Tottus in Pari, 230: quale domani, Sardegna?

NELL’ISOLA MANCA UN MODELLO CONCRETO DI SVILUPPO

LA CRISI ECONOMICA SARDA

Che l’economia sarda non goda di buona salute non è certo una novità, soprattutto oggi che siamo nel bel mezzo di una recessione globale che sta mettendo alle corde l’intera economia mondiale. A prima vista, perciò, sembrerebbe fuori luogo parlare in questo momento di rilancio del nostro sistema produttivo e più opportuno aspettare tempi migliori, quando la ripresa si sarà consolidata. Tuttavia, una delle regolarità statistiche riscontrate in passato, è che proprio nei momenti di crisi si possono gettare le basi della ripresa e trovare la soluzione a problemi che in tempi normali non si riesce ad affrontare, presi come si è dalla gestione delle attività quotidiane. Il punto da cui partire è che la Sardegna non ha più un suo modello di sviluppo, ammesso che in passato lo abbia avuto col processo di industrializzazione, sviluppatosi prevalentemente nei settori pesanti (chimica e minero-metallurgia). Il primo Piano di Rinascita ha accompagnato quel processo, anche se originariamente esso era stato pensato più a favore delle attività agricole tradizionali che non per accompagnare la crescita del settore industriale. Tuttavia, la fortuna del modello di industrializzazione degli anni ’60 sino alla prima metà degli anni ’70 fu dovuta soprattutto alla lungimiranza della classe politica di allora, che riuscì a trasformare un intervento di ammodernamento del settore agricolo in un vero e proprio piano di sviluppo economico globale per l’intera Isola e che nella realizzazione di tale progetto riuscì a coinvolgere la maggioranza della popolazione isolana. Oggi ci vorrebbe un nuovo Piano di Rinascita su cui riaggregare il consenso dei sardi. Un piano, beninteso, non solo strumentale alla gestione delle risorse che ancora lo Stato vorrà mettere a disposizione nell’ambito del futuro sistema di federalismo fiscale, ma anche in grado di selezionare una nuova classe politica capace di ridare fiducia e mobilitare il consenso intorno a un progetto chiaro e comprensibile al cittadino comune. I punti su cui fare leva non mancano. Abbiamo un settore turistico che da solo tira come il motore di una Ferrari, ma che oggi è in panne per le politiche sbagliate di gestione del territorio, che hanno bloccato in modo indiscriminato le attività produttive. Certamente il territorio e l’ambiente naturale vanno salvaguardati (ci mancherebbe!), perché per noi sono come la gallina dalle uova d’oro, ma bisogna pur fare in modo che queste ultime siano prodotte. Altrimenti si tratta di un blocco per incapacità di governo. Occorrerà poi dare una soluzione efficiente al problema dei servizi, dalle infrastrutture ai trasporti, dall’acqua all’energia. Si può inoltre aiutare a crescere la piccola e media impresa, soprattutto nell’industria manifatturiera, anche con gli incentivi fiscali che sarà possibile erogare nel futuro sistema di federalismo fiscale. Con lo stesso sistema, infine, si possono mettere le basi per attirare capitali d’investimento dall’esterno (modello irlandese) e impegnare il bilancio regionale, una volta depurato dalle entrate fasulle per crediti futuri, per promuovere una politica fiscale davvero funzionale allo sviluppo economico regionale.

Beniamino Moro

 

RENATO SORU LASCIA DEFINITIVAMENTE LA POLTRONA DI GOVERNATORE

LA SARDEGNA AL VOTO. GIA’ A FEBBRAIO

«Le condizioni per arrivare alla scadenza naturale della tredicesima legislatura non ci sono più: è inutile perdere altro tempo, ridiamo la parola ai sardi». È notte quando Renato Soru conferma le dimissioni dopo 24 ore di suspense. Il governatore lascia perché, come spiega lui stesso, «è inutile proseguire: serve un consiglio regionale forte, non uno che galleggi». A niente sono valsi gli accordi raggiunti negli ultimi giorni con la sua maggioranza di centrosinistra. Né gli hanno fatto cambiare idea le intese sul rilancio di una vasta serie di progetti: dalla difesa dell’ambiente alla finanziaria, dalla moralizzazione della vita politica a nuove attenzioni verso i giovani. L’isola andrà al voto anticipato, per la prima volta dal dopoguerra nella sua storia autonomistica, il 15 febbraio (la legislatura nei termini naturali sarebbe scaduta in giugno). La seduta in Consiglio regionale ha avuto un andamento anomalo: una cinquantina di interventi, in verità la maggior parte di consiglieri dell’opposizione, dopo che lo stesso Soru, nel primissimo pomeriggio, aveva posto le sue condizioni all’intera assemblea. Il presidente dimissionario aveva sollecitato un’inversione dell’Ordine del giorno per riprendere la discussione sulla legge urbanistica, laddove si erano interrotti il 25 novembre scorso. Proposta che giocoforza, per l’inserimento dell’argomento all’ordine del giorno, avrebbe richiesto il consenso del Centrodestra. Il governatore, nel breve discorso conclusivo, è tornato sulla legge Urbanistica e ha rimproverato ai consiglieri di essersi sottratti alla discussione perché, in effetti, tutti gli interventi sono stati incentrati sulle modalità delle dimissioni e non sul merito. Dopo le parole di Soru nessuno ha ritenuto opportuno di continuare il dibattito. Spente le telecamere per il Web, la seduta è stata trasmessa in diretta per il sito internet del Consiglio, tra consiglieri che si scambiavano doni natalizi e abbracci, ma anche molti musi lunghi soprattutto da quei consiglieri del Centrosinistra che ritengono di aver fatto un regalo all’opposizione. «Ma quale regalo»? Dirà Soru in un conferenza stampa organizzata notte tempo, «il Centrosinistra dev’essere orgoglioso di questi quattro anni e mezzo». Dimissioni rassegnate «serenamente», spiega Soru, «perché so di aver dato il meglio di me in questi anni». Il presidente sostiene di essere tranquillo «perché non sto scappando. In Sardegna funziona tutto e con l’approvazione dell’esercizio provvisorio non ci saranno contraccolpi. Certo ho sperato fino all’ultimo», ha aggiunto, «che ci fosse un segnale positivo da parte di tutti sulla possibilità di andare avanti, utilizzando proficuamente, nell’interesse dei sardi, anche questi pochi mesi che mancano per la scadenza normale. Si poteva concludere un passo importantissimo nell’azione di tutela del territorio che abbiamo portato avanti in questi anni». Il tempo di stare un po’ in famiglia, afferma, e poi si riparte con la campagna elettorale più breve de
lla storia: «Anche per questo i sardi devono essere tranquilli. Non ci sarà una legge Finanziaria elettorale e la campagna elettorale non costerà nulla alla Sardegna
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SORU SUPERA ANCHE MARIO MELIS: MAI TANTA ATTENZIONE SULLA STAMPA E IN TV

