DA LANUSEI E' EMIGRATA A TORINO: INTERVISTA A PIA DEIDDA CHE RACCONTA IL SUO PERCORSO LETTERARIO

Pia Deidda

Pia Deidda


di Valentina Lisci

Pia Deidda, classe 1958, nata a Lanusei, ma vivi e lavori a Torino. Parlaci della tua storia di emigrazione dall’Isola. Quando nel 1977, appena diplomata, decisi di continuare gli studi all’università avevo un’unica scelta: partire. Volevo fare Architettura e a quel tempo non c’era in Sardegna; si partiva per andare a Roma, Venezia o Firenze. Io scelsi Torino perchè in un anno “caldo” politicamente, dove le facoltà erano tutte occupate, il Politecnico di Torino, invece, aveva fama di essere un ateneo emancipato ma serio. A quel tempo ero felice di uscire dall’Isola perchè pensavo di rendermi autonoma e indipendente dalla famiglia. E, per questo motivo, incominciai a lavorare presto nel campo dell’insegnamento ancor prima della laurea (a quel tempo era ancora possibile farlo con le supplenze temporanee). Appena laureata conoscevo quindi molto bene la realtà scolastica torinese e continuai la mia esperienza perchè nel frattempo erano arrivate altre proposte in alcune scuole (provai anche a lavorare in uno studio di architettura ma scoprii subito che non era quella la mia strada, amavo troppo e in maniera viscerale l’insegnamento); nel frattempo mi ero fidanzata con un non sardo e questo negli anni ha comportato una scelta ben precisa: vivere dove c’era il lavoro e l’amore (la Sardegna non dava molte opportunità di lavoro soprattutto per lui).

Qual è stato il tuo esordio letterario? Il mio primo romanzo s’intitola “Rubia”, non è in commercio perchè è distribuito dall’Associazione Amici di Hierapolis solo in alcuni eventi culturali dove si promuovono gli scavi archeologici di questa stupenda città ellenistico-romana della Frigia (attualmente il paese di Pammukale in Turchia). Per me la pubblicazione di questo romanzo breve è stata una occasione molto importante perchè mi ha permesso, come una cartina di tornasole, di verificare l’impatto del mio scrivere sui lettori; infatti, sono stata stimolata da molti  di questi a continuare ancora. La scrittura è sempre stata una mia passione, ma dallo scrivere al pubblicare la strada è lunga. Bisogna vincere molte barriere, non solo dell’editoria, ma anche certe ritrosie personali che ostacolano la divulgazione e il rendere pubblico ciò che si scrive. L’opportunità mi si è presentata quando a Sadali sono rimasta folgorata dalla storia che si racconta delle janas e della grotta. In pochi mesi è nata la storia di Cicytella ed Elias che vivono la loro fiaba d’amore in una Sardegna tardo medievale che si offre al lettore in tutta la sua bellezza paesaggistica e di cultura popolare. Storia che parte dalla leggenda sadalese ma si dispiega a largo raggio in un lavoro che qualcuno ha definito antropologico. Scrivere questa storia è stato un pretesto per sentirmi più vicina alla Sardegna: negli anni si è sentito più forte il distacco e la nostalgia.

Qual è la tua relazione con il mondo della poesia? Amo la poesia, amo il suono delle parole, il loro cadenzarsi in versi, una certa sinteticità del pensiero. Mi diletto a scriverne ogni tanto qualcuna pur non definendomi una poetessa: giammai! Però quando scrivo le mie storie sono consapevole che c’è nel mio lavoro narrativo una ricerca di sintesi e di suono, che qualcuno definisce molto femminile. La poesia è poi esternazione del proprio vissuto. E’ offrire agli altri la possibilità di conoscere il nostro mondo interiore. Non sempre questo lo si ritrova nella narrativa.

Il tuo ultimo lavoro “E cantavamo alla luna” racconta la vicenda di un’antica sacerdotessa… E si ispira ad un luogo fisico ben preciso: il Bosco Seleni di Lanusei e l’area archeologica che comprende un nuraghe con grande villaggio, due tombe di giganti, fonte sacra e sorgenti.  La protagonista della mia storia è Airam sacerdotessa di un antico culto lunare che sta ormai tramontando all’arrivo dei romani in Sardegna e in Ogliastra dove si svolge la maggior parte della storia. La storia è pura invenzione ma ho cercato di inserirla in un ben preciso contesto storico; storia e invenzione di intrecciano in un romanzo breve che per me acquista forma di mito. La nostra grande storia antica ha bisogno di cantori di miti che mai ha avuto. Il mio punto di riferimento è Sergio Atzeni con il suo “Passavamo sulla terra leggeri”.

Un consiglio da offrire a tutti i giovani scrittori sardi… Domanda difficile, molto difficile. Primo perchè non mi sento dalla parte del “maestro” ma ancora del “discepolo”. Avrei bisogno di tanti consigli io, ancora. Posso però dire quelle che sono le mie linee guida: scrivere per amore della scrittura. E che questa sia bella e curata. Leggere molta buona letteratura per conoscere che cosa è la bella scrittura. Non aver paura di scrivere storie che toccano tematiche sarde ma nello stesso tempo spaziare in modo che lo scrivere di “sardità” diventi universale (la mia jana è stata letta da tanti non sardi ed è stata molto amata). Non farsi fagocitare dall’editoria ma rimanere liberi.

L’ULTIMA JANA: Il libro nasce dalla leggenda che avvolge le grotte di Is Janas a Sadali. Nella grotta vivevano tre Janas che si occupavano quotidianamente di cucina e soprattutto della realizzazione di succulenti dolcetti. La leggenda racconta che, un giorno, le Janas decisero di preparare una gran quantità di zippulas, non rendendosi conto che il tempo passava e si giungeva alla Quaresima. Il profumo emanato dalla frittura attirò l’attenzione di un frate che da Sadali si trovava a passare da quelle parti. Le Janas, dopo esser state rimproverate per il mancato rispetto liturgico, anziché richiedere il perdono, uccisero il povero frate. Ovviamente non la passarono liscia, la giustizia divina cadde su di loro trasformandole in pietre. Alle tre Janas Parduledda, Piricchitta e Pabassina, l’autrice, nel suo romanzo, ne aggiunge una quarta: Cicytella. L’ambientazione, collocata nel Medio Evo, è quella reale dei boschi di Sadali che coprono la grotta: lo si può considerare un paesaggio fatato, con il suo bosco fitto e i sentieri che lo attraversano. Se finora le Janas delle grotte non avevano nè anima e nè corpo, l’autrice ha dato loro quasi una parvenza umana, sia fisica che caratteriale, mettendo in evidenza l’amore per il prossimo (di cui solitamente si disinteressavano), le sensazioni che rilasciano gli elementi naturali al loro contatto, la golosità, la capacità di provare dei sentimenti e di amare (le Janas non sono mai state in grado di farlo).

E CANTAVAMO ALLA LUNA:Airam, ultima sacerdotessa di un antico culto lunare nuragico officiato in Ogliastra, vive il dolore di non aver ancora avuto una figlia femmina alla quale tramandare i suoi poteri divinatori e oracolari. La consapevolezza della fine del suo mondo diventa più concreta all’arrivo dei romani che si impongono come conquistatori e dominatori. Ispirandosi ai resti nuragici presenti nel bosco Selene di Lanusei in località Genna ‘e Cili (Porta del Cielo) l’autrice costruisce, con una narrazione intensa e poetica, un frammento dell’antica storia sarda avvolgendola in un’aura mitica.

 

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2 commenti

  1. Ciao Pia, sono contenta di aver letto la tua intervista, così ti ho conosciuta un po’di più. Ora è arrivato il momento di leggere le tue opere!

  2. Una bellissima persona che porto nel cuore.

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