LA PIANTA DEL DEMONIO: SA FIGU, UN ALBERO IN SARDEGNA MOLTO RISPETTATO


di Claudia Zedda

Vi è mai capitato di raccogliere fichi durante un pomeriggio tiepido di inizio estate o sul finire di una lunga, fresca serata settembrina? Il sole non riesce ad oltrepassare il limite fragile imposto dalle foglie, fitte, sottili, larghe come mani. Eppure nel suo tentativo di penetrarle le fa quasi trasparenti e d’un verde abbagliante che si spande come olio sotto quella fronda odorosa e ruvida.

E tu stai, piacevolmente prigioniero di quel mondo ovattato, nel quale persino il rumore d’uccelli ti raggiunge lontano, nel quale più di una volta ho desiderato sonnecchiare con la testa all’insù ad ammirare quei golosi regali d’un viola simile alla melanzana, rotondi come piccole pere scure, dolci, scritti dal tempo, vivi al proprio interno di filamenti che nuotano in un cuore di rosso vermiglio.

Qualcuno direbbe che io sia stata fortunata a non addormentarmi mai sotto un fico, che sotto la sua ombra, in agguato, si nasconde niente di buono. La credenza popolare, diffusa in lungo ed in largo per l’isola è certa che il fico dia ospitalità a spiriti cattivi, ombre malvagie dei defunti e sia dimora prediletta del demonio, e si crede in genere che dormire o meriggiare sotto una pianta di fico, sia esso domestico o selvatico, apporta malessere, disgrazie e guai di variegato genere.

“Hai mai visto dormire un animale sotto una pianta di fico? Il suo fogliame è tanto folto che soffoca!”. E’ stata questa la risposta che ho ottenuto quando ho domandato nella zona di Castiadas.

La mia genuina passione per la pianta del Ficus Carica, dettata più ancora che dall’immagine romantica che me ne sono fatta, dal gusto delle sue infruttescenze, mi ha spinto a scavare oltre il primo strato di folklore e genuina saggezza popolare per trovare spiegazione a questa avversione che è bene sottolineare, grosso modo tutta la Sardegna condivide. Basterà ricordare che anche solo sognare fichi neri era considerato a Tresnuraghes presagio di morte.

Chi cerca trova, e quello che ho trovato ora te lo racconto.

Il fico in Sardegna anticamente non era un albero temuto, rispettato direi piuttosto. Che l’una e l’altra cosa si siano con il tempo confuse è probabile e non sorprendente. Sotto le sue fronde si tenevano tribunali popolari e giuramenti ordalici di cui oggi resta poco e niente e il frutto era da ritenersi alimento tanto prezioso che questo, accompagnato da altra frutta secca, pane bianco, dolci e in rarissimi casi soldi, veniva regalato ai ragazzi che si recavano di casa in casa per fare la questua in onore delle anime dei defunti. Parliamo della questua per li mòlti e mòlti, per is animèddas e via dicendo. I fichi secchi comparivano inoltre fra i regali che i bambini ricevevano durante su kandelàrdzu o durante l’Epifania. Molto affascinante la tradizione che si rileva per la Corsica, di seppellire i bambini morti prima di aver ricevuto il battesimo, esattamente sotto una pianta di fico.

Il potenziale magico della pianta del fico è facilmente riconoscibile anche quando si parla di presagi sul futuro matrimoniale delle giovani sarde. In diverse località dell’isola le foglie della pianta, raccolte alla vigilia della notte di San Giovanni Battista, venivano poste nei quattro angoli della stanza dove dormiva la giovane nubile. A ciascuna foglia era assegnato il nome di un giovane pretendente. La foglia che la mattina si fosse mostrata più fresca, segnalava il nome del futuro marito della nubile. Identico rituale poteva effettuarsi con quattro rami; San Giovanni stesso avrebbe rinvigorito maggiormente il ramo rappresentativo del ragazzo giusto.

Il fico magico che cura

Scoprire che il caprifico (fico selvatico) e il fico domestico erano considerate piante magiche è stato entusiasmante. “Ci hai visto giusto”, ho pensato subito. Il legame fra fico e luna appare in un certo senso ossessivo. Per la raccolta delle sue infruttescenze, dei suoi rami, per la pratica di alcuni rituali, la fase lunare era fondamentale. Pure quando le foglie del fico dovevano regalare previsioni sullo stato di salute di chi che sia durante l’anno, queste dovevano essere esposte per una notte intera ai raggi iridescenti della luna. Un legame forte, che nasconde tutto il rispetto covato per millenni nei confronti dell’una e dell’altro.