RE DI CUORI

Prove tecniche da leader nazionale? Le polemiche dimissioni del presidente della Regione Renato Soru portano sulla ribalta politica italiana la Sardegna e un suo esponente politico con un risalto e un’attenzione che mancava forse dai tempi del compianto Mario Melis. Due interviste televisive – una, molto spigliata, alla trasmissione di Daria Bignardi che precede di pochi giorni la crisi – e una serie di articoli e ritratti su tutti i principali giornali, quasi in coincidenza con i problemi che investono gli amministratori locali targati Pd in mezza Italia: mentre tutti cercano l’Obama made in Italy, il presidente della Regione sarda si concede una presenza mediatica quasi senza precedenti, che eclissa il clamore attirato negli anni passati da alcuni provvedimenti molto discussi (come il decreto salva coste o la tassa sul lusso). A parte il radicale cambiamento di strategia comunicativa da parte di Soru, da sempre un po’ restio nei confronti di telecamere e microfoni, è facile intravedere dietro questo montante interesse la regia del segretario nazionale del Pd Walter Veltroni. I riflettori puntati su Soru sembrano quasi il tentativo di reagire alla perenne crisi del partito con il pesante "endorsement" di un homo novus della politica, almeno su scala nazionale. Il fondatore di Progetto Sardegna però smentisce ambizioni romane: «La mia esperienza politica è in Sardegna», dice nel salotto televisivo di Fabio Fazio. L’eventuale futuro decollo verso la scena politica dei big recentemente era stata ipotizzata, con una bella dose di ironia corrosiva, da un’osservatrice fuori dai soliti schemi e attenta ai meccanismi di certa politica: il 21 novembre la scrittrice Michela Murgia, sul suo sito, aveva quasi profetizzato un futuro «colpo di mano» nel Pd nazionale, con l’ascesa di Soru (favorita dalle vecchie volpi). «Un uomo nuovo, credibile, onesto, mai stato sindaco di Roma, che si sia messo in luce ma senza bruciarsi, che sia popolare e noto a livello nazionale, ma che non venga da una vita di politica – scrive Murgia – e possa dunque riuscire nel doppio miracolo di dare speranza messianica alla gente e farsi sperabilmente usare come fantoccio da uno scaltro apparato partitico di cui sa poco o nulla». A dimissioni fatte, sulla stessa linea si muove Stefano Folli, editorialista del Sole 24ore, in un’intervista rilasciata al quotidiano online "Il Sussidiario.net". Dice Folli: «Soru è portatore di una carica innovativa molto forte». Perciò «mi stupirei se Veltroni non facesse una battaglia fino in fondo per sostenerlo, perché è un personaggio che non deve lasciarsi scappare». Di sicuro non se lo lasciano scappare Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Sole 24 ore, che dedicano ampie paginate al caso Sardegna, nella gran parte dei casi per lo più semplificando la crisi del governo regionale nell’ottica di uno scontro tra cementificatori e difensori dell’ambiente che viene inserito nel filone della "sinistra immobiliare". Anche L’Espresso in edicola ai primi di dicembre presenta Renato Soru come «unica eccezione alla slavina morale del centrosinistra» e parla di «sfida finale tra due modi di fare politica e costruire il consenso». Da una parte «la pancia del Pd», mossa contro Soru «per logiche di partito più che affaristiche», quando invece il presidente dimissionario, votato alla tutela ambientale, «è pronto a tutto, anche a proseguire senza il Pd». Qualche giorno prima l’equazione dell’Obama de noantri era apparsa nell’editoriale di Internazionale, il settimanale che presenta inchieste e approfondimenti dalla stampa di tutto il mondo. Nell’editoriale del direttore Giovanni De Mauro si legge: «Da noi non è tra i "giovani" del partito democratico che sembra nascondersi l’eventuale Obama italiano. È più estraneo all’establishment politico un ricco imprenditore come Renato Soru, che in televisione è impacciato, suda e sta in silenzio, e in Sardegna fa proposte rivoluzionarie come il divieto di costruire in una fascia di trecento metri dal mare». Piccola inesattezza questa, che si aggiunge a quelle delle altre testate nazionali su aspetti come piano paesaggistico e legge urbanistica. Ad onor del vero, i giornali nazionali sembrano preoccuparsi solo delle luci e dimenticano le ombre dell’era soriana: nessuno fa cenno all’indagine sul caso Saatchi che coinvolge il presidente, alla crisi di Tiscali (di cui Soru rimane azionista di riferimento), al dilemma del conflitto d’interessi sollevato dall’acquisto dell’agonizzante Unità da parte di Soru. Paradossalmente è Fabio Fazio a proporre – con i guanti e all’acqua di rose, com’è suo stile – due di questi temi durante l’intervista a Soru nella trasmissione di Rai 3 "Chetempochefa" del 7 dicembre. Tiscali, risponde il presidente, «non lascerà a casa nessuno» anche in questo «momento difficile per tutte le aziende», almeno «per quello che potrò fare e per quello che potrò suggerire in un’azienda in cui non metto piede da cinque anni». Sul conflitto di interessi – sul quale nei giorni scorsi il giornale "Il Riformista" ha mosso un pesante attacco relativo all’incompatibilità prevista dallo statuto del Pd – Soru ha detto che «chi fa politica ogni giorno ha un conflitto di interessi, sia che nella vita privata sia un imprenditore, un avvocato, un medico o uno che semplicemente ha dei figli e si trova nel conflitto se mandare avanti i figli degli altri o i propri». «Il buon politico – secondo il presidente della Regione – è quello che riesce a mettersi totalmente al servizio e allora avrà superato il conflitto di interessi, farà bene e dormirà con la coscienza tranquilla".

Michele Fioraso

 

INCHIESTA DE "L’UNIONE SARDA" SUI PAESI SARDI SEMPRE PIU’ POVERI E SPOPOLATI

CRESCONO SOLTANTO I CENTRI ABITATI DELLE ZONE COSTIERE

Piccoli paesi che si spopolano, il reddito che cresce solo nelle città o nei centri costieri e l’aumento degli abitanti dovuto quasi esclusivamente ai flussi migratori. Negli ultimi otto anni la Sardegna ha assunto una fisionomia diversa: è invecchiata, è diventata meno prolifica e soprattutto i sardi si spostano sempre più vers
o le zone costiere, dove il turismo fa da volano allo sviluppo. Il quadro emerge da uno studio realizzato dal Centro studi dell’Unione Sarda: i dati Istat sulla popolazione residente nell’isola sono stati messi a confronto con quelli sul reddito pro capite elaborati dal Centro studi Sintesi e pubblicati anche dal Sole 24 Ore. Ebbene, il quadro è chiaro: i piccoli centri, ma anche quelli di media dimensione (tra 1000 e 2000 abitanti), si spopolano anche perché il reddito di ogni singolo residente è rimasto quasi inalterato, o forse è anche diminuito negli ultimi anni se si tiene conto dell’andamento dell’inflazione. Non solo. Se nel Cagliaritano si rileva un incremento dei flussi migratori verso l’hinterland del capoluogo, nel resto dell’isola si assiste a un continuo flusso dal centro verso la costa. Dal 1999 al 2007, il periodo preso in considerazione dal rapporto realizzato dal Centro studi dell’Unione Sarda, la popolazione residente in Sardegna è cresciuta di 17.525 unità. «Tale crescita», è il commento degli esperti guidati da Franco Manca, direttore del Centro studi, «deriva esclusivamente da flussi migratori dato che il movimento naturale (nati meno morti) è costantemente negativo». In altri termini, la popolazione invecchia, nascono pochi bambini e sono gli immigrati a sostenere l’aumento dei residenti. L’analisi demografica comune per comune conferma inoltre lo spopolamento dei piccoli centri. Quelli con meno di 500 abitanti sono cresciuti di numero negli otto anni presi in considerazione. La maggior parte, inoltre, è concentrata nella provincia di Oristano, ma la crisi vera è quella dei paesi che hanno tra 500 e 1000 abitanti e tra 1001 e 2000 residenti. Se la prima fascia cresce di numero (i Comuni con una popolazione compresa tra 500 e 1000 erano 65 nel 1999 e sono diventati 73 nel 2007), nel secondo caso (tra 1001 e 2000 residenti) si è passati da 107 a 92. È il segno dello spopolamento costante dei centri che finiscono per essere inglobati progressivamente nella fascia inferiore. Solo due paesi infatti fanno segnare un’inversione di tendenza e sono Girasole e Telti, mentre per registrare incrementi di popolazione bisogna arrivare a centri con oltre 50 mila residenti (è il caso di Olbia, per esempio). Tanto più che anche la fascia tra i 2001 e i 5000 abitanti vede diminuire non tanto il numero dei comuni ma quello dei residenti (6.395 persone in meno), così come i centri che hanno una popolazione compresa tra 5001 e 10.000 unità registrano anch’essi una diminuzione di 1848 persone. A fronte di un progressivo spopolamento delle zone interne, si evidenzia invece una forte concentrazione in alcuni centri. Il 25% dell’intera popolazione regionale, infatti, risiede a Cagliari, Sassari, Quartu Sant’Elena e Olbia (1% dei comuni sardi). «Per contro», rilevano gli esperti del Centro studi dell’Unione Sarda, «i comuni con meno di 1.000 abitanti, che rappresentano il 30% del totale in quanto al numero, ospitano il 4% dell’intera popolazione sarda e guadagnano appena il 3% del reddito regionale». Il reddito pro capite dunque è senza dubbio più alto nelle città capoluogo o nei centri costieri, proprio quelli che vedono aumentare i residenti. E la tendenza della popolazione, aggiunge Franco Manca, direttore del Centro studi, «è quella di trasferirsi nelle città di maggiori dimensioni». Se poi si va a vedere la differente dinamica demografica tra comuni costieri e non, si rileva che nelle zone balneari sono 45 i paesi dove aumentano gli abitanti, mentre in 27 diminuiscono. Infine, nelle zone interne, 255 centri vedono calare la popolazione a fronte di 50 comuni che registrano un incremento. Le dinamiche della popolazione, dunque, sono strettamente legate ai guadagni dei sardi. Nel 2007 il reddito annuale per ogni sardo era pari a 8.526 euro, circa 700 euro in più di quanto si percepiva nel 1999. Se questo è il dato regionale, però, le cose cambiano quando si esaminano le dinamiche comune per comune. In quelli più piccoli (fino a 500 residenti), il reddito medio per abitante è peggiorato rispetto al 1999, con una diminuzione del 2,7% (era 5.734 euro nove anni fa e nel 2007 è diventato invece 5.577 euro). Nei paesi fino a 1000 abitanti, invece, l’incremento registrato è stato lievissimo (1,2%): poco più di 60 euro. Infine, nei centri che hanno una popolazione compresa tra 1001 e 2000 abitanti, il reddito medio pro capite è cresciuto in otto anni di circa 200 euro, attestandosi nel 2007 a 6.032 euro. Aumenti che forse non bastano neanche a coprire l’incremento dei prezzi. Solo nei comuni più grandi, quelli tra 20.000 e 50.000 abitanti, si registra un reddito medio pari a 9.742 euro, quindi superiore alla media sarda, mentre a oltrepassare i 10.000 euro di reddito annuale pro capite sono solo i capoluoghi di provincia. Differente infine la dinamica dei redditi nei comuni costieri, dove il reddito medio pro capite è stato, nel 2007, pari a 9.905 euro, il 16% in più della media regionale. Non solo. In questi paesi si nota un aumento dei guadagni annuali in 69 comuni (il 95,8%), mentre in quelli non costieri la diminuzione del reddito ha riguardato addirittura 134 paesi (il 43,9%). «Appare del tutto evidente», è la conclusione del Centro Studi, «come l’andamento del reddito nei comuni costieri, anche più piccoli, sia decisamente migliore rispetto ai comuni non costieri e anche alle grandi città, a conferma del fatto che il settore turistico rappresenta una grande opportunità»
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Giuseppe Deiana  * Unione Sarda, dicembre 2008

 

MORTI BIANCHE, SARDEGNA REGIONE A RISCHIO: 36 MORTI NEL 2007

EDILIZIA E TRASPORTI SETTORI PIU’ PERICOLOSI

Le chiamano morti bianche ma sono una delle pagine più oscure del mondo del lavoro. In Sardegna nel 2007 sono 36 i lavoratori che hanno perso la vita per cause di lavoro: quasi tre al mese, secondo una tragica media di morte. Che colloca l’Isola tra le regioni italiane ad elevato indice di gravità. In particolare, nelle piccole imprese la frequenza del rischio è doppia in confronto alla penisola Per quanto riguarda gli infortuni, sebbene raggiungano una media di 50 casi giornalieri, la regione non si discosta invece dal dato nazionale. I settori più pericolosi si confermano quello delle costruzioni e dei trasporti, mentre gli infortuni, diminuiti nei comparti industria e artigianato, lievitano, invece, nel terziario e nei servizi in genere. Rispetto al 2006 (in Sardegna si registrarono 18.522 infortun
i), l’Inail ha ricevuto 160 denunce in meno nel 2007: 18.362 infortuni, 500 dei quali hanno coinvolto lavoratori stranieri. La riduzione degli infortuni è stata dello 0,76% a fronte di un calo nazionale dell’1,7%. Nell’industria, così come nell’artigianato, gli eventi denunciati all’Inail hanno subito una contrazione rispettivamente di 292 e 141 episodi rispetto al 2006, mentre nel terziario gli infortuni sono cresciuti passando dai 4.037 ai 4.124 di un anno fa. Un trend differente dell’andamento infortunistico si registra nel settore dell’agricoltura poiché, sebbene il comparto occupi solo il 6,2% della forza lavoro in Sardegna, si registra circa il 14% degli infortuni. A monitorare e quantificare gli incidenti, spesso mortali, sul lavoro è il Rapporto annuale della Direzione regionale dell’Inail Sardegna. Grande incidenza sulla frequenza del fenomeno hanno poi gli incidenti stradali: 2.490 nel 2007, pari al 13,56% del totale, di cui 20 mortali. Per quanto riguarda le malattie professionali, l’Inail ne ha riconosciuto oltre 1.000 nell’isola a fronte delle 28.497 del resto d’Italia, con una netta prevalenza nei settori dell’industria e dei servizi (842) rispetto all’agricoltura (169) e della Pubblica Amministrazione (14). Nel 2007 sono cresciute le aziende assicurate all’Inail: +2.36% rispetto all’incremento dell’1,84% registrato nel 2006. In particolare, l’aumento è distribuito fra tutti i settori con un rapporto percentuale costante tra industria (7%), artigianato (51%) e terziario (36%), a conferma della tipologia del tessuto produttivo isolano costituito, in prevalenza, dalle aziende artigiane, dalle attività del terziario e, in minima parte, da quella che operano in ambito industriale. Verosimilmente gli sforzi che si stanno realizzando per diffondere un maggior livello di attenzione, cominciano a raggiungere i risultati in quei settori dove, maggiormente, è presente la coscienza del rischio, mentre nei servizi si fatica ad acquisirla e si affronta il problema con eccessiva superficialità
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RISORSE REGIONALI PER INCREMENTARE I FLUSSI TURISTICI NEI TRE AEROPORTI ISOLANI

