LA PUBBLICAZIONE DI OMAR ONNIS "TUTTO QUELLO CHE SAI SULLA SARDEGNA E' FALSO"

Omar Onnis con Michela Murgia alla presentazione della pubblicazione al Salone Internazionale del Libro di Torino


di Ivo Murgia

E’ uscito in questi giorni il nuovo lavoro di Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Arkadia Editore. Il libro riprende alcune tematiche già trattate dall’autore nel suo blog e in una trasmissione radiofonica, nel suo instancabile lavoro di divulgatore e teorico dell’indipendentismo moderno. Non da solo, certamente e per fortuna, c’è da aggiungere.

Bisogna subito dire che sono tanti i motivi per lodare questa nuova fatica. L’autore sceglie la forma del dizionario per passare in rassegna, in ordine alfabetico, una serie di luoghi comuni sull’Isola, vecchi e nuovi, ma tutti ugualmente perniciosi e di facile presa sui sardi. Sembra quasi una maledizione, più sono sgradevoli, offensivi e dannosi nei nostri confronti, più rapidamente e ostinatamente si diffondono e si radicano nel territorio. Attenzione, non è un caso però, e tantomeno una maledizione. Lo scopo di questo libro è svelare questo arcano, che poi tanto arcano non è.

Una frase, più delle altre, potrebbe sintetizzare l’essenza di questo lavoro:

La nostra subalternità economica, la perenne crisi che da sempre sembra attanagliare la Sardegna senza apparenti vie d’uscita, ogni singola mortificazione da noi subita nel corso delle generazioni, sono tutte figlie della nostra ignoranza di noi stessi.

E sarebbe anche la spiegazione dell’arcano di cui sopra. Tutti questi luoghi comuni hanno facile presa sui sardi, per il semplice motivo, semplicissimo, che i sardi non sanno chi sono, ignorano completamente la loro storia e la loro parabola umana e collettiva.

D’altronde, perché mai un sardo dovrebbe sentirsi sardo? Tutto intorno a lui, gli dice il contrario. Mass media, istituzioni scolastiche e universitarie, pressoché tutte le agenzie formative gli ripetono in continuazione che è italiano e gli propongono dei modelli culturali di riferimento continentali. La presenza della Sardegna nella storia è costantemente rimossa, così come nella formazione della stragrande maggioranza dei sardi. Se non si fa un percorso di studi specifico, oggidì in Sardegna, un sardo si può formare fino ai massimi livelli senza mai sentir parlare della sua isola. Non c’è da stupirsi, in Sardegna opera la scuola italiana, dove si parla della storia dell’Italia e non c’è posto per nessun altro, meno che mai per altre soggettività storiche.

Hanno un bel dire coloro che si affannano a far rientrare forzosamente le vicende storiche sarde nell’alveo italiano. Per un lunghissimo periodo le sorti della Sardegna erano ben lontane da quelle italiche, si pensi solamente ai secoli della presenza spagnola nell’isola. Questo non sembra interessare granché chi invece vorrebbe la Sardegna da sempre legata alle vicende dell’Italia. Molti sardi ancora oggi si fanno belli del Rinascimento italiano, come se anche loro ne avessero fatto parte, dimenticando che la Sardegna non solo non era Italia al tempo del Rinascimento ma era parte di un altro regno, la Spagna appunto, e che lo fu per diversi secoli con tutt’altri modelli culturali di riferimento. Storture che succedono, quando si guarda il mondo con gli occhi degli altri e si ha come unico accesso alle cose del mondo la finestra italiana.

Allo stesso modo, moltissimi sardi ignorano completamente le vicende del periodo, o di altri della storia sarda. L’autore rifugge giustamente da fughe nel passato, mitizzando epoche gloriose della nostra storia, dato che sarebbe solamente una risposta alla frustrazione di non avere una storia propria, secondo i manuali italiani. Richiama invece, opportunamente, alla memoria dei nomi che ogni sardo dovrebbe conoscere, come quello della giudicessa Eleonora e della sua Carta de logu. La regina del giudicato di Arborea, com’è noto, promulgò la sua carta costituzionale aggiornando quella paterna sul finire del ‘300. La sua fama, in un modo o nell’altro, è arrivata sino a noi ma che è ne stato di Mariano e Ugone, per esempio. Quanti sardi sanno chi erano? Cosa evocano nella loro memoria? Ben poco, ahinoi. Eppure il sovrano sardo e il figlio, della gloriosa dinastia degli Arborea, sconfissero i catalani della corona d’Aragona, in una battaglia epica nei pressi del villaggio di Sant’Anna, dove trovò la morte Pere Luna, il più grande condottiero della sua epoca. Una notizia eccezionale per l’epoca e non solo, che da la misura del ruolo della Sardegna nella storia del periodo. Una nazione ricca e prospera, al centro del Mediterraneo, perfettamente inserita nel contesto storico politico europeo, con scambi, pacifici e non, con le altre potenze internazionali. Ben altra cosa rispetto al ruolo di regione periferica dell’Italia al quale siamo relegati oggi. Bellissime le pagine che rievocano l’episodio storico, che dovrebbe essere conosciuto a menadito da tutti i sardi, non per sterili orgogli passatisti ma per correttezza storica almeno.

Omar Onnis non commette l’errore di attribuire unicamente a fattori esogeni tutte le colpe della situazione attuale sarda. Molte colpe sono nostre, dei sardi, sia detto. L’accettazione prona di tutto quello che proviene dall’esterno e lo sminuire di continuo tutto ciò che è autoctono, se può essere spiegato storicamente, non può essere giustificato, né tollerato all’infinito. Si può ben attribuire ai sardi un certo compiacimento e una certa indolenza nell’accondiscendere ai luoghi comuni che ci riguardano. Così come si può e si deve riprendere il provincialismo sardo nell’ignorare pervicacemente le proprie vicende storiche per lanciarsi in appassionate battaglie che riguardano invece altri popoli. Clamoroso l’esempio dell’indipendentismo. Parola tabù fino a poco tempo fa, lo era unicamente per le istanze sarde. Come ricorda Onnis, i sardi sono capaci di appassionarsi alle questioni dell’autodeterminazione di qualsiasi popolo del mondo, anche se dovesse trovarsi all’altro capo del pianeta, basta che non si parli di indipendenza del popolo sardo. Il popolo sardo può anche sparire, la sua storia, la sua cultura, ma guai se dovesse sparire qualche sperduta tribù di Papua o di chissà dove, l’umanità ne avrebbe una grave perdita. Sintomi del provincialismo e dell’ignoranza di noi stessi, direbbe l’autore.

Difficile non trovarsi d’accordo su molte posizioni, anche se controcorrente, anzi forse proprio per questo ma qualche critica bisognerà pur muoverla, per non sembrare troppo compiacenti, se non altro.

Ingiusto appare il giudizio su Cagliari, per esempio. La capitale viene definita una città non sarda, senza troppe scusanti. Ora, pur capendo l’intento provocatorio e anche il rammarico che si può leggere tra le righe, per il mancato ruolo di guida che la città non ha effettivamente assunto, la sentenza appare spietata. Come si sa Cagliari non è stata la Barcellona dei sardi, non è stata una guida per il suo popolo. Molte volte è stata anzi sede di dominatori e colonizzatori, nonché di una borghesia venduta e pronta a vendersi tutta l’isola per il proprio tornaconto personale. Questo lo si ammette, senza tante scusanti, tuttavia pensare di poter far a meno di Cagliari sarebbe un grave errore. Intanto storicamente Cagliari è stata scenario di diverse rivolte popolari contro i dominatori di turno, dalla ‘Congiura di Palabanda’ fino a ‘Sa dii de s’aciapa’, oggi erroneamente conosciuta come ‘Sa die de sa Sardigna’, e non solo. A proposito, sarebbe giusto e logico che si chiamasse l’avvenimento storico col suo vero nome, quello popolare, anche rispettoso della variante linguistica locale, e non con proclami politici slegati dalla gente e dal contesto che lo generarono, sa dii de s’aciapa, dunque. Un errore che fa spesso chi non conosce a fondo il tessuto sociale cagliaritano è quello di identificarlo tout court con la sua borghesia, cosa che non è, se non a occhi distratti o a un’occhiata superficiale. Cagliari e circondario sono ancora oggi motore e fucina di movimenti artistici, letterari e musicali in lingua sarda, di prim’ordine, tra i migliori in Sardegna, opportunamente vantati anche dall’autore. Patria di cantadoris di livello eccelso in passato come di ottimi scrittori fino ai giorni nostri, è sempre più sede privilegiata di un movimento artistico impressionante per numeri e qualità. L’uso disinvolto e consapevole della lingua sarda nei contesti più moderni è il suo marchio di fabbrica e gli permette di presentarsi al mondo senza complessi e sicuro del proprio valore. Pensare a un futuro senza una Cagliari partecipe insomma, appare improponibile, anzi, più Cagliari ci sarà, più Cagliari cambierà, più avremo una Sardegna vincente. Se è vero, come è vero, che il melting pot, la mescolanza, l’accoglimento del diverso, dello straniero, sono il futuro del mondo e la direzione verso la quale si va, chi meglio di Cagliari potrà guidare questo viaggio? La città sul mare, il suo porto sono lì pronti ad accogliere quello chi di buono viene dal mondo e sarebbe folle pensare di farne a meno. Di sicuro, se non vorremmo restare schiacciati da queste dinamiche internazionali dovremo guidarle e per fare questo avremo bisogno di Cagliari e della sua storia, di più, dovremo riprendercela e farne la nostra capitale e la nostra guida, finalmente.

