NEL 2050 E’ POSSIBILE CHE I MIGRANTI IN COSTANTE MOVIMENTO SARANNO UN MILIARDO: SIAMO SOLO AGLI INIZI DEL “GRANDE ESODO”?


di Marco Dotti

Alcune proiezioni prevedono che nel 2050 nel mondo ci saranno oltre 1 miliardo di migranti, provenienti in gran parte dall’Africa subsahariana e diretti in Europa. Già oggi, però, l’improvvisa accelerazione di questo processo impedisce di distinguere tra migrazioni forzate e volontarie, tra profughi “politici” e migranti tout court. Non ci si muove solo a causa delle guerre. E l’emergenza rivela l’inadeguatezza dei decisori europei, ancorati a schemi di lettura ottocenteschi dei fenomeni migratori Secondo le Nazioni Unite, la popolazione dell’Africa subsahariana passerà dagli attuali 960 milioni a 2,1 miliardi di abitanti nel 2050. Nel 2100 gli abitanti della regione – che comprende gli Stati dell’Africa continentale e insulare a sud del deserto del Sahara e un tempo veniva chiamata senza mezzi termini “Africa nera” – saranno già oltre 4 miliardi. Il continente africano occupa oggi quasi il 22% della superficie terrestre con i suoi 30milioni e passa di km2 di superficie, di cui 25.241.000 costituiti appunto dall’Africa subsahariana, area che gli investitori delle corporations danno in forte crescita, ma nel frattempo ospita il 63% dei sieropositivi di tutto il pianeta e dove – nonostante il fiume di aiuti internazionali, evidentemente finiti in qualche buco nero del progresso senza sviluppo, e un aumento esponenziale del PIL – il 41% della popolazione continua a sopravvivere con meno di 1 dollaro statunitense al giorno. La natalità è alta, in Africa. Ma la mortalità non è da meno. Ciò nonostante, dinanzi a un’Europa che non genera più l’Africa è ancora il continente con il tasso di fecondità più elevato sull’intero pianeta. Ricordiamo a titolo di esempio che nel 1964, nella sola Germania si registravano 1milione 350mila nascite l’anno, a fronte della attuali 600mila, mentre con 4,7 bambini per ogni donna l’Africa è il primo continente rispetto a una media mondiale di 2,5 bambini a donna. Oggi, la Germania è anche il Paese con il più basso indice di natalità al mondo.

L’Africa – nello specifico l’Africa subsahariana – è il solo continente che nei prossimi decenni continuerà a registrare un presumibile boom demografico, con conseguenze inevitabili sul fattore-emigrazione, che diverrà esodo sistemico, se perdureranno instabilità politica, disuguaglianze economiche e se il cambiamento climatico in atto su scala globale – come probabile – si aggraverà particolarmente in quest’area.

Mentre le stime del Fondo Monetario Internazionale registrano un tasso di crescita medio della popolazione sub-sahariana del 2,5% che consentirà di raggiungere i 950 milioni di abitanti nel 2017, da parte sua, l’ultimo report del Population Reference Bureau rimarca che dai 7 miliardi e 336 milioni di abitanti del 2015, nel 2050 la terra sarà abitata da 9,8 miliardi di persone.

Accade così che negli ultimi dieci anni la percentuale di povertà complessiva in Africa sia diminuita, ma il numero totale di africani che vivono sotto la soglia di povertà – stimata in 1,25 dollari statunitensi al giorno – è aumentato. Un paradosso? Secondo logica e buon senso da politica aristotelica sì, ma secondo la logica e il non senso di questa deriva speculativa che ci ostiniamo a chiamare “globalizzazione” questa è la norma: i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e gli Stati mantengono brandelli di inutile sovranità, là dove ciò che è decisivo è stato dislocato altrove, in zone extragiuridiche (offshore) o nelle mani delle corporations che controllano ogni fonte primaria, dal petrolio all’acqua. Gli analisti finanziari gioiscono a mesi alterni, per la crescita del PIL di quest’area e una previsione che anche per il 2015 si confermerebbe del 5,5%. Questo dicevano, col solito codazzo di tartine e slide, nel 2014, perché nei mesi scorsi il Fondo Monetario Internazionale ha dovuto aggiornare al ribasso anche queste stime, ma senza suscitare grande clamore. Altri analisti, stavolta geopolitici, con più realismo affermano però che proprio da qui – e proprio da ciò che, se visto sotto altri aspetti, “accelera” la crescita del Pil – verrà la migrazione sistemica prossima ventura, di cui oggi l’Europa sta solo iniziando a vedere i primi effetti. Non molti anni fa, il filosofo francese Paul Virilio, in un suo libro titolato Le futurism de l’instant, aveva preconizzato un futuro-presente fatto da “migrazioni senza fine”. I nuovi migranti – affermava Virilio – saranno environmental migrants, profughi totali costretti a muoversi senza fine.

 A sradicare i nuovi profughi, afferma Paul Virilio, non sono più solo guerre e privazioni, ma anche progetti di sostegno e sviluppo. In un mondo multipolare, non esistono “migrazioni a somma zero” e non esistono “grandi opere” che non abbiano un impatto sistemico. Sistemico significa che, date certe cause – ad esempio la costruzione di una diga – non sapremo dove e come si verificheranno le conseguenze ultime di quell’azione. La reazione è a catena, a effetto domino. Ma talvolta è carsica o a spirale, come nel fenomeno delle migrazioni.