LOW COST, LA SARDEGNA SEMPRE PIU’ VICINA ALL’EUROPA

La Giunta regionale ha incaricato l’Agenzia Sardegna Promozione di provvedere al pagamento a favore delle società di gestione degli aeroporti sardi, per le attività di promozione destinate ad ampliare i flussi turistici. È previsto il pagamento di complessivi 8,2 milioni di euro a valere sulle risorse disponibili del bilancio regionale 2008, così ripartiti: tre milioni di euro alla Sogeaal (società che gestisce l’aeroporto di Alghero-Fertilia), due milioni 500mila alla Geasar (aeroporto di Olbia-Costa Smeralda) e due milioni 700mila euro alla Sogaer (Cagliari-Elmas). Il provvedimento della Regione punta a "raggiungere un significativo incremento e consolidamento dei collegamenti internazionali" e, in particolare, dei low cost che transitano negli aeroporti di Cagliari, Olbia e Alghero. Un risultato che comunque è stato raggiunto di recente, grazie ad un adeguato numero di collegamenti aerei da e per la Sardegna con 31 delle principali città europee. Con i voli low cost, il traffico dei passeggeri nei tre scali entro il 31 dicembre 2008 dovrebbe superare quota due milioni (al 31 ottobre erano già un milione 389mila), vale a dire oltre 500mila in più rispetto ad un anno fa. Addirittura quadruplicato il dato del 2004 (i passeggeri allora furono 462.858). Nel 2008 i tre scali isolani sono risultati collegati con 14 Paesi. L’aeroporto di Cagliari con Londra, Madrid, Barcellona, Monaco, Colonia, Stoccarda, Parigi, Ginevra, Bruxelles, Basilea e Oslo; lo scalo di Olbia con: Colonia, Hannover, Stoccarda, Monaco, Berlino, Londra, Zurigo, Varsavia, Francoforte, Amburgo, Norimberga, Dusseldorf, Amsterdam, Basilea, Ginevra, Bristol, Praga, Vienna, Leeds, Birmingham, Copenaghen; infine, l’aeroporto di Alghero con Londra, Francoforte, Barcellona, Liverpool, Dublino, Stoccolma, Madrid, Dusseldorf, Brema e East Midlands. Questi collegamenti, a partire dal 1° aprile 2009, saranno ulteriormente incrementati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PER IL SUMMIT DEI GRANDI DELLA TERRA ALLA MADDALENA, LAVORI DA 300 MILIONI DI EURO

INCHIESTA "L’ESPRESSO": SCANDALO FORMATO G8

In Italia è tra le più piccole imprese edili e incasserà oltre 117 milioni in nove mesi. Non è la lotteria di Capodanno, ma la montagna di soldi pubblici che l’Anemone Costruzioni di Grottaferrata, alle porte di Roma, riceverà grazie ai lavori per il G8 sull’isola della Maddalena. Luciano Anemone, 54 anni, amministratore unico della società a responsabilità limitata, tra le tante opere sta costruendo il centro congressi che nel luglio 2009 ospiterà il primo grande vertice internazionale con il neopresidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ed è come se gli italiani gli consegnassero 2 euro a testa. Neonati compresi. Un record. Anche perché il signor Anemone, pur dichiarando soltanto 26 dipendenti, si è preso la fetta più grossa della torta da quasi 300 milioni di euro suddivisi tra cinque società. Una spesa da nababbi con l’aria che tira, le famiglie in crisi, la Fiat in gravi difficoltà e l’Alitalia ko. Inutile tentare di sapere perché sia stata scelta proprio la ditta Anemone. I criteri di selezione delle cinque imprese, chiamate senza pubbliche gare d’appalto, così come i progetti, sono coperti dal segreto di Stato: provvedimento imposto da Romano Prodi, confermato da Silvio Berlusconi e affidato con tutte le opere alla Protezione civile e al suo direttore, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Guido Bertolaso. Questioni di sicurezza, hanno dichiarato. Ma sollevando il velo della riservatezza si incontra ben altro. ‘L’espresso’ è entrato di nascosto nei cantieri sull’isola della Maddalena. E ha scoperto cosa finora il segreto di Stato ha impedito di vedere. Il sospetto di spese gonfiate. Costi di costruzione da capogiro a più di 3.800 euro al metro quadro. Lavoratori senza contratto. Operai pagati con fondi neri. Le minacce del caporalato. E un curioso legame d’affari tra la famiglia del coordinatore della struttura di missione della Protezione civile, Angelo Balducci, e l’impresa che a fin
e lavori guadagnerà di più. L’Anemone, appunto. Non finisce qui. Il secondo grande appalto, 59 milioni per la costruzione dell’albergo che ospiterà i capi di Stato, la Protezione civile lo ha affidato alla Gia.Fi. di Valerio Carducci, 60 anni, cavaliere della Repubblica, l’imprenditore fiorentino coinvolto nell’inchiesta di Luigi De Magistris sulla presunta rete di favori tra malaffare e politica nazionale in Calabria. E anche i criteri di selezione della Gia.Fi. sono coperti da segreto. Angelo Balducci, ingegnere spesso accanto a Bertolaso, ha fama di uomo da centinaia di milioni di euro. È il braccio operativo nei grandi appalti della Protezione civile. Non solo calamità, soprattutto organizzazione di grandi eventi come il G8. Per anni provveditore ai Lavori pubblici su Lazio e Sardegna, Balducci ha coltivato le amicizie che contano con l’imprenditoria e il Vaticano. Le sue relazioni politiche vanno dal leader della Margherita, Francesco Rutelli, al ministro di An alle Infrastrutture, Altero Matteoli. Il 10 ottobre scorso Matteoli propone al Consiglio dei ministri e ottiene la nomina di Balducci a presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Nei mesi precedenti, dal 19 marzo al 13 giugno 2008, proprio durante il periodo più delicato con la preparazione dei cantieri e il conferimento degli appalti, l’ingegnere è il soggetto attuatore di tutte le opere per il G8, cioè l’uomo dalle mani d’oro: provvede alle procedure necessarie per l’affidamento degli incarichi, alla stipula dei contratti, alla direzione dei lavori e al pagamento degli stati di avanzamento. E come soggetto attuatore si occupa delle imprese della famiglia Anemone. Balducci è un grande esperto nei contratti assegnati d’urgenza dalla Protezione civile, senza gare d’appalto. Segue per mesi i lavori per i Mondiali di nuoto del 2009 a Roma e per le manifestazioni del centocinquantesimo anniversario della Repubblica da celebrare nel 2011. Venerdì 13 giugno, però, è una pessima giornata. Un’ordinanza di Berlusconi lo rimuove dall’incarico di soggetto attuatore per il G8 e i Mondiali di nuoto. Ai cantieri della Maddalena, Balducci viene sostituito da un ingegnere dello staff, Fabio De Santis. Ma continua a occuparsene con "funzioni di raccordo tra la struttura di missione", cioè la Protezione civile, e i "soggetti coinvolti dagli interventi infrastrutturali". In quell’ordinanza, c’è però un passaggio che farebbe tremare i polsi a qualunque funzionario. Berlusconi dispone che Bertolaso costituisca "una commissione di garanzia composta da tre esperti di riconosciuta competenza e professionalità, anche estranei alla pubblica amministrazione". Una spesa in più per il G8, perché i compensi per gli esperti sono ovviamente a carico dello Stato. Obiettivo della commissione: "Assicurare un’adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori… in termini di congruità dei relativi atti negoziali".  Qualcosa insomma non va nella contrattazione degli appalti. Ma il segreto di Stato mette tutto a tacere. Così la squadra della Protezione civile in missione in Sardegna può raccontare, senza essere smentita, che Balducci è stato promosso. Anche se per lui, che era già stato presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, è un ritorno al passato. Il 31 ottobre tocca a De Santis. Sostituito per decreto, come Balducci. Berlusconi ora nomina un esterno alla pubblica amministrazione, Gian Michele Calvi, professore di ingegneria all’Università di Pavia. Il caso è archiviato. Eppure non è solo una questione di nomine tra il governo e la Protezione civile. Tutte le ditte per lavorare ai progetti del G8 devono ottenere il nulla osta di segretezza. E il nulla osta dovrebbe essere rilasciato dal ministero dell’Interno soltanto dopo accurate indagini sulla trasparenza delle imprese. Invece troppi particolari sono sfuggiti a chi avrebbe dovuto controllare. Bisogna lasciare la Maddalena, volare a Fiumicino e salire a Grottaferrata, alle porte di Roma. Via 4 novembre 32, nel mezzo di un quartiere di viali alberati, è l’indirizzo dichiarato da Luciano Anemone come sua residenza o come sede legale dell’Anemone Costruzioni. Ed è anche, come ha scoperto ‘L’espresso’, l’indirizzo di una casa di produzioni cinematografica, la Erretifilm srl. Di chi è? Amministratore unico e proprietaria al 50 per cento è Rosanna Thau, 62 anni, moglie di Angelo Balducci. Venticinquemila euro per costituire la srl della signora Balducci li ha messi però Vanessa Pascucci, 37 anni, amministratore unico e socia a metà di un’altra impresa edile legata alla famiglia Anemone, la Redim 2002 di Grottaferrata. E attraverso la Redim 2002, Vanessa Pascucci è anche socia dell’Arsenale scarl: società costituita apposta per il cantiere nell’ex Arsenale della Maddalena. Così il cerchio si chiude. Protetto dal segreto di Stato, l’appalto più ricco del G8 è finito a società amiche di chi aveva in mano la cassa. Con il suo seguito di domande. A cominciare da questa: chi ha scelto di affidare a Balducci l’incarico più delicato? I guadagni in gioco sono spaventosi. L’opera su cui è già possibile fare qualche conto è l‘albergo che ospiterà i presidenti. Capocommessa del cantiere, la Gia.Fi. di Valerio Carducci. Le poche notizie uscite dagli uffici della Regione Sardegna parlano di 57 mila metri cubi per un costo d’opera salito da 59 a 73 milioni di euro. Considerando un’altezza media delle stanze di 3 metri, sono 19 mila metri quadri coperti. Dunque un costo di costruzione al metro quadro di 3.842 euro, escluso il valore dell’area. Una cifra pazzesca se paragonata al valore di costruzione che per le case di lusso, secondo un capomastro della Maddalena, non supera i 1.200 euro al metro. Polverizzati anche i valori di vendita pubblicati dal sito dell’Agenzia del territorio: un massimo di 3.100 euro al metro quadro per le ville e di 2.000-2.300 per le attività commerciali. Così un ente dello Stato, la Protezione civile, sta finanziando un’opera ignorando le quotazioni pubblicate da un altro ente statale, l’Agenzia del territorio. L’esubero potrebbe essere giustificato con le spese per l’arredamento, il centro benessere e i letti su cui dormiranno Nicolas Sarkozy, Carla Bruni e Angela Merkel. Ma è difficile crederlo. Ammettendo un costo di costruzione molto vantaggioso per le imprese di 2000 euro al metro quadro (38 milioni in totale), per l’arredamento avanzerebbero 35 milioni. Cioè il costo di un altro albergo
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Fabrizio Gatti

 

BED AND BREAKFAST, UNA FORMA DI OSPITALITA’ DI SUCCESSO

IL TURISTA IN FAMIGLIA

Ufficialmente è definito Esercizio saltuario di alloggio e prima colazione, ma tutti lo chiamano Bed and breakfast (B&B). Fa più fino. Si è diffuso in Sardegna intorno al Duemila, da allora è in continua espansione. Una formula di ospitalità a carattere familiare, ogni casa non deve avere più di tre camere, con al massimo due posti letto. Ammesso il letto in più solo per un bambino. Se le stanze sono quattro, si passa nella categoria &q
uot;affittacamere", tutta un’altra cosa. L’attività del B&B, deve essere "saltuaria", come dice la legge. Significa che devono osservare un periodo di chiusura di almeno 60 giorni. Curiosità: durante la colazione, è obbligatoria la presenza di almeno un componente della famiglia, mentre gli ospiti non possono usare la cucina, neppure per farsi un caffè. Sia pure con questi limiti, hanno sempre più successo. Perché molti preferiscono la camera con prima colazione all’ospitalità informale dell’albergo. Così oggi sono 1360 i B&B sparsi nell’Isola, con 2344 camere e 4657 posti letto. Il maggior numero (347) in provincia di Cagliari. Sembrerà singolare, ma sono pochi nella provincia di Olbia-Tempio, quella a più forte vocazione turistica, forse perché ha un maggior numero di alberghi e ospita un particolare tipo di vacanzieri. Dai dati della Regione emerge che il fenomeno B&B si sviluppa soprattutto nelle province in cui l’industria delle vacanze non può contare ancora su un apparato ricettivo consolidato. Si spiegano così i 230 esercizi in provincia di Oristano, ma anche i 105 di Cagliari città, con 210 camere e 370 posti letto. A incentivare questo tipo di ospitalità diffusa è anche l’iniziativa individuale di tante persone che, specie quando vanno via i figli, si trovano a disposizione una casa troppo grande per viverla da soli. Altri abitano in magioni storiche o comunque importanti, particolarmente adatte ad essere valorizzate. Così oggi, in Sardegna, non c’è paese che non sia in grado di ospitare turisti di passaggio. I quali si fermano di buon grado in questa sorta di case-famiglia, dove pagano una media di 30 – 45 euro per una camera singola o 65 – 80 per una doppia. Prezzi decisamente concorrenziali, rispetto a quelli degli alberghi tradizionali. Spesso però ad incoraggiare la scelta di questa ospitalità alternativa è la ricerca del rapporto umano con chi ospita, la possibilità di entrare, in qualche misura, nell’ambiente di una comunità, poter conoscere da vicino le persone, vedere come vivono, entrare in contatto con gli altri ospiti in un ambiente familiare. In una regione come la Sardegna, dove l’ospitalità ha sempre fatto parte del costume sociale. È certamente uno dei motivi che hanno contribuito al successo dei B&B. Decretato anche dai numeri. Nel 2006 questo tipo di alloggio ha registrato un incremento del 89 per cento negli arrivi e del 98,75 per cento nelle presenze rispetto al 2005. E nel 2007 i dati aggregati con quelli degli altri esercizi extralberghieri e alloggi privati ha avuto un +26,4 per cento negli arrivi e +25,3 nelle presenze. Uno studio a campione eseguito dall’Osservatorio turistico, nel settembre 2007, ha accertato che il 2,5 per cento dei vacanzieri (2,3 italiani, 3,6 stranieri) aveva soggiornato presso affittacamere e B&B. Per un periodo medio di 10,4 notti, il più lungo, rispetto a tutte le altre categorie di strutture ricettive. In pratica, si sono fermati di più perché hanno speso poco: appena 137 euro al giorno. Ha sborsato meno solo chi è stato ospite di parenti e amici
 

Lucio Salis

 

LA CRONACA QUOTIDIANA ANTICA E MODERNA DELL’ISOLA RACCONTATA ANNO PER ANNO

TUTTI I GIORNI DELLA SARDEGNA

I primi due volumi di quest’opera sono la riproposizione di quell’Effemeride sarda che Pietro Meloni-Satta scrisse e pubblicò la prima volta nel 1877 con l’editore sassarese Giuseppe Dessì, e raccontano i fatti sardi dal 238 aC fino alla fine ‘800; gli altri due, riguardano la cronaca isolana di tutto il ‘900 fino al 2006, con il titolo di Cronologia della Sardegna contemporanea e sono curati da Salvatore Tola. Tutta l’opera comunque si avvale dell’attenta regia d’uno storico di vaglia come Manlio Brigaglia, ormai assai noto per i suoi interessanti studi sulla storia isolana oltre che per la sua assidua collaborazione, come editorialista di punta, dei quotidiani sardi. Si tratta, quindi, di un’opera di grande interesse, a cui le due introduzioni di Brigaglia offrono nuove conoscenze ed intriganti riflessioni su com’era e com’è la Sardegna. Anche perché ha dato, soprattutto all’opera di Pietro Meloni-Satta, una visione più articolata e leggibile della ponderosa mole di notizie raccolte. Manlio Brigaglia è un ottimo e collaudato conduttore di opere collettanee, oltre che scrittore chiarissimo ed avvincente. Nell’opera "Tutti i giorni della Sardegna", Brigaglia pone gli avvenimenti sardi all’interno di una più generale "storia italiana", in modo che il lettore possa collocarli, con facilità, in uno scenario meno limitato e, spesso, ingannevole. Le indicazioni di Brigaglia aiutano, quindi, a meglio comprendere come la storia isolana sia in qualche modo sorella, di quell’Italia, con la quale condividerà molte delle gioie ed anche parecchie dei dolori o delle penitenze, come quelle legate alla seconda Grande Guerra Mondiale all’inizio degli anni ’40. Nel mezzo c’è la Sardegna entusiasta d’autogoverno e vogliosa di riscossa federalista dei reduci "sassarini" ed anche quella in camicia nera, più legalitaria,ubbidiente e centralista, dei "fascio-mori" transfughi dal Psd’Az. Ma anche quella della prima rinascita, voluta dalla redenzione agraria, con la bonifica integrale, delle terre paludose dei campidani oristanesi. Ed ancora, proprio per seguire il ciclo degli anni, la fondazione della città del carbone – Carbonia – simbolo di quella politica autarchica che intendeva fare una nazione autosufficiente in economia. Ci sarà poi la guerra, con le sue iniziali privazioni e, a seguire, con i suoi drammi e le sue morti, per via dei bombardamenti nemici che feriranno a morte Cagliari principalmente, ma anche Olbia ed Alghero. Passano quindi dinanzi agli occhi, scorrendone le pagine, quei primi quattro decenni del secolo che avrebbero visto l’isola cambiare pelle. Proprio per l’abilità di Manlio Brigaglia, è dato di vivere – o di rivivere a seconda dell’età di ciascuno – momenti e fasi importanti della nostra storia, anche perché le rievocazioni sono descritte con una scrittura piana e scorrevole e  impastata di obiettività storica. Il dopoguerra ricollega al quarto ed ultimo volume dell’opera, che porta il lettore dall’istituzione della Regione autonoma al nuovo millennio. E’ importante che le vicende sarde trovino sempre la loro collocazione entro uno scenario più vasto. Così la contemporaneità della guerra in Corea, dell’accordo di Roma per l’unità europea o dell’assassinio di Dallas, s’interseca con i primi esperimenti d’autogoverno sardo. Seppure la piaga del banditismo continui a rendere insicure vaste zone della Sardegna interna (la cronologia intercetta le gesta malavitose di Pasquale Tanteddu e di Graziano Mesina) qualcosa sembra muoversi in senso modernizzante. Perché è la "rinascita" – cioè gli interventi pubblici destinati a favorire lo sviluppo socio-economico dell’isola – a monopolizzare l’interesse delle forze politiche e popolari. Spunta l’industrializzazione come nuova frontiera: la Sir di Rovelli assume nel 1962 le prime maes
tranze per lo stabilimento di Porto Torres. Sono i passi delle strategie industriali che orienterà verso la petrolchimica l’attività produttiva sarda. C’è dunque, nelle pagine di questo diario, tutta la grande come la piccola storia dell’isola, ed è quindi di grande interesse averlo nella biblioteca di casa. Non mancano le pagine sull’elezione dei due sardi divenuti Presidenti della Repubblica, Antonio Segni e Francesco Cossiga, ed anche quelle, assai fredde, delle lunghe siccità e dei drammi occupativi. Il lungo percorso cronologico arriva poi fino all’elezione a governatore dell’isola del patron di Tiscali, Renato Soru
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L’INVITO DI "TOTTUS IN PARI" PER AIUTARE IL PICCOLO FABIO MURONI

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Valentina Telò

 

SECONDO LE STIME PRELIMINARI DELLA F.A.O., AUMENTA DI 40 MILIONI DI PERSONE

FAME NEL MONDO: UN MILIARDO SENZA CIBO

L’aumento di altri 40 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo, quasi a sfiorare il miliardo, "è lo scandalo del nuovo millennio. Ora è chiaro che non sarà più possibile dimezzare la cifra entro il 2015. E dispiace se la crisi finanziaria globale diventa un alibi per non raggiungere il risultato. Questo non è accettabile. Oltretutto il numero dei poveri assoluti rischia di raddoppiare nel prossimo anno se non si prendono iniziative concrete". A parlare è Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale della Caritas italiana, commentando le stime preliminari del rapporto della Fao, che denuncia la presenza di 963 milioni di persone sottonutrite nel mondo, in aumento rispetto ai 923 milioni del 2007, soprattutto a causa dell’impennata dei prezzi delle materie prime agricole. Secondo l’agenzia Onu la crisi finanziaria ed economica potrebbe far crescere ulteriormente questa cifra.

Vi aspettavate un aumento del genere? "Purtroppo sì, perché i segnali che ci arrivavano dalle Caritas nel mondo andavano in questa direzione. È un dato inquietante che rattrista, rammarica e preoccupa molto, anche per gli sviluppi futuri dovuti alla crisi finanziaria ed economica globale. Al fenomeno dei prezzi molto alti del cibo purtroppo si somma l’effetto della recessione globale. Se non si prendono iniziative decise le prospettive per il futuro rischiano di essere ancora più nere".

Nel 2008 c’è stato però un lieve calo dei prezzi dei generi alimentari. "Va un pò a macchia di leopardo. In alcune zone del mondo il calo dei prezzi c’è stato ma è molto lieve. In altre parti i prezzi restano alti e in leggero aumento. Mediamente si può dire che c’è un leggero ribasso, ma non è paragonabile al ribasso del prezzo del petrolio, da 50 a 40 dollari al barile. Qui si parla solo di una riduzione dal 5 al 20% in alcuni Paesi, mentre in altri si mantengono i picchi di qualche mese fa. Se anche questi prezzi dovessero diminuire, con gli effetti della recessione (disoccupazione, riduzione di reddito, deflazione) potrebbero crearsi ulteriori scenari negativi. Tutti quelli che vivono con meno di 1 dollaro al giorno (1 miliardo e 300 milioni), e con meno di due dollari al giorno (circa 3 miliardi), sono a rischio. Il numero dei poveri assoluti rischia di raddoppiare nel prossimo anno se non si prendono iniziative concrete".

Quali ripercussioni dall’aumento dei prezzi delle sementi, ad esempio? "Ci segnalano che interi gruppi di persone hanno dovuto e devono utilizzare oggi le sementi per consumo alimentare. Questo vuol dire che in futuro non avranno i raccolti, o non tutti i raccolti che avrebbero avuto. Penso all’Afghanistan o ad alcune zone dell’Africa e dell’Asia, dove il danno non è ancora esploso ma tra qualche mese porterà molte famiglie ad emigrare o alla vera e propria fame".

Secondo la Fao l’alto prezzo delle derrate potrebbe però diventare una opportunità di sviluppo per i piccoli agricoltori poveri. È possibile? "È possibile ma improbabile. Gli studi dicono che l’aumento dei prezzi generalmente non si trasferisce ai piccoli produttori. Se si vende il prodotto al mercato internazionale ad un prezzo più alto, generalmente il piccolo produttore ha lo stesso beneficio di prima. Quindi non è un incentivo per nuovi sviluppi, nuovi investimenti, creazione di posti di lavoro. Ci sono delle eccezioni, a seconda dei Paesi o delle colture, ma generalmente la nostra esperienza ci dice che chi ne beneficia sono gli speculatori, cioè coloro che comprano agli stessi prezzi di prima e rivendono a prezzi molto più alti. Il vero guadagno va agli intermediari, abili e scaltri".

L’Onu propone una duplice azione contro la fame nel mondo: rafforzare il settore agricolo e aiutare i piccoli produttori; aumentare la produttività fornendo sementi, fertilizzanti e macchine agricole. È una strategia valida? "La prima parte sì, la seconda anche, purché non diventi una sorta di lasciapassare per certi tipi di sementi, ad esempio gli Ogm, e cert
i tipi di fertilizzanti e antiparassitari. Queste politiche devono essere prese con dei distinguo molto precisi, altrimenti si danneggiano i piccoli produttori. Sappiamo benissimo che le sementi Ogm creano dipendenza nel medio e lungo periodo o fenomeni come i suicidi dei contadini in India, perché non riescono a pagare i debiti fatti per l’acquisto. Va bene come programma generale, ma deve essere declinato su base regionale e zonale".

Per la Fao servirebbero 30 miliardi di dollari l’anno. Possibile che i governi non vogliano fare questo piccolo investimento per il bene di tutti? "Che non ci siano 30 miliardi di dollari l’anno, in aggiunta ai 100 miliardi di dollari l’anno necessari contro la povertà, sembra assurdo. Solo per il salvataggio dei principali gruppi bancari americani sono stati messi a disposizione 700 miliardi di dollari. In Europa sono stati stanziati 200 miliardi di dollari come primissima iniziativa. Ora entrambi stanziano altre centinaia di miliardi di dollari per il rilancio delle imprese e dell’economia reale. Se sommiamo tutte queste risorse andiamo a cifre da capogiro. Sembra un discorso miope non capire che rilanciare anche la domanda del Sud del mondo può essere addirittura uno strumento utile anche per il Nord. D’altra parte è un ritornello già pronunciato diverse volte, quindi se non ci hanno mai sentito per diversi anni sarebbe strano che ci possano sentire adesso. Ma non vorrei essere troppo pessimista".

Patrizia Caiffa

 

LA "GRANDE GUERRA", CULLA VIOLENTA DEL NOVECENTO

L’ORRORE DI UN’INUTILE STRAGE

Guerra mondiale. La chiamarono così anche se non tutto il mondo ne fu coinvolto: come sarebbe accaduto, invece, nella seconda. Ma quell’aggettivo esprimeva bene la percezione che ne ebbero i popoli, l’idea di un conflitto a cui non bastavano le molte aree nazionali in cui divampò o che ne sentirono gli effetti devastanti. Fu chiamata anche in altri due modi: "la grande guerra" e la "prima guerra mondiale". Tutt’e due le espressioni rendono l’idea. "Grande" è un aggettivo che dice l’enormità inafferrabile delle sue dimensioni, non solo territoriali; quell’aggettivo "prima" voleva significare, quando si cominciò ad usarlo, che era stata quella la prima guerra che avesse sconvolto l’intero pianeta: nessuno si accorse di quanto malaugurio suonasse l’automatica convinzione che a quella prima ne sarebbe seguita una seconda. E in effetti la seconda fu diretta conseguenza delle dure condizioni imposte alla Germania, che provocarono l’ascesa del revanscismo nazista. L’enfasi che è stata messa nel 2008 sulle celebrazioni del 90esimo di quel conflitto ha tante motivazioni, non tutte lodevoli. La meno lodevole sarebbe quella che volesse comunicare semplicisticamente che soltanto una certa parte politica ha l’esclusiva dei valori per i quali allora si combatté: o, meglio ancora, quei valori per i quali le minoranze nazionalistiche dei diversi paesi in guerra cercarono di convincere combattenti e cittadini che si era combattuto e tanti erano morti (oltre 10 milioni di soldati e centinaia di migliaia di civili). Fu anche la prima guerra tecnologica: quella che mise in campo, volgendole a fini di morte e di sterminio, molte delle conquiste che la ricerca scientifica aveva accumulato a cavallo fra 800 e 900. La scoperta che l’uomo poteva volare, e dunque bombardare il nemico non solo con le artiglierie ma anche con gli aerei; i proiettili e le bombe al fosforo capaci di provocare ferite e danni di gran lunga più vasti; il gas asfissiante, dispensato così largamente che sin dai primi anni di pace ci si sarebbe preoccupati di metterlo al bando. Fu anche una guerra "inedita". La prima che coinvolse masse intere di uomini e di donne, che colpì i civili non meno che i militari: la stessa Italia conobbe anche le fughe disperate dei civili davanti al nemico che avanzava, come accadde nelle regioni di Nord-Est dopo Caporetto; e dopo Caporetto anche la ritirata disordinata di un intero esercito (con i capi che accusavano i soldati di viltà). La prima che mescolò ideologia e politica al sacrificio quotidiano delle trincee e degli assalti all’arma bianca. In "Un anno sull’Altipiano", il famoso libro di Emilio Lussu su quella guerra, c’è una lunga, drammatica autocritica dell’interventismo, che pure era apparso, nei giorni del "radioso maggio" 1915, animato da motivazioni nobilissime: dai democratici che volevano completare il processo di unificazione del paese per dargli una compiuta civiltà politica ai rivoluzionari internazionalisti (come Mussolini e Corridoni e come Attilio Deffenu) che pensavano che abbattendo la Germania, la madre di tutti i capitalismi, si sarebbe fatto spazio all’uguaglianza socialista. Il caso più clamoroso fu quello della Russia, dove la guerra zarista fu trasformata nella Rivoluzione d’Ottobre di Lenin. Fu soprattutto una guerra di massa. Soprattutto di masse combattenti, scaraventate le une contro le altre come "carne da cannone": le innumerevoli battaglie dell’Isonzo, nella guerra italiana e lo stile "cadorniano" seminarono di cadaveri l’intera linea del fronte. Le linee dei monumenti ai caduti nei nostri paesi raccontano più di qualunque cronaca: le statistiche dicono che l’Italia (cioè gli italiani: soprattutto contadini e artigiani, proletari di ogni posto del sud) ebbe più di 100 morti ogni mille chiamati alle armi; la Sardegna 138 ogni mille, una delle percentuali regionali più alte. Una "inutile strage" la chiamò, nella sua "Nota ai capi dei popoli belligeranti" papa Benedetto XV: era il 1917, l’inutilissima strage sarebbe continuata ancora più di un anno. Nel suo libro Lussu immagina il soldatino che torna al suo paese (ad Armungia, in Sardegna, ma che si tratti della Sardegna non è detto in nessun punto) e va a trovare la madre del suo comandante, e quando gli chiede come è la guerra non ha esitazioni: "La guerra, un macello permanente". La celebrazione di una guerra vale solo se, ricordando tutti quelli che ci hanno lasciato la vita, si riflette sulla disumanità della guerra. L’Italia repubblicana lo ha scritto chiaro nella sua Costituzione: il nostro paese "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli" e anche "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".

