L’ARTE DI “DISEGNARE” I TAPPETI: EUGENIA PINNA DA NULE A MILANO PER UN CORSO DI TESSITURA


di Sergio Portas

Aveva ragione Curzio Malaparte nel dire che gli angeli del suo compaesano (erano ambedue di Prato) Filippino Lippi hanno musi di scugnizzo,vedere per credere la sua: apparizione della Vergine a san Bernardo, lui il Filippino figlio di frate (ex) Filippo e di una (ex) monaca, è fra i primi ad usare i colori per pennellare in maniera pastosa, impressionistica diremo oggi, non può essere un caso che sia in via Filippino Lippi (a Milano stavolta) che debba recarmi da quelli di “Tessereincontri”, dove Eugenia Pinna da Nule terrà a fine ottobre uno dei suoi corsi di tessitura. Cosa ha a che fare la pittura risorgimentale con l’arte di tessere i tappeti, mi direte. E’ che non avete visto mai un tappeto di Nule, dipinto, pardon tessuto a fiamma. Di quelle particolarità che fa parte a buon diritto dei tesori dell’artigianato Sardo, quelle esplosioni di cultura che si materializzano in paesi che contano gli abitanti a centinaia (Nule dovrebbe essere intorno ai millecinquecento) e che narrano di sé, i paesi i tappeti, storie di microcosmi che possono parlare alla modernità con accenti d’originalità così spiccata, da poterla e scavalcare e cavalcare allo stesso tempo. Imponendosi con un marchio (oggi si direbbe un brand) che viene dall’inconscio collettivo di una piccola comunità (nuragica?), tramandato dalla manualità delle donne, che i maschi erano al solito dietro le pecore al pascolo, usando la lana dei greggi per trame ed orditi, tinta una volta solo con colori naturali. Che potevano venire dalle bucce di cipolle al mallo di noce o dalle foglie del castagno, facile pronosticare che fossero le anziane a custodire i segreti dei colori più vivi, quelle che diventavano a giusto titolo “streghe” e maghe della comunità. E forti dovettero essere sempre i sodalizi che univano filatrici di lana colorata alle tessitrici più esperte e valide, quelle che non avevano bisogno di firmare i loro prodotti, che si riconoscevano dal modo in cui i pettini di legno avevano unito i fili l’uno con l’altro, si riconoscevano dall’accostamento del giallo cromo al verde smeraldo, a dare una fiamma più spostata verso tinte più calde o più fredde, secondo l’umore del momento, l’andare delle stagioni. Si tesseva a Nule, quasi tutte le donne, con telaio verticale, le povere case non avevano una stanza solo per quella attività, e i prodotti più belli, i meglio riusciti, erano per la dote delle spose. Quando si cominciarono a commerciare, posti sulla groppa dell’asinello i tappeti, le donne di Nule andavano a gruppi verso “sa Costera”, verso il sassarese, imprenditrici di se stesse, i colori sgargianti come squilli di trombe per i mercati improvvisati. Scrive salvatore Cambosu nel suo “Miele amaro”: “…appo intesu sonu ‘e telarzu/ e sa bidda no pariat piùs morta” e poi dice di Morgongiori che restò fedele all’aquila coi cervi, Mogoro che diede i cavalli quasi quadrati neri e rossi, Isili gli uccelli stecchiti…la Marmilla il ballo tondo come gara di resistenza…Così Nule diede il suo tappeto, e l’innalzò quasi insegna straniera per insoliti colori…”. Quale nazione del mondo può fieramente mostrarsi così ricca di creatività, di inventiva identitaria, che i disegni del Goceano erano altra cosa di quelli della Baronia, dei Campidani tutti, della Barbagia, accomunati però da una consanguineità tralucente che tutti li diceva figli d’una stessa Sardegna, arcaica ed immutevole. Nule di più, aveste potuto assistere al migrare dei greggi verso i pascoli campidanesi, da sardi avreste riconosciuto i pastori di Nule dai colori delle bisaccia sgargianti, a chilometri di distanza, uno stendardo dispiegato, come  bandiere beduine di berberi del Sahara. Il mito racconta che fu uno straniero (un moro) a conquistare il cuore di una ragazza di Nule col rivelarle l’arte di colorare fili che distinguevano solo il nero dal bianco. Da quella felice unione anche la sfida dell’astratto, rombi allungati policromi a rappresentare fiamme, intrecciate nei mille modi che la fantasia sa distinguere tra le lingue del