GENTE DI MINIERA: LA MOSTRA "LA MIA SARDEGNA" DI CICI PEIS A MILANO

Cici Peis


di Sergio Portas

Dietro la stazione di Porta Garibaldi, a Milano, c’è un quartiere che si chiama l’”Isola”, oggi ci faccio un salto alla ricerca della mia di isola, ritratta in colori e pastelli in una mostra che l’autore si è premurato di chiamare: “La mia Sardegna”. Lui è Cici Peis, se ne nasce in quel di Guspini  quando io avevo già cinque anni (è del ’51) e scorrazzavo pei vicoli guspinesi (a pei scruzzu), in tasca il coltellino d’ordinanza con cui si faceva a gara conficcarlo nelle porte d’abitazione, quelle di legno grezzo, che quelle cosiddette blindate erano non solo al di là da venire ma nemmeno mentalmente concepibili. Oggidì i bimbi delle elementari guspinesi bramano a portare in saccoccia il loro bravo telefonino (e hanno scarpe firmate), e mi sento di poter dire che, in fatto di civiltà, c’è stato un bel salto. O no? Insomma sia come sia per andare alla mostra mi lascio alle spalle il nuovo grattacielo sede della regione Lombardia, trentanove piani per trecento milioni di spesa (seicento miliardi delle vecchie lire, lira più lira meno) voluto dal presidentissimo Roberto Formigononi (detto: Il Celeste, non chiedetemi perchè). E poi dicono che la follia del potere non genera mostri! Mostruoso, democraticamente parlando, è che un cosiddetto “rappresentante del popolo” possa rimanere sulla sua poltrona per oltre diciassette anni consecutivi. La sto buttando un po’ in politica ma so che Cici non se ne avrà a male se gli rubo un poco di spazio, lui che la politica l’ha scelta fin da giovane quando, dopo un paio d’anni di università tra Cagliari e Firenze (geometra si era diplomato a Guspini), se ne è andato a lavorare nella chimica di Porto Torres. Operaio, capoturno, impegnato sindacalmente sino a diventare segretario provinciale della Filcea CGIL, ma sempre lavorando in reparto, coi turni, senza usufruire di alcun “distacco”.  Come dovrebbe sempre fare un rappresentante sndacale. Gli è che Cici viene da una scuola particolare, ne posso parlare con condizione di causa perchè è stata anche la mia, e si chiama miniera di Montevecchio. Altro che università, altro che globalizzazione, sentite cosa scrive Iride Peis Conca, la sorella “grande” (è del ’40) di Cici, nel suo “Contus de Mena” (Domus de Janas ed., 2009) nella Prefazione: “Nella miniera di Montevecchio ci ha vissuto gente proveniente da tutte le parti della Sardegna, dell’Italia e anche dall’estero, la mescolanza di lingue, usi e costumi ha creato una comunità multietnica, ricca di valori che sono poi continuati nel tempo…ha un patrimonio che non si esaurirà: le loro storie. Bisogna raccoglierle perchè sono gioielli.” Qui devo farmi forza per non mettermi a scrivere uno di questi gioielli: la storia della mia di famiglia, di quel nonno Cherchi che se ne venne a lavorare a Montevecchio dalla natia Dualchi, e per questo fu per tutto il resto della vita “su cabesusesu”. Iride Peis ha sposato il “medico della miniera” e ha insegnato alle scuole elementari di Montevecchio per 35 anni, immagazzinando racconti ed esperienze di ogni tipo, ed esse le tracimano dall’anima tanto che ne scrive in prosa ed in poesia, si può dire da sempre. Li manda anche a mamma mia questi suoi scritti, per lei è:  carissima Pinuccia e io il suo “figliolo”. Insomma questi Peis sono un pò più che compaesani, sono gente di miniera. Per averne una visione a tutto tondo magari cercate di recuperare il libro di Iride: “Donne e bambine nella miniera di Montevecchio” (Pezzini ed., 2005) e provate a non commuovervi per quelle foto di donne velate come le mussulmane di adesso, mentre “cerniscono il materiale”, scelgono il grano dall’oglio, il minerale buono dalle scorie. Minerali dai nomi poetici, blenda e galena, solfuri di zinco e di piombo (qui parla il chimico che ancora è in me), spesso la galena, dal greco: mare calmo per il suo colore, contiene buone