Manlio Brigaglia

 

ASSIEME ALL’ORRORE DELLA SHOAH RICORDIAMO L’IMMANE FOLLIA DA NON RIPETERE

LA MEMORIA NON DISTINGUE FRA LE VITTIME

Ricordare, nel Giorno della Memoria. Ricordare chi? La legge italiana n. 177 del 31 luglio 2000, intitolata "Istituzione del ‘Giorno della Memoria’ in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti" stabilisce nell’art. 1: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». E all’art. 2: «In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere». Dunque, ricordare, per legge, quella parte della Seconda Guerra Mondiale che concerne deportazione, prigionia, morte, specialmente di ebrei perseguitati per legge anche italiana, in "campi". Ricordare affinché certe cose non possano più accadere. E il resto? Il resto di tutto ciò che allora è accaduto, e che altrettanto vorremmo che non accadesse più? Cioè la guerra, tutta la guerra, la Seconda Guerra Mondiale? Proviamo a ricordare anche il resto, in sintesi, nella sintesi astratta dei numeri dei morti ammazzati, in battaglia, bombardamenti anche atomici, prigionia, sterminio di massa, rappresaglie … I conteggi sono stati fatti e rifatti. Come spesso i conti, anche questi dei morti variamente ammazzati non tornano bene, ci sono alti e bassi. Ma in ogni caso dicono molto. Traggo un conteggio recente da Memoria per la storia e per la pace – Mai più guerra (a cura di Tullio Ferrari), Vol. III, Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, Sez. di Modena, 1986, pag. 106: Italia: 415.000 morti (330.000 militari, 85.000 civili). Francia: 610.000 morti (250:000 militari, 360.000 civili). Gran Bretagna: 410.000 morti (350.000 militari, 60.000 civili). Germania: 7.000.000 di morti (4.000.000 militari, 3.000.000 civili).  Polonia: 5.420.000 morti (120.000 militari, 5.300.000 civili). Unione Sovietica: 21.000.000 di morti (13.600.000 militari, 7.500.000 civili). Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca, Finlandia, Grecia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Romania, Ungheria: 4.720.000 morti (1.020.000 militari, 3.700.000 civili). Stati Uniti: 250.000 morti (tutti militari). Canada: 42.000 morti (tutti militari). Giappone: 2.060.000 morti (1.700.000 militari, 360.000 civili). Cina: 13.500.000 morti (3.500.000 militari, 10.000.000 civili). Il totale di questa immane carneficina è spaventoso: 55.527.000 morti, dei quali 25.162.000 militari e 30.365.000 civili. Nei 12 anni di regime nazista furono, inoltre, sterminati nei campi di concentramento circa 6.000.000 di ebrei. Gli internati furono, in totale, 7.500.000.» Ecco i morti comunque ammazzati che nel Giorno della Memoria bisogna ricordare. Più o meno. Massimiliano Perlato

 

 

IL SESSANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO

1948 – 2008: COSA E’ CAMBIATO?

Sono passati sessant’anni esatti dalla proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il 10 dicembre è stata infatti una data importante che sarà sicuramente foriera di riflessioni, incentivi e promesse. In sessant’anni si sono succeduti un’infinità di eventi che hanno mutato l’assetto storico, sociale e politico del nostro mondo, alcuni paesi hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita, altri sono retrocessi e altri ancora si trovano nella stessa situazione di stallo. Nelle giornate antecedenti al dieci si parlerà di questo, si festeggerà con eventi e convegni, si farà il punto della situazione, si denunceranno le migliaia di situazioni in cui i punti cardini della carta universale continuano ad essere violati. Ecco, penso che la domanda che meglio possa celebrare questi sessant’anni sia : "Cos’è cambiato?". La dichiarazione universale compare nella storia dopo un momento difficilissimo per l’umanità. Siamo nel 1948, reduci da due guerre mondiali, dallo sterminio ebreo e dalla messa in atto di tecnologie belliche di distruzione di massa; ci sono state ancor prima rivoluzioni, tratte degli schiavi, sottomissioni e violenze di ogni tipo. Insomma, quando i rappresentanti dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 sfogliarono le pagine della storia non si trovarono di certo di fronte una bella situazione. E infatti su molti testi di storia si legge che: "La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nasce come conseguenza del disgusto nei confronti degli orrori della guerra e delle atrocità fino ad allora commesse dall’uomo, dal razzismo imperante e dall’odio fomentato da secoli di rivalità". In quanto Dichiarazione di principi dell’Assemblea generale, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è giuridicamente vincolante per gli Stati membri dell’organizzazione ma ai diritti ed alle libertà in essa riconosciuti va attribuito un valore giuridico autonomo nell’ambito della comunità internazionale, dal momento che sono ormai considerati dalla gran parte delle nazioni alle stregua di principi inalienabili del diritto internazionale generale. La Dichiarazione è stato il primo documento a sancire universalmente i diritti che spettano all’essere umano. Le parole che aprono il documento, che possono apparire banali, quasi scontate per alcuni, sono la manifestazione di diritti spesso ancora negati: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza". Non è un caso allora che la Dichiarazione venga idealment
e considerata come il punto d’arrivo, la summa di un lunghissimo dibattito filosofico che ha visto protagonisti come John Locke, Jean- Jacques Rousseau, Voltaire, Immanuel Kant,
Friedric Nietzsche e il contemporaneo Jacques Maritain che partecipò personalmente alla stesura della Dichiarazione. Di certo furono di fondamentale importante anche la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino stesa all’insegna di Libertè, Egalitè, Fraternitè nel corso della Rivoluzione Francese nel 1789, i Quattordici Punti di Woodrow Wilson (1918) e i quattro pilastri delle libertà enunciati dalla Carta Atlantica di Franklin Rossevelt e Winston Churchill nel 1941.  Alla Dichiarazione  sono  seguiti il Patto Internazione sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici adottati all’umanità dall’ONU in 16 dicembre 1966. La Dichiarazione è composta da un preambolo e da 30 articoli che sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona; i diritti dell’uomo vanno quindi suddivisi in due grandi aree: i diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali. Si tratta insomma di un documento di fondamentale importanza che celebra quest’anno, come la costituzione italiana, i suoi 60 anni  facendo del 2008 l’anno "per i diritti e per la riflessione". Tra gli eventi che si succederanno in questi giorni vi è il "Small Places Tour" organizzato da Amnesty International che raccoglierà in tutto il mondo concerti ed eventi dal 10 settembre e il 10 dicembre. In questo periodo gli artisti di Amnesty uniranno le loro voci affinché la dichiarazione possa realmente divenire una realtà concreta. Luciano Nadalini e Nancy Motta, fotoreporter bolognesi inaugurano in questi giorni una mostra fotografica in trenta scatti, uno per ogni articolo della dichiarazione; la Fondazione Corriere della Sera  ripercorre il cammino della Dichiarazione interrogandosi sui progressi fatti e le difficoltà incontrate, confrontandosi su come questo "ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni" possa diventare realtà, in un ciclo di convegni che hanno preso il via il 1 dicembre. Queste alcune delle innumerevoli iniziative, tutte con la riflessione e la presa di coscienza come fine ultimo. Ma se torniamo alla nostra domanda iniziale e sfogliamo le pagine dei giornali del 2008 quanto troviamo della messa in atto dei trenta articoli? Disordini in Tibet, India, Iraq, guerra tra religioni, sottomissioni, violenze su donne e bambini e tantissime altre situazioni in cui vengono realmente a mancare i diritti basilari dell’uomo. Di certo si tratta di situazioni di grossa portata ma allo stesso tempo localizzate. Va anche detto che dal 1948 i miglioramenti sono stati notevoli e la maggior parte delle nazioni condanna chi viola i diritti. Ma non guardiamo solo ai massimi sistemi come spesso si fa. Spostiamo lo sguardo sulle piccole realtà quotidiane, quelle a cui raramente si fa caso che, se non implicano un immediato ritorno di immagine, finiscono nei bassoni dei giornali o si perdono tra le news delle agenzie e per  le quali sembra che questo anniversario non sia mai esistito. A questo punto ha senso chiedersi "Cosa e dove è cambiato?"

Mariella Cortès

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