Non scevri di colpe, i sardi nemmeno nella questione linguistica. Una prima cosa: basta con questo ‘limba’. Trattasi di una parola inventata dai giornalisti che non sanno parlare il sardo, probabilmente perché fa molto esotico o semplicemente per non chiamare le cose con il loro nome. I parlanti del sardo non hanno mai chiamato la loro lingua con questo nome ma semplicemente ‘su sardu’. Detto questo, giuste le critiche al monolinguismo imposto dall’Italia e allo sradicamento della lingua autoctona, oggi minorizzata, ma anche i sardi nella gestione della politica linguistica in Sardegna, hanno fatto abbondantemente la loro parte. Si partiva sicuramente da una situazione molto complessa, con la presenza di diverse parlate sarde e alloglotte, anche risultanti dalla nostra stratificazione storica, un grande patrimonio di ricchezza culturale ma obiettivamente di difficile gestione. Nell’amministrare la questione, comunque, si è sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Campanilismi, interessi personali, gestioni tutt’altro che concilianti e guerre intestine hanno fatto e fanno da contorno alla vicenda. Al momento di presentare una proposta di standard lo si fa a base logudorese, basandosi su presunti primati di purezza, cosa di per sé aberrante, e di fronte al mancato accoglimento popolare si fa una nuova proposta, di nuovo a base logudorese. Cosa si farà ora di fronte al nuovo mancato accoglimento? Si cercherà di imporlo a colpi di delibere o comprandosi il compenso finanziando solo i progetti allineati? Per chi fosse digiuno della questione, la lingua sarda propriamente detta, benché una sola lingua, si presente storicamente biforcata in due grandi tradizioni letterarie, campidanese al sud e logudorese al nord, così è da secoli e per volere degli stessi sardi, senza che nessuno avesse fatto una delibera in proposito. Una grande ricchezza che non si capisce a che pro si dovrebbe negare o nascondere invece che gestire. Benché il campidanese sia numericamente superiore, entrambe le varianti possono vantare una ricca letteratura, di solito ignorata dai sardi, istituzioni comprese. Nel sito della Regione infatti è rappresentata quasi solo la variante logudorese, a gusto di chi ha redatto le pagine. Tutto il resto si ignora, presentandosi al mondo molto più poveri di quello che si è in realtà. Una colpa tutta a carico nostro questa. Si fanno grandi vanti dei poeti sardi logudoresi, che hanno letteralmente copiato metrica e contenuti dell’arcadia toscana, e si ignorano altri poeti campidanesi che usano metriche autoctone e contenuti schiettamente sardi. Senza che nessuno ce l’abbia imposto s’intende. Perché non si è mai fatta una proposta di standard a base campidanese? Non sarebbe la scelta di chi scrive, più favorevole, almeno inizialmente, a una proposta di standard a doppia norma campidanese/logudorese, ma sarebbe un’opzione più che logica e sensata. Ci sarebbe la capitale con noi, la maggior parte dei sardi e una ricca letteratura. Non si è mai fatta una scelta in tal senso, sul perché e il percome non è dato sapere. Dopo che la prima proposta a base logudorese è fallita, se ne è presentata un’altra… a base logudorese. Si parla tanto di plurilinguismo e lo si nega al sardo stesso, si critica il monolinguismo all’italiana e lo si ripropone in scala in Sardegna, si guarda alla Catalogna ma ci si dimentica di dire che i catalani hanno preso la variante della capitale come base per il loro standard. Una gestione passatista e odiosa della questione della lingua sarda, nella forma e nella sostanza, con razzismo tra sardi stessi e un mix pessimo e micidiale di interessi personali e prepotenze antidemocratiche che peggiori non si potrebbe. E di questo, come detto, i protagonisti sono tutti sardi e a loro vanno tutte le colpe.

Questo e poco altro le uniche ‘critiche’ che si possono muovere all’opera, ma più che all’opera, agli stessi sardi. Non si poteva pretendere, per ovvie ragioni di brevità, una trattazione che sviscerasse tutti gli argomenti sino all’ultimo cavillo, avremmo avuto allora un’enciclopedia della Sardegna e non un’opera divulgativa come questa.

Non piace tuttavia, chiudere senza un richiamo alla poesia, altro luogo comune sui sardi tutti poeti. In questo caso trattasi di unu mutetu del famoso cantadori campidanesu Olata:

No ndi teneus de siguru

De bonas e giustas leis

Spanniolu o piemontesu

Su pagu nostu s’arrasat

Sa pena no s’interrompit

Su mali no tenit fini

Chini basat is peis

Lompit a mesu puru!

In questo componimento improvvisato il poeta si rammarica del trattamento riservato alla Sardegna dai dominatori di turno, atti solo a depredare le ricchezze sarde, al punto che poco importa se sia spagnolo o piemontese. Molte sono le storture della Sardegna di oggi e il rapporto che ci lega all’Italia è ancora strettamente coloniale e di sfruttamento. Basti ricordare che la Sardegna ha avuto più morti nella guerre mondiali di tutte le altre regioni messe assieme, in Sardegna ci sono più servitù militari di tutte le altre regioni messe assieme, paghiamo a nostro carico spese sanitarie e trasporti al contrario delle altre regioni, il costo della corrente elettrica in Sardegna è più alto rispetto a quello delle altre regioni, l’industria pesante pur devastando il nostro territorio non ci consente di avere un prezzo inferiore della benzina, lo stato italiano ci è debitore di decine di miliardi di euro di tasse sarde mai rientrate in Sardegna, come da accordi istituzionali, e ci costringe a indebitarci, l’Italia manda nelle carceri sarde i suoi peggiori criminali e nega il rientro nell’isola ai reclusi isolani, in compenso ci fa dono di scorie radioattive e quant’altro, e infatti la Sardegna è la regione più inquinata d’Italia, etc. etc. Si potrebbe continuare all’infinito ma piuttosto che continuare, si preferisce proporre una soluzione a questa situazione catastrofica. L’unica possibile, praticabile e inevitabile, è riappropriarci della nostra storia, ridiventare noi stessi, tornare ad essere soggetti storici e politici, riprenderci il nostro ruolo nello scacchiere mediterraneo e internazionale. Un ruolo che ci compete, di responsabilità, datoci dalla geografia così generosamente e dalla storia e che così malamente al giorno d’oggi sfruttiamo.

Per concludere, una lettura che non solo dovrebbe essere consigliata a tutti i sardi, ma dovrebbe essere addirittura obbligatoria, per capire che cammino stiamo imboccando, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Per porci in maniera consapevole e critica di fronte alla nostra storia e al nostro futuro. Uno strumento che, se pur agile e snello, divulgativo e di piacevole lettura, non manca di veicolare contenuti di grande importanza, spesso di difficile accesso e condivisione. Un libro problematico, nel senso che metterà non pochi problemi a chi fino ad oggi si è accontentato della pappa pronta, di quello che gli ha passato il convento e pedissequamente si è adeguato senza preoccuparsi tanto di cercare, verificare e smentire, eventualmente. Un libro del quale, in definitiva, si sentiva profondamente il bisogno.

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