percentuali d’argento e sempre presso i Greci la Sardegna era nota come l’isola dalle vene d’argento “Argyròphles nesòs”. Non per nulla fondarono Neapolis, a sud del golfo d’Oristano, il porto a mare di Guspini e di conseguenza anche di Montevecchio. Apro a caso il libro di Iride, pagina 33: “Il 4 maggio 1871 nelle Miniere di Montevecchio nel cantiere di Atzuni morirono undici donne e bambine.” Una cisterna piena d’acqua che collassò, era notte e non tutte le lavoranti se la sentivano di fare un’ora e mezza di cammino per tornare a casa, dopo 12 ore di lavoro, e dormivano in baracca. Elena Aru e Anna Melis, di Arbus, avevano rispettivamente dieci  e undici anni. Maria Montis e Luciana Pitzus, di Guspini, ne avevano dodici e tredici. Inutile sottolineare che venivano pagate meno della metà degli operai maschi. Nel 1913 la paga giornaliera dei minatori era di lire 2,95, le donne adulte lire 1,24, dai quindici anni ai venti lire 0,96, al di sotto dei quindici lire 0,82 contro lire 1,14 percepito dai manovali al di sotto dei quindici anni (pag.26). Tutta la storia della miniera di Montevecchio è una storia di rivendicazioni di dignità e di diritti, una storia di classe, e si intreccia inesorabilmente con quella dei guspinesi. Eccola qui a Milano “Sa rocca incuaddigada”, olio su tela 30X40 cm, che Cici Peis fa pencolare sul paese sottostante, a memento della provvisorietà dell’umano rispetto a una natura che si percepisce immobile e numinosa nella inesorabilità di una minaccia che per ora ha deciso di non  concretizzarsi. E poi è tutto immergersi nel paesaggio sardo che più mi è caro, coi cardi e i fichi d’india a fare da quinte, le dune di Piscinas e il vento di maestrale che piega i ginepri di Scivu. Le barche che si specchiano nel mare di Marceddì e di Santadi, su cocciobaiu che scruta tra la sabbia a cercare le arselle. E la miniera, naturalmente, le facce scure dei lavoranti che scendono giù, con in mano le lampade a carburo, quel carburo di calcio con cui tante volte ho giocato da bambino nell’orto dei miei zii Ruggeri, vedendolo friggere nel bagnarlo con l’acqua ed emanare quell’odore inconfondibile che ha l’acetilene. E poi i carrelli pieni di materiale spinti a mano, i picconi branditi a mò di scimitarra, i posatori di mine, i perforatori. Questi ultimi quadri si sono dovuti scordare i verdi brillanti e rossi sontuosi, persino il blu non ha il coraggio di farsi vedere, è tutto un miscuglio di nero e di marrone, ed anche il bianco dei visi ha un che di sporco, che manca il sole a dare smalto alle tinte. Nel bel catalogo edito in occasione della mostra sono numerose testimonianze scritte di vari autori che commentano la pittura di Cici Peis, né potevano mancare scritti di Iride, la poesia “Ichnussa” del figlio Andrea meriterebbe di essere trascritta per intero, così apre: “ Tra questi fusti arcuati/ sbattuti,/ appesantiti da un passato che ne sovrasta le chiome,/ io trovo ristoro”. E così si chiude: “Mi appaiono i volti,/ scalfiti,/ ingrigiti dall’oscurità delle miniere,/ assonnati ma svegli,/ al cantare del gallo.” Certo a me la pittura di Cici fa un effetto straniante, come mi ricordasse una volta di più cosa mi sono lasciato alle spalle, decidendo di vivere in continente. Purtuttavia mi richiama ad un’età di purezza che neppure il tempo passato può scalfire. Mi parla con una lingua che mi cantava le ninna nanne, la stessa che usa spesso iride Peis Conca quando parla di miniera: “… Is becius narant: in d’onnia logu ddoi est Deus, ma in galleria Deus no est calau mai! Poita chi no,, iat ai biu ca un ‘omini non poit abarrai ot’oras asutta ‘e terra, sene luxi, sene soli, sene celu… Deus est asuba ‘e sa terra; asuta, issu, no ddoi est calau mai!” Una famiglia di artisti nati questi Peis guspinesi, l’arte loro inesorabilmente segnata dal venir su in Montevecchio, terrra di Sardegna, l’isola dalle vene d’argento.

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