Il lattice del fico e caprifico la tradizione medica popolare li ha usati da sempre: erano utili per curare porri, verruche, calli, dermatiti e veniva impiegato anche contro i dolori sciatici o per estirpare le spine di fico d’india e di riccio di mare. Provare per credere: io l’ho fatto e ha funzionato. Si doveva semplicemente stillare il latte della foglia o dell’infruttescenze là dove si trovava conficcata la spina e questa veniva fuori.

In tutti questi casi si tratta di medicina, tradizionale e popolare, ma pur sempre medicina. Più affascinante è scoprire di quei casi nei quali la medicina si mescolava con la magia.

Questo accadeva quando si utilizzava la pianta del fico per curare sa kàrri segàda, letteralmente la carne tagliata. Questi dolori alle ossa, causati secondo la credenza da spiriti nemici e aversi, potevano essere curati attraverso un preciso rito che prevedeva la processione di alcune donne sotto un albero di fico. Il posto doveva essere deserto e solitario e il rituale doveva essere svolto durante la mezzanotte. Alle donne il compito di accendere una o alcune candele, sempre in numero dispari, tagliare un ramoscello di caprifico con le mani all’indietro e la faccia necessariamente rivolta verso oriente, ovviamente dando le spalle alla pianta: con il ramoscello del caprifico si sarebbe in seguito curata la malattia. Nel Logudoro la pratica del taglio del caprifico era di dominio esclusivo di donne esperte ed anziane, che utilizzavano poi questo potente estratto magico a scopo medicinale. In alcuni casi il malato veniva condotto alla mezzanotte della vigilia di San Giovanni Battista sotto un albero di fico o caprifico. Gli era chiesto di aggirarlo per tre volte e per liberarsi della malattia doveva staccare un’infruttescenza immatura e mangiarla con buona pace del gusto.

Particolarmente suggestivi e noti in tutta l’isola, erano i rituali messi in atto per la cura della sciatica e dell’ernia.

La sciatica era normalmente curata da una guaritrice che durante la fase calante della luna, tagliava un ramo di caprifico o un pezzo di corteccia applicandola in seguito sulla parte dolorante del malato, mentre in ginocchio ripeteva alcuni brebus.

Il ramo a seconda delle località poteva moltiplicarsi in più rami, poteva essere inciso di croci, ma sempre veniva posato sulla parte dolorante e sempre veniva raccolto a luna calante.

Suscita una certa curiosità il rituale praticato in varie zone del Sulcis con lievissime differenze. L’esperta si recava nei pressi di un fico selvatico e ne tagliava uno o tre rami, dovevano essere raccolti a fine luna, prima dell’alba o al tramonto. La donna pratica, recitando preghiere li sbatteva fra loro affinché il male si staccasse definitivamente, abbandonando i rami. Li avrebbe poi fatti aderire alla parte dolorante del malato per far sì che la malattia si trasferisse dall’uno all’altro e successivamente spezzando i fragili tronchi, simbolicamente avrebbe rotto il dolore.

D’effetto, e particolarmente efficace, anche la cura rituale dell’ernia. In linea generale consisteva nel prelevare e consumare un’infruttescenza del fico selvatico o domestico, il siconio, dopo aver girato per tre volte intorno alla pianta. Il rituale di norma doveva però essere effettuato durante la notte della vigilia di San Giovanni.

A Nuoro una pratica di questo tipo si tentava in caso di ernia o tumore gravi, che nessun’altra cura aveva cancellato.

In Planargia invece l’efficacia del rito non era legata alla festa di San Giovanni, quanto piuttosto alle potenzialità magiche della pianta di caprifico. Malato e officiante si recavamo di notte durante la fase calante della luna sotto una pianta di fico selvatico. La guaritrice staccava un’infruttescenza e la tagliava in due con un coltello nuovo, mai usato prima, recitando il Miserere. 

Dopo di che lanciava il coltello lontano con la mano sinistra, salmodiando appositi brebus che chiudevano la fase attiva del rituale. I due sarebbero poi tornati in paese in assoluto silenzio.

In altri angoli di Sardegna ad essere tagliato in due non era tanto il frutto quanto un ramo all’interno del quale si sarebbe fatto passare il bambino ernioso. La notte doveva essere quella della vigilia di San Giovanni Battista e al bambino era richiesto di passare per tre volte fra i due lembi del fusticino tagliato a metà, mentre due adulti ne tenevano le estremità. Se questo a fine rito non si fosse saldato, ma si fosse spaccato, il bambino non sarebbe guarito. Il rito poteva essere riproposto ma con scarsissime probabilità; meglio sarebbe stato attendere l’anno successivo.

In altri casi invece il pollone tagliato veniva innestato sulla pianta del fico e se l’innesto avesse attecchito la guarigione sarebbe stata assicurata.