fuoco che nel camino brucia rami d’asfodelo. Fantasia femminile che doveva gareggiare in bravura con le vicine di casa, che doveva saper raccontare della buona o cattiva sorte delle stagioni. Persino dell’umore di una famiglia, il tappeto delle sorelle Senis che dopo un feroce litigio continua ad essere tessuto da loro a quattro mani ma con esiti dissonanti, quasi gli strilli di donna, le lacrime, i reciproci risentimenti, si siano tramutati in dissonanza di trama e il tappeto lo svela e lo certifica. Eugenia Pinna vive a Nule, mi dice d’avere appreso l’arte del tessuto da una vicina di casa, lei piccina  ne era rimasta stregata e, finiti gli studi superiori, quest’amore è riemerso prepotentemente fino a farle immaginare che avrebbe potuto diventare scopo di una vita, fondamentali i quattro anni di borsa di studio che vinse per l’Istituto Europeo di Design di Cagliari e da allora, saranno passati trent’anni, di tessuti e colori si occupa, immettendo la sua creatività nel solco di una tradizione che la pervade per nascita e per scelta. I suoi lavori hanno visto mostre e riconoscimenti in tutta la Sardegna e fuori di essa, qui a Milano fa periodicamente dei corsi per un ristretto numero di allieve, che sempre al femminile dobbiamo declinare il discorrere su questo tema. L’obiettivo minimo da perseguire è che il lavoro venga pagato per quello che vale veramente, mi dice Eugenia, da qui la difficoltà, per una libera professionista quale lei è, di occuparsi di ogni sfaccettatura riguardante il processo produttivo e la commercializzazione del prodotto. La sua pubblicità, se si vuole ampliare veramente il mercato al di fuori dell’isola. E  fin anche l’onnipotente internet potrebbe veramente dare una mano. Ora come ora, per brave che si possa essere, l’occuparsi di ogni singolo dettaglio non è pagante. Ha due figli Eugenia, la femmina non ha intenzione di seguire le orme materne, studierà da dottoressa in medicina. Non è stata contagiata dalla febbre di mamma. Leggo su di lei in “Tessuti, tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna”, Ilisso ediz. 2006: “ …La Pinna ha creato un laboratorio di tessitura con i bambini delle elementari, assieme alla raccolta della terminologia legata ai manufatti, agli strumenti e ai materiali, alle filastrocche e ai modi di dire. Eugenia Pinna ha fatto toccare con mano agli alunni fili e colori, in telaietti appositamente preparati. Il tutto è stato poi esibito in una mostra intitolata: Filos e fileddos…”. Così ne scrive Cosimo Zene sul paragrafo a titolo: “Il dono della tessitura: Il tappeto di Nule”. E’ un dono collettivo, frutto del lavoro al telaio di innumerevoli generazioni di donne nulesi. Ognuna di loro interprete individuale di una tradizione amalgamatasi nei secoli. Eugenia Pinna la fa rivivere e le dà nerbo con la sensibilità dell’artista che è, la porta anche qui a Milano a incontrare altre tessitrici d’altra matrice, la padrona di casa Caterina Maioli si aggira per le stanze del laboratorio con un paio di grosse forbici a tracolla, tintura con coloranti naturali e tessitura le sue parole d’ordine, maturate nel Messico di Michoacàn. Le pareti delle stanze completamente ricoperte da stoffe e sciarpe dai colori i più brillanti, neanche fossimo nei bazar della medina di Meknès, trasmettono un senso di pace gioiosa e operosa, quale solo le comunità di donne sono capaci di ottenere semplicemente esistendo e lavorando. Per quello che riguarda le tessitrici di Nule che ancora coltivano il sogno di vivere della loro arte, s’io fossi sindaco del paese seguirei le orme di una grande artista sarda da poco scomparsa, Maria Lai che, tra le altre mille e mille iniziative della sua vita, una volta legò l’abitato della sua Ulassai con un nastro di cotone blu. Io userei per le tessitrici di Nule un filo rosso che di casa in casa indicasse ai visitatori curiosi di tappeti dove poterli trovare ed ammirare (e comprare persino), un filo rosso di lana di pecora sarda, e per farlo risaltare anche di notte al
lume delle stelle, nel tingerlo un’aggiunta di fiori di zafferano.

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