LA SFILATA DELL'ALGHERESE ANTONIO MARRAS ALLA SETTIMANA DELLA MODA A MILANO PRESSO LA TRIENNALE

Antonio Marras

Antonio Marras


di Sergio Portas

Confesso: non ero più andato a una sfilata di Antonio Marras da quando, per accreditarsi, i signori della moda  avevano preso il brutto vizio di chiederti cento euro. E l’accredito non è che ti desse una qualche possibilità in più di poter accedere all’evento; unico privilegio: andare in giro esibendo una targhetta di plastica con stampato il  tuo nome e quello del giornale che rappresenti. E’ che questi della “Milan fashion week” , a orecchio settimana del fascino milanese, dei troppi giornalisti non sanno proprio che farsene, sono valanga, arrivano a frotte da mezzo mondo. E quelli veramente che contano sono accreditati da tempo, non certo all’ultimo secondo come il vostro squattrinato cronista. Fortuna vuole che i componenti dello “staff” non sappiano resistere all’esibizione del tesserino che ti identifica come “stampa sarda” e ti facciano passare, anche senza l’ambitissimo e contatissimo biglietto d’invito. Certo, tra i marcantoni che sfiorano i due metri, occorre rivolgersi a quello meno alto che, grazie a dio, conserva una cadenza orgogliosamente campidanese. Tutto ciò perché il nostro conterraneo algherese è diventato una star internazionale e, in grazia di tale status, poter assistere a una delle sue “performance” è privilegio di un numero selezionato di persone. Quest’anno, per dare una sventagliata di apertura proletaria, i vari Cavalli, Prada, Dolce e Gabbana, e gli altri cento che con le loro creazioni di moda riescono a tenere a galla il prodotto interno lordo di questo nostro paese così scarso di petrolio e materie prime, esibiscono le loro creazioni in svariati punti della città. Roccobarocco alla loggia dei mercanti, vicino al Duomo, Versace è in piazza Vetra, Missoni in via festa del perdono, all’università statale, Salvatore Ferragamo va in piazza affari, incurante della scultura di Maurizio Cattelan davanti alla sede della Borsa, un dito medio di quindici metri esibito a mò di invito leghista ad andare a prenderlo in quel posto, come usa il ministro Bossi quando gli si nomina Gianfranco Fini. Antonio Marras ha scelto la sede della Triennale, appena dietro il parco del castello che gli Sforza edificarono per tenere in soggezione i cittadini milanesi, in  specie i nostalgici del Comune che aveva tenuto testa all’imperatore Federico di Svevia. Il Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio è del ’33, siamo in piena era fascista, monumentale nella sua razionalità, i soffitti altissimi, scaloni di marmo bianco. Perfetto per ospitare questo mondo cosmopolita dell’alta moda italiana, dove fortunatamente chi vuole davvero distinguersi veste in modo normale, jeans e maglietta, tutti gli altri sembrano uscire da una festa di carnevale dove era bandita l’acqua minerale. Indimenticabile quel giapponese in calze verde mare, i calzoni a quadretti bianchi e rossi, come la kefja del re di Giordania, una larga camicia bianca con cravattino rosso fuoco. Le modelle di Marras si aggirano prima della sfilata portando i loro quarantaquattro chili su mostruosi zatteroni che le fanno ancora più alte e irraggiungibili, nella loro fragilità e giovinezza. Paiono tante liceali in vacanza, dimentiche di mangiare tante sono le cose belle che le attirano diversamente. Leggo su “Vogue”, la Bibbia della moda mondiale, che Antonio nostro si è ispirato, per questa sua proposta stilistica di primavera prossima, a una poesia dell’inglese John Keats, un romantico dell’ottocento; per la cronaca si intitola “Bright Star” (stella luminosa) e parla di un innamorato che si dice felice di poter morire avendo a cuscino il seno del suo amore. Non proprio quello che definirei il mio genere. Anche se il film omonimo di Jane Campion che descrive l’innamoramento del poeta per una studentessa è molto piaciuto a quel sanguinario di Quentin Tarantino, che ci ha abituato a ben altro genere di pellicole. Sia come sia le modelle vestite Marras sono davvero molto belle, capelli sciolti e lunghi, dai colori chiari, ramati al più, di colore nero  li ha solo una giapponesina che spicca come Calimero fra pulcini dorati. Non ce ne è una a cui scappi un sorriso, un increspare di labbra, guardano tutte a un lontano avvenire che prefigura una vita incentrata sull’ amore che le attende. Certe che esso arriverà a carpirle, a portarle via da questo oggi che le vede mischiarsi, con un po’ di ribrezzo, con questo pubblico plaudente, vociante, fotografante a mitraglia, un dispiego di flash che neanche a San Siro con l’Inter di Murinho. I colori degli abiti, leggeri, sovrapposti a strati diversi, ricchi di pizzi non vistosi, sfumano dal rosa al beige polveroso (questo l’ho copiato), dal giallo senape al corallo. Quasi mai accesi “per una donna assolutamente romantica, che ama vesti libere. Che sembra volare come le bianche farfalle di carta che hanno accompagnato l’uscita finale di abiti bianchi e crema” (cit. Vogue). Antonio lui è più magro della più magra delle modelle, una barba non fatta da almeno quattro giorni, direi che non dorme da altrettante notti. Ha resistito alle sirene francesi che gli prospettavano ponti d’oro se si fosse trasferito a Parigi, preferendo rimanere ad abitare ad Alghero con la  moglie Patrizia e figli Efisio e Leonardo. Oggi è vestito con giacca e panciotto in vari toni di grigio, con una specie di fazzoletto pure grigio al collo, scarponi neri alla nuoresa, verrebbe da consigliargli uno stilista che lo aiuti nella scelta del guardaroba. Se non fosse, come dice a Sofia Gnoli per il “Venerdì di Repubblica” del 24 settembre, un termine che trova orribile (io pure, per quel che vale). “Sono nato fuori dalle rotte della moda” dice, “la Sardegna infatti non esiste nel panorama dello stile”. Davvero una figura atipica in questo mondo “dorato”dell’alta moda in cui tutto sembra splendente, luccicante, forzosamente perfetto. Anche se è dell’imperfezione che Marras vuole dire con i suoi abiti, quell’imperfezione che rende unico il vestito tra mille uguali, e quell’unico sarà per l’imperatore. Che è in ognuno di noi. Voleste avere un’idea dei prezzi dei suoi lavori, basta digitare (altro orribile termine) ,su Google,  “Antonio Marras” e tra i 470.000 siti che lo riguardano (il numero dà l’idea di quanto lui sia famoso nel mondo tutto) scegliere quello personale. Ci si può comprare vestiti a 450 euro, calzoni a 180, borse a 250, una bella spilla a 60 euro. Anche se se lo può largamente permettere, le sue botteghe sono in tutte le città del mondo che contano, “non viaggia in aerei privati di lusso e non fa capricci da primadonna, ha raggiunto il successo seguendo il ritmo del suo cuore. E della sua creatività. Ama il recupero e le citazioni etniche, realizza abiti che raccontano storie e si autodefinisce un artigiano del tessuto”( Sofia Gnoli). Per esser così assolutamente, innocentemente sardo tutti i nostri connazionali gli vogliono un bene dell’anima, qui oggi incontro Flavio Soriga ( scriverà per la “Nuova”)a cui rubo una foto, poi mi imbatto in Michela Murgia che proprio con un abito di Marras è andata in televisione a vincere il premio “Campiello”. Lei la abbraccio, che quasi non riesco a dirle quanto ci ha commosso col successo strepitoso del suo “Accabadora” (è secondo nelle vendite dei libri italiani). Marras è irraggiungibile, come sempre del resto, se è vero che deve allestire una collezione al mese, un’enormità. Scambio una battuta con una delle giornaliste che curano il suo ufficio stampa, fingendo di lamentare che neppure una delle modelle potesse essere , anche lontanamente, scambiata come nata in Sardegna. Ma chi le sceglie, chiedo. Lui, tutte lui. Da vero  macho catalano.

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