Questa medicina veniva detta a Sadali sa mèxìn’ e sa vìgu e veniva praticata da tre donne, una delle quali doveva necessariamente chiamarsi Maria. Tenendo in braccio il bambino queste si recavano all’alba, pregando sotto voce e senza mai voltarsi indietro, nei pressi di un caprifico distante dal paese. Era fondamentale che la pianta non fosse raggiunta dal rumore del suono della campana o del gallo.

La prima donna avrebbe effettuato un innesto da un ramo ad un altro avvolgendo la congiunzione con miele e giunco, la seconda sarebbe passata col bambino in prossimità dell’innesto recitando i brebus, la terza (Maria), ricevuto in braccio il bambino rientrava in rigoroso silenzio al paese dove restituiva il bambino alla madre. A Barisardo con il caprifico si curava anche la paura. A mezzanotte l’esperta con tre donne che si chiamavano tutte Maria, un nome per altro ossessivamente comune in Sardegna, si recava nei pressi di un caprifico e ne raccoglieva 13 infruttescenze. Queste venivano infilate in uno spago a creare una collana che mettevano per tre volte al collo del malato. La buttavano infine e rientravano a casa con il malato. La cura per essere efficace, doveva assolutamente svolgersi per tre notti consecutive.

Con la descrizione di questi affascinanti riti il discorso potrebbe essere chiuso, e invece no, c’è dell’altro. Curioso?

Analizziamo la situazione con calma.

C’è l’elemento lunare. I rituali per la maggiore devono essere svolti di notte, durante la fase calante della luna, quasi che la scomparsa a breve della luna che si farà nuova, simbolicamente possa rappresentare o accompagnare il calare e lo scomparire della malattia.

Non manca la magia del numero sempre dispari, corrispondente il più delle volte al numero 3 dall’indiscussa ed antica valenza magica. Sia che si tratti del numero di rami da utilizzare, sia che si tratti del numero di giri da farsi intorno alla pianta, sia che si tratti del numero delle candele o delle Marie partecipanti al rito, il numero magico per antonomasia torna sempre.

L’elemento femminile sembra avere un’importanza focale. Seppure in alcuni casi si attesti di guaritori, il più delle volte il ruolo è ricoperto da una donna esperta, vuoi per l’età, vuoi per il bagaglio di conoscenze che di generazione in generazione ha ereditato, a ricordo forse di un’importanza femminile ben più ampia, ben più rispettata. L’influsso cristiano, successivo, è visibile nella necessità della guaritrice di chiamarsi Maria. La cosa non doveva rivelarsi un grosso problema dato che nella Sardegna di qualche anno fa, chi più chi meno possedeva come primo o secondo nome Maria. Sull’isola c’è un esercito di Marie Francesca, Marie Giovanna, Marie Michela, Marie Letizia e potrei continuare ancora molto a lungo.

Un particolare da non trascurare è quello del taglio a metà, sia che si tratti del frutto sia che si tratti del ramo, quasi che l’uno o l’altro, aperti e identificatisi con l’infermo, potessero più facilmente liberarsi della malattia, permettere alla malattia di fuggire, non più imprigionata. Il male era infatti inteso come qualcosa di materiale, di concreto che poteva muoversi liberamente da un oggetto ad un altro.

Fondamentale è il concetto di “pulizia dal male”. I rami di fico si scuotono per essere purificati dal male, il coltello usato per dividere a metà l’infruttescenza deve essere nuovo, mai usato, dunque libero da si voglia male. Allontanandosi in silenzio dopo aver depositato lontano dall’abitato la malattia, il malato potrà tornare a casa,  “purificato”.

Trovo interessante anche il passaggio fra gli stretti rami lacerati cui spesso è sottoposto il malato, quasi che il passaggio fra due strette pareti voglia figurativamente rappresentare una rinascita, una catarsi.

Ed infine c’è il fico, più spesso il selvatico, assimilato il più delle volte al domestico. Sembra quasi che questa pianta abbia il potere di assorbire il male, la malattia, se ben utilizzato dalla guaritrice, e sia in grado dunque di liberare il malato. Che sia forse questa sua presunta e magnetica capacità di attrarre e assorbire il male ad averlo tradizionalmente relegato al ruolo di dimora di spiriti malvagi, elementi negativi e del demonio stesso?

Vero è che il fico ha una tradizione antica, vecchia quanto l’uomo, forse ancora più anziana.

Il fico nel mito antico

Protagonista di una miriade di miti greci, al fico si associa spesso un carattere erotico. Albero primordiale e pianta sacra al Dio Dioniso che secondo alcune leggende ne aveva determinato la nascita, il fico sarebbe inoltre pianta fra le predilette di Priapo Dio lubrico della fecondità. I greci così come il mediterraneo tutto, vedevano nel fico la riproposizione naturale dello scroto maschile, e quando il frutto maturo si spaccava nella sua parte inferiore, rappresentava simbolicamente la vagina femminile. Per questo era da considerarsi espressione di fertilità 

e dunque pianta sacra anche alla Dea delle messi, Demetra.

La stessa “Via Sacra” che da Atene conduceva ad Eleusi, nella quale sorgeva il tempio dedicato alla Dea, era tappezzata d’alberi di fico per tutti i suoi 20 km.

Raggiunta Eleusi il fico sacro era protetto da un portico, secondo quel che afferma Pausania nel suo Viaggio in Grecia.

La leggenda vuole che Demetra accolta da Fitalo nella propria casa, in cambio dell’ospitalità abbia donato all’uomo una pianta di fico. Pausania, probabilmente iniziato ai misteri eleusini a ricordo di questo avvenimento, cita nel suo scritto l’epigramma che di sé dava bella mostra sulla tomba di Fitalo: “Qui il signore, eroe Fitalo accolse un tempo la veneranda Demetra, quando per la prima volta ella fece spuntare il frutto della tarda estate, che il genere umano chiama sacro fico: da allora la stirpe di Fitalo ebbe onori immortali”.

Secondo altre leggende sarebbe stato Dioniso a regalare il fico agli uomini e in ricordo di questo durante le feste a lui intitolate gli uomini avrebbero intagliato maschera e fallo rituali del Dio esattamente sul legno di fico.

Anche Roma riconosce le grandi proprietà del frutto del fico, pianta considerata sacra alla stessa stregua dell’ulivo e della vite. La pianta era cara a Marte e la leggenda vuole che proprio sotto le sue fronde furono ritrovati in una cesta Romolo e Remo, allattati in loco dalla lupa. Il fico era considerato nell’impero tutto di buon auspicio, e una pianta secca o sofferente non presagiva niente di buono. Per questo veniva immediatamente curata se possibile o sostituita. I suoi frutti erano secondo ciò che racconta Publio Ovidio Nasone regalati in occasione del capodanno a parenti ed amici come augurio per l’anno che veniva (esattamente come accade in Sardegna) e secondo Plinio mangiare fichi aumentava la forza dei giovani, migliorava la salute dei vecchi e aiutava i malati e convalescenti durante la guarigione. Lo stesso Platone consigliava ai propri studenti di mangiare il frutto del fico per rinvigorire la propria intelligenza.

Fico e cristianesimo

E’ con il cristianesimo che il fico inizia ad acquisire una duplice valenza. Non perde quella che si lega all’abbondanza, ma certo l’albero del fico secco, arido e senza frutti è segno nefasto e secondo la simbologia religiosa rappresenterebbe la sinagoga che non riconosce la nuova alleanza di Cristo. Fin ancora durante tutto il vecchio testamento ognuno “sedeva sotto la sua vite e sotto il suo fico e nessuno incuteva loro timore”.

San Gerolamo racconta di come sia stata l’eresia a seccare i rami di questa pianta, che simboleggia implicitamente non solo l’ozio voluttuoso, ma anche il demonio stesso.

Aspetto sinistro di questa pianta deriva probabilmente dal fatto che Giuda traditore si impiccò esattamente su una pianta di fico.

E forse il segreto del fico, la pianta del demonio, sta tutto qui. Una pianta capace di generare frutti tanto nutrienti, di aiutare i convalescenti, di nutrire gli affamati e stimolare l’intelligenza dei giovani, non poteva se non essere intesa come una benedizione per gli uomini, regalata dagli stessi Dei con i quali la pianta prese ad identificarsi. Il cristianesimo poi fece il resto, spogliandolo del legame con il divino e relegandolo a dimora del demonio. Non poteva certo permettere che le attenzioni degli uomini fossero divise fra Dio ed il fico.

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7 commenti

  1. benvenuto zandara

    Bellissimo e interessante articolo!

  2. Mio padre , nato a Loreto (AN) nel 1913, mi raccontava che per trattare l’ernia ombellicale che presentava alla nascita era stato fatto passare tra le due branche di una giovane quercia che era stata aperta longitudinalmente senza usare lame o seghe. La pianta era stata poi ricomposta e fasciata. Se avesse continuato a vivere, l’ernia di mio padre sarebbe scomparsa.Credo che la pianta sia sopravissuta perchè mio padre non aveva l’ombra di ernie.Pur cambiando pianta il rituale sembra uguale.

  3. Ecco perché è il mio frutto preferito!

  4. perchè volete farmi sofrire ?

  5. l’articolo mi è piaciuto si fa leggere tutto d’un fiato. Ho apprezzato anche l’impostazione della ricerca. Lo ha reso interessante. Brava.

  6. Claudia scrive benissimo Emoticon smile il suo stile ricorda molto quelle delle fiabe

Rispondi a Ilenia Atzori Annulla risposta

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