UNA RICCHEZZA CULTURALE LA GRANDE DIMENSIONE DEL PATRIMONIO MUSICALE IN SARDEGNA


di Omar Onnis

Mentre l’economia va in malora e la politica si dimostra inetta fino alla mortificazione, possiamo rincuorarci dando uno sguardo ad ambiti importanti della nostra esistenza in cui invece sembrano valere altre regole e prodursi esiti diversi.

Prendiamo la musica. È difficile avere un’idea precisa delle dimensioni del patrimonio musicale della Sardegna. Una produzione di tale vastità e dall’articolazione così diversificata che già da sola mette in crisi qualsiasi visuale angusta e provinciale sul nostro presente e sulla nostra storia.

Quando si pensa alla musica sarda, di solito, vengono in mente le poche cose che il circuito dei mass media principali prende in considerazione: la musica popolare tradizionale. Canto a tenore, launeddas, tumbarinos e sulitos, canti a chitarra. Un ambito che apparentemente non conosce crisi e che è in qualche misura noto anche fuori dell’Isola. La sua valorizzazione come ricchezza culturale è anzi attribuibile alla scoperta che ne hanno fatto nel corso degli ultimi decenni gli studiosi internazionali. Sono loro che hanno sottratto la nostra musica tradizionale alla ghettizzazione delle feste paesane e alla sua relegazione tra i fenomeni folkloristici.

A ben guardare, comunque, gli stessi tentativi fatti a partire da metà Ottocento per catalogare la nostra musica tradizionale tra le espressioni “dialettali”, “regionali”, nell’ambito degli anacronismi pittoreschi, hanno invece finito per perpetuare un gusto e una sensibilità che oggi consentono al giovane appassionato di rock, hip hop, dub o jazz di apprezzare e magari praticare il canto a tenore o le launeddas. Non si può parlare insomma solo di mera rappresentazione folklorica, nel caso del nostro patrimonio musicale popolare. Al gruppo in costume “tradizionale” che sul palco compone coreografie al suono di un organetto diatonico, per dire, corrisponde poi una pratica spontanea, autogratificante, che si rinnova sia in virtù del suo collegamento con il passato, del suo essere elemento di identificazione, sia per il gusto dei praticanti attuali. Non è un fenomeno facilmente riscontrabile altrove, in Europa.

Questa permanenza storica, attuale e viva di un patrimonio tradizionale dà adito alla sua traduzione in forme contemporanee e al contempo contamina generi altrimenti del tutto alieni, alimentando un ulteriore arricchimento espressivo, che si avvale spesso e volentieri dell’uso disinvolto del sardo e delle lingue minorizzate della Sardegna. Così è facile ascoltare un pezzo dub, rispettoso di tutte le caratteristiche del genere, ma dal testo in sardo. O una versione in inglese, rivisitata in chiave fusion o elettronica, di un brano tradizionale.

L’elenco dei generi musicali praticati in Sardegna e dai sardi è sostanzialmente illimitato. La musica in Sardegna è un elemento costitutivo del nostro tessuto culturale profondo, della nostra rete di relazioni e delle nostre forme di socializzazione spontanea. È al contempo una pratica artistica e un’industria, un fenomeno sociale tutto locale e una forma di interdipendenza diretta col mondo globale, che va senza soluzione di continuità dalla cantina del paese ai teatri più prestigiosi, dalla banda di giovinastri che si esercita a cantare a tenore tra una schitarrata elettrica e l’altra, ai jazzisti di fama mondiale, alla lirica. Senza alcun complesso di inferiorità.

È un ambito, insomma, dove la “rivolta dell’oggetto” è già avvenuta con successo e senza particolari complessi di inferiorità. Una ricchezza culturale non trascurabile, anche in termini economici, ma anche una lezione politica di cui tenere conto.

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