto-compatimento rancoroso, di rassegnazione, di resa.

Accettiamo come un destino ineludibile una realtà fatta di risorse non sfruttate, di luoghi imbruttiti, di centri abitati ridotti a ammassi di non-finiti e di trascuratezze urbanistiche, di amministrazioni affidate a mediocri e furbi arrivisti, di politica appaltata a impiastri bravi solo a cercarsi padroni più malintenzionati degli altri, ecc. ecc.

Salvo, alla prima occasione, riprendere a sentenziare ex cathedra su qualsiasi tema attiri la nostra attenzione momentanea.

Tanto per noi l’importante è fare sfoggio di abilità retoriche e di sarcasmo raffinato ogni volta che sia possibile.

In questo i social media sono stati una vera disgrazia. Hanno moltiplicato a dismisura la dimensione del tzilleri, del vicinato, della piazza, del ritrovo conviviale, estendendone la portata oltre il tempo e lo spazio, quasi all’infinito.

Come si direbbe dalle nostre parti, lì ci volevamo!

E non è che non siamo capaci di fare anche le cose concrete. Quando ci interessa e quando siamo costretti dalle circostanze, non siamo più imbranati di altri.

Però ci frega sempre la maledetta tentazione di dire la nostra, di prevalere sull’interlocutore, di dimostrare al mondo che non siamo fessi.

Tutto puoi dire a un/a sardo/a: che è poco, loco e mal unido, che è buono solo a morire in guerra in conto terzi, che senza un padrone benevolo (o anche malevolo) non potrebbe campare, che non sarà mai in grado di cambiare in meglio le cose.

Non se ne avrà mai a male, per questo. Anzi, sarà un suo punto d’onore dimostrarti che è proprio così.

Ma guai a dirgli che è tonto/a!

Non siamo tonti, è vero. E abbiamo un sovrano disprezzo per chi lo è.

Ma essere tonti (ossia, poco dotati cognitivamente, lenti di comprendonio) non è una colpa.

È una colpa invece sprecare l’intelligenza, trasformare le capacità di comprensione e di astrazione in pura e semplice stupidità.

Perché la stupidità non è solo o tanto la mancanza di intelligenza ma è più spesso un suo uso scorretto o controproducente.

Ecco, non saremo tonti, ma spesso siamo stupidi.

Quando mettiamo il nostro orgoglio personale davanti a obiettivi concreti e vantaggiosi per tutti. Quando facciamo fallire progetti o intenti collettivi pur di non ammettere che forse la nostra idea non era la migliore.

Quando denigriamo qualcuno solo perché non lo reputiamo (magari a torto) alla nostra altezza, a prescindere dai meriti e dai demeriti effettivi. Quando votiamo consapevolmente le persone sbagliate perché le persone giuste ci stanno antipatiche.

Quando rinunciamo a una conquista perché non coincide perfettamente con quello che volevamo noi.

Essere troppo intelligenti diventa così una condanna.

Tante volte mi augurerei di far parte di una comunità umana un po’ meno intelligente e un po’ più coi piedi per terra.

Sacrificherei, insomma, il godimento intellettuale e il divertimento fine a se stesso in nome di qualcosa di più pratico.

Sarebbe tutto più noioso, senza dubbio, e mancherebbero le occasioni per ricamarci versi o elaborare raffinate maledizioni.

Ma siamo sicuri che, alla fine dei conti, non vivremmo meglio?

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