Le previsioni sono fatte per essere smentite, ma il timore è che queste previsioni pecchino di ottimismo. Sarebbero, in tal caso, smentite in peggio. Sia come sia, si tratterà di una delle principali migrazioni causate da un impatto antropico – l’effetto delle attività dell’uomo sull’ambiente, non solo in senso naturalistico, che lo circonda – senza precedenti. Come conseguenza di questo impatto, il numero dei migranti globali nel 2050 ammonterà – secondo l’Onu – a oltre 400 milioni, ma cifre meno “politicamente corrette” parlano di oltre un 1 miliardo di persone che saranno in costante movimento. Già oggi l’Europa accoglie la quota maggiore, pari al 31,3% del totale dei migranti globali. Nello scenario che si delinea, che ricorda qualcosa di molto simile alla catastrofe immaginata da Cormac McCartyh nel suo La strada, le cose non sembrano destinate a cambiare

Masse o moltitudini spinte dalla desertificazione, dalla crisi economica e dal panico riconfigureranno completamente il volto economico, demografico e culturale anche di quella parte del pianeta che ancora si definisce “Occidente”, in primis l’Europa.

Fino a pochi anni fa, potevamo ancora distinguere tre tipologie di migrazioni. In primo luogo, le migrazioni potevano essere volontarie o forzate. In secondo luogo, potevano essere temporanee o permanenti. In terzo luogo, regolari o irregolari. Oggi, però, dovremmo parlare di migrazioni sistemiche, dove frammenti di tutti queste situazioni si sovrappongono e si ricombinano, scardinando le vecchie gabbie teoriche.

Per capire che cosa sta accadendo, in questi mesi, ai confini dell’Europa dovremmo prestare particolare attenzione alla vecchia differenza fra migrazioni volontarie e forzate e capire come, in un contesto fortemente globalizzato come quello che caratterizza il XXI secolo, questa distinzione può essere al tempo stesso importante e fuorviante.

Importante, lo è se permette di cogliere le differenze all’interno di una categoria, “i migranti”, che facilmente si presta alle generalizzazioni socio-biologiche. Fuorviante lo è e sarà se, pur nelle differenze, impedirà di cogliere l’unità del fenomeno migratorio globale, inteso come processo, come flusso, come drammatica conseguenza della mutazione geopolitica e geo-economica in atto sul piano della comunità globale.

Le migrazioni volontarie nascono per lo più da ragioni economiche, sociali o famigliari (raggiungere un parente già emigrato). Le migrazioni forzate non derivano da una scelta – per quanto tragica possa essere questa scelta – ma da costrizione e violenza o dalla necessità di fuggire dalla violenza.

Si basa essenzialmente su questa distinzione la differenza tra “richiedenti asilo” e “rifugiati”. I richiedenti asilo chiedono di essere ospitati in un determinato Paese, mentre i rifugiati sono coloro che richiedono un particolare status giuridico in base alla Convenzione di Ginevra (1951), temendo di essere perseguitati per religione, gruppo etnico o sociale o per le proprie opinioni.

Le migliaia di persone che tentano di varcare i confini europei sono mosse da entrambe le ragioni: fuggono da(persecuzioni, mutamenti climatici, violenze) e fuggono verso (famigliari, lavoro, migliori condizioni di vita, salute).

Oggi, alle guerre civili (es. la Siria) che stanno sconvolgendo l’area mediorientale, alla tensione interna in Paesi come Libia, Tunisia, Sudan, Yemen, Egitto e alle recrudescenze interetniche (è il caso, di questi giorni, del Burundi) dell’Africa centrale e del sud si aggiunge una variante che sta toccando livelli altissimi di violenza: la persecuzione religiosa. 

Diventa pertanto difficile distinguere, oramai, tra chi fugge per scampare a un massacro, chi fugge per fame, chi per povertà, chi perché vuole tornare a riabbracciare marito, fratelli, genitorio e chi invece cerca “fortuna”. I fattori non sono più scindibili – ammesso lo siano stati in passato. Per questa ragione, qualitativa e non unicamente quantitativa, la migrazione è diventata sistemica.

In pochi anni, è cresciuto di oltre il 50% il numero di persone considerate dall’Onu come «migranti internazionali». Siamo passati da 154 milioni di persone – tanti erano i migranti stimati nel 1990 –, pari al 2,9% della popolazione mondiale, a 232 milioni – tanti ne sono stati stimati nel 2013 -, con un incremento radicale negli ultimi anni.

Nel 2007, in un rapporto di Christian Aid – organizzazione non governativa caritatevole, che raggruppa chiese inglesi e irlandesi e lavora sui temi della lotta alla fame, alla povertà e alla desertificazione globale – di parlava di un settimo della popolazione mondiale che, nel 2050, sarà costretta a lasciare il proprio Paese per fuggire non solo da situazioni di conflitto dichiaratamente bellico, ma dai disastri direttamente o indirettamente provocati dal cambiamento climatico.

Nello studio, significativamente titolato Human tide, the real migration crisis [La marea umana, la vera crisi migratoria] si legge: entro il 2050 il cambiamento climatico creerà in tutto il pianeta almeno un miliardo di rifugiati. Un mondo con molti Darfur sta diventando una minaccia sempre più reale.

Dal documento di Christian Aid apprendiamo che entro i prossimi quarant’anni, 645 milioni di persone si troveranno costrette a lasciare il proprio Paese, la propria casa e i propri affetti a causa di grandi progetti di sfruttamento intensivo delle risorse minerarie, dalla svendita dei terreni coltivabili alle multinazionali (land grabbing) e dalla costruzione di dighe per centrali idroelettriche. Altri 250 milioni di persone fuggiranno dalla desertificazione e da un surriscaldamento climatico il cui impatto sarà avvertito soprattutto in determinate aree del pianeta, mentre 50 milioni di persone fuggiranno da conflitti armati generati da quelle stesse catastrofi o dalle conseguenze delle stesse migrazioni.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *