Un'esistenza trascorsa fuori dalla Sardegna pensando ai luoghi tanto cari nell'isola

di Vitale Scanu

 

Ricordo con profonda nostalgia gli anni passati a Barumini, paese di mia  mamma. Se Villa Verde, la Bannari di una volta, è incancellabile nella mia  vita e nella mia anima, perché vi sono nato e vi ho passato gli anni della prima gioventù, Barumini rappresenta per me il luogo di profondi cambiamenti, ma anche di  tante ore belle trascorse con gli amici e i ragazzi. Il luogo dove si  ritorna per caricarsi di affetti, di nostalgie e di memorie: la Filodrammatica con  le commedie sarde, i carnevali, i campeggi con i giovani al monte Arci… M’è sempre piaciuta Barumini, con quella sua aura di impalpabile distinzione,  per cui viene chiamata "Casteddeddu", forse derivante dalla lunga dimestichezza con la nobiltà iberica dei baroni Çapata. Soprattutto porto impressa indelebile l’armonia delle sue campane, di cui mi resta sempre nelle orecchie una  sorta di soave retrosuono. Io non so cos’abbiano di misterioso queste campane.  Mi danno l’idea della festa che si fa melodia e di una melodia che diventa festa.  Ho girato mezza Europa e di campane ne ho sentite. Poco o tanto si assomigliano.  Ma quelle di Barumini sono diverse, sono speciali. Le ho perfino registrate e  le ho portate con me in Portogallo e in Svizzera; spesso me le riascoltavo, come l’emigrato dei Ricchi e Poveri: "… con me porto le… ‘campane’ e se la  notte piangerò, una nenia del paese suonerò". E penso che, come me, la stessa armonia l’hanno sentita, commovendosi, la mia mamma, i miei avi e i miei antenati… Allora mi carica davvero una grande, profonda nostalgia e mi accorgo che gli occhi si inumidiscono. Nella biografia di molti sardi c’è scritta la parola emigrazione. Ed è stato  così anche per me. Da Barumini sono andato direttamente in Svizzera, dove ho fatto per un periodo l’infermiere nell’ospedale Santa Croce di Faìdo, in  Valle Leventina, che è una vallata alpina proprio ai piedi della montagna  del San Gottardo (m 3.192). Là l’inverno non scherza: la neve arriva alla cintola. Con mia moglie Maria Rita, la quale frattanto lavorava in un pantalonificio, abitavamo un appartamentino tanto vicino alla famosa ferrovia transalpina che, quando  passavano i treni, tremava tutto. E questo si verificava più di cento volte al giorno! Era come nella casa di Mary Poppins quando l’ammiraglio spara la cannonata per segnare il mezzogiorno. Adesso sotto quella montagna è in corso lo scavo della nuova galleria più lunga del mondo: il tunnel di base del San Gottardo, di 57 km, che andrà a sostituire la primitiva galleria, realizzata da Louis Favre negli anni ’70-80 dell’Ottocento. La paga in ospedale, in confronto alle ore di lavoro, era molto bassa e  quindi mi sono guardato intorno per trovare un’altra occupazione. Gira e rigira, a Lugano ho trovato occupazione presso un quotidiano, il Giornale del Popolo. Però, da Faìdo abbiamo dovuto traslocare, per essere più vicini al lavoro, e da residenti in Svizzera siamo diventati "frontalieri". Il "frontaliero" è un operaio italiano che si reca a lavorare in Svizzera tutti i giorni e alla sera deve ripassare la frontiera per tornare a casa. Nel
nostro caso a Porlezza, sul lago di Lugano. Mia moglie faceva la  propagandista editoriale per telefono. A Porlezza sono nati i nostri tre  figli, Flavia, Francesco ed Erica. Il giornalismo era un’occupazione molto più confacente per me. Al Giornale del Popolo son cominciati a scorrere gli anni e i decenni: quasi tre decenni di lavoro in redazione dove, in realtà, si faceva di tutto, dallo scrivere articoli, al prendere le telefonate, al correggere le bozze, al fare  abbonamenti. Ancora non c’era il computer e si doveva comporre tutto con la macchina per scrivere. Così era per il direttore (un direttore eccezionale, che era stato anche fondatore del quotidiano nel 1926, Alfredo Leber), così era per tutti gli impiegati della redazione. Mi sentivo, e mi sento ancora, molto legato e molto onorato per aver lavorato in questo quotidiano svizzero, perché a questo giornale hanno collaborato in diversi periodi personaggi come Piero Chiara, Giovanni Guareschi, don Carlo Gnocchi, Gianni Brera, Giuseppe Prezzolini, Francesco Casnati, Gian Carlo Vigorelli, il  nostro Giuseppe Dessì, Luigi Santucci, Indro Montanelli, Giovanni Papini… per nominare solo quelli italiani più noti. Proprio di fronte al Giornale del Popolo, fino agli anni ’60 del secolo scorso, passava una mini ferrovia a scartamento ridotto. Alla posa dei binari, lì davanti all’entrata, aveva lavorato anche Benito Mussolini nel periodo del suo esilio in Ticino. Contemporaneamente trovai un posto come collaboratore nell’archivio diocesano, impiego durato per circa dieci anni, fino alla pensione. Lì ho imparato da un illustre archivista svizzero, Giuseppe Gallizia, il valore della storia, delle cose antiche, dei documenti e l’interesse per la genealogia. In quell’archivio, con commozione, ho potuto passare le dita sulla scrittura e la firma di san Carlo Borromeo. E’ da queste grandi lezioni del lavoro giornalistico e dell’attività  in archivio che ho imparato e mi è venuto il desiderio e il gusto di scrivere, cosa che il computer mi ha facilitato moltissimo: senza di esso non sarei riuscito a portare a termine i miei tre libri di narrativa: "Mi ritorni in mente" (una mini storia di Villa Verde, fatta di ricordi,  avvenimenti della piccola cronaca di quel villaggetto dei tempi passati, persone care o compaesani e qualche fatto storico di contorno), "Tharsis" (descrizione della vita quotidiana nuragica nella zona del monte Arci ai tempi dell’ossidiana) e infine, il romanzo "Bachis Frau emigrato" (le vicende di un giovane emigrato di Bannari che emigra in un’acciaieria del Ticino per lavorare), che commuove e inumidisce gli occhi di tanti "disterraus", nel quale si possono riconoscere tutti gli emigrati con le loro storie. Questi tre libri sono come una trilogia sull’antico paesello di Villa Verde: il passato remoto (Tharsis), il passato prossimo (Mi ritorni in mente), il presente e il futuro (Bachis Frau emigrato). Quasi allo scadere dei miei anni di lavoro, due anni prima della pensione, il cuore ha cominciato a fare le bizze e mi sono dovuto licenziare. Un infarto mi ha spedito… all’altra sponda. Ma era solo uno scherzetto, una prova generale insomma… perché i medici del famoso Cardiologico di Lugano (dove hanno riaggiustato anche Bossi), vicino al quale grazie a Dio mi trovavo quando il cuore ha fatto stop, mi hanno riportato in vita. Morale della favola. Mi pare di poter dire che, a conti fatti, è meglio guardare l’emigrazione con animo positivo, come un’esperienza arricchente. Sempre però restando attaccati alla propria identità sarda. Se uno sopporta l’emigrazione come un semplice allontanamento dal paese, porta solo qualche soldo in più a casa, ma non si arricchisce di nuove esperienze, di nuove idee, di altri modi di vivere e di vedere le cose. Il tutto però, sempre nella fiducia che Dio ti assista e la sua pazienza ti sopporti.

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