CULTURA SARDA E TRADIZIONI: LA MORTE, TRA MISTERO E SUPERSTIZIONE

di STEFANIA CUCCU

Per conoscere a fondo un territorio, è necessario indagare a fondo la cultura, le tradizioni e le credenze di un popolo. E’ questo il motivo per cui oggi faremo un viaggio particolare, quasi antropologico, alla scoperta di un elemento ricorrente nella cultura sarda, quello della morte e dell’universo di creature fantastiche ad essa riconducibili.

In Sardegna i morti hanno da sempre goduto di grande attenzione e rispetto e indotto, talvolta, un briciolo di timore. Coerentemente con la fede religiosa, il momento del trapasso veniva considerato un passaggio di transizione verso lo stadio evolutivo della gloria. Non è un caso che in sardo il morto venga tuttora chiamato su biadu, il beato, e che le condoglianze siano date con la frase: a du connoschede in sa groria (trad. lett. speriamo di ritrovarlo nella Gloria – Paradiso).

Tra i più temuti segnali che lasciavano presagire l’arrivo imminente della morte c’è senz’altro il canto di alcuni uccelli notturni.

I rapaci notturni sono chiamati “strigiformi”, un nome assai significativo, traducibile letteralmente in “a forma di streghe”, che lascia trapelare quanto l’uomo sia permeato, anche nella sistematica zoologica, dalla paura nei confronti del buio e della notte, che trova il suo apice nella paura della morte.

La credenza popolare assegna agli animali la capacità di fiutare, più di chiunque altro, l’odore della morte e, in virtù di questo, il verso de s’istria, insieme a quello del cuccumiao o del passero solitario venivano ritenuti segni terribili da tenere in attenta considerazione. La principale portatrice di sventura era senza dubbio s’istria (in italiano: la strega) il cui canto notturno marcava inevitabilmente la fine della vita di qualcuno.

Quando si udiva il canto de s’istria bisognava subito adottare alcuni accorgimenti precauzionali che consistevano nell’incrociare le gambe sul letto in una maniera ben precisa. In questo modo si sarebbe riusciti ad annientare l’effetto del canto ferale. A seconda dei casi, una persona poteva anche non morire ma cadere in uno stato detto di istriadura, caratterizzato da malessere generale, depressione e apatia. Per venirne fuori occorreva sottoporsi a un ciclo di suffumigi a base di erbe benedette e preghiere liberatorie.

Altri presagi di sventura erano dati dal latrato dei cani che, se la notte abbaiavano davanti alla porta di qualcuno, ne annunciavano l’imminente dipartita, dal gallo che cantava prima della mezzanotte e dal gatto che assumeva atteggiamenti tristi e apatici.

Ulteriori segnali poco rassicuranti erano rappresentati da una stella luminosa particolarmente vicina alla luna, dalla luna stessa circondata da un alone rossastro oppure dal periodo in cui cadeva la pasqua che, se capitava di marzo, poteva risultare di estremo malaugurio tanto che Pasca marzale annada mortale, per non parlare dell’anno bisestile per cui valeva il detto annu bisestu annu funestu.

Quando arrivava la morte, tutta la comunità si stringeva attorno alla famiglia del defunto e il lutto seguiva procedure stabilite. In antichità il corpo della persona deceduta veniva adagiato su un tavolo, sopra un tappeto chiamato Tapinu ‘e mortu. Ne restano pochissimi esemplari, alcuni sono esposti al Museo Regionale dell’Arte Tessile di Samugheo. Attorno al defunto si riunivano le parenti più strette, le vicine di casa e altre donne remunerate che piangevano e si contorcevano in canti e grida disperate dando forma a un clima di grande coinvolgimento e pathos. Queste prefiche erano le Attitadoras e il canto da loro inscenato si chiamava per l’appunto S’Attidu (il pianto).

I colori del lutto erano il nero e, strano ma vero, il giallo che spesso tingeva i fazzoletti e le bende che incorniciavano il viso delle donne.

Gli uomini, in segno di lutto, si lasciavano crescere la barba e non la potevano accorciare prima che fosse decorso un certo tempo. Allo stesso modo le donne erano tenute a portare il lutto per un numero di anni che variava in funzione del grado di parentela con la persona scomparsa.

Durante il funerale le campane suonavano a morte con tocchi sordi e lenti e si diceva “est repicande a mortu” proprio per indicare quell’inconfondibile suono triste e angoscioso.

Il morto veniva vegliato giorno e notte mentre parenti e amici avevano il compito di procurare ai famigliari più stretti il pranzo e la cena per diversi giorni. Era usanza che, agli uomini che si intrattenevano la sera nella casa del defunto, venisse offerto da bere po s’anima de su biadu.

Dopo il funerale si rientrava nell’abitazione del morto dove veniva offerto il caffè accompagnato dai biscotti sardi. Questa tradizione sopravvive ancora assieme a quella di regalare, in occasione della messa del primo mese, da parte dei famigliari ai parenti e agli amici stretti, pacchi di caffè, zucchero, pasta e altri generi alimentari.

Fin dai primi istanti, la morte era accompagnata da un preciso codice fatto di gesti, grida e lamenti ripetuti, che prendeva il nome di “teu”. Il ruolo fondamentale era sempre giocato dalle donne, non a caso, in una società da sempre improntata su una cultura matriarcale. Sia che si trattasse di un marito, un fratello/a, un figlio/a, era la donna a “prendere le redini”. La parente più stretta (una madre, una moglie, una figlia o una sorella) accendeva una candela e con questa faceva il segno della croce di fronte al morto e gli chiudeva le palpebre e soprattutto le labbra, affinché non gli sfuggissero i segreti di famiglia.

Nelle primissime ore che seguivano il decesso, il cadavere veniva lavato, vestito e composto accanto al focolare domestico, disteso su un tavolo o talvolta su delle assi montate come un catafalco coperto da un lenzuolo. Sul petto veniva posto un piccolo crocifisso di legno. Riprendendo l’antica consuetudine romana, inoltre, il morto doveva essere disposto con i piedi rivolti verso la porta, in modo da facilitare il trapasso.

Nelle ore successive, quando il feretro era ormai composto, seguivano le prime visite dei vicini di casa e dei parenti. Da questo momento iniziava la veglia funebre, che assumeva connotazioni e denominazioni diverse a seconda dell’area geografica. In alcune aree del Campidano la veglia è detta “sa bisita”, in altre ancora si parla di “krumpiu”, e infine nel nuorese si parla de “sa ria”.

Anche in questo caso il ruolo principale nel rituale era svolto dalle donne. Le parenti si sedevano ai lati del morto o si accovacciavano sul pavimento, attorno al focolare spento. Gli uomini, invece, prendevano posto in fondo alla stanza o in una stanza attigua, anch’essi in gruppo. La veglia poteva essere accompagnata da litanie funebri e da preghiere pronunciate ad alta voce oppure bisbigliate, ma talvolta era silenziosa.

Il giorno del decesso le famiglie del vicinato avevano il dovere di mandare il pranzo alla famiglia del defunto. La porta di casa doveva rimanere rigorosamente aperta, nonostante freddo ed intemperie e la cena di veglia si consumava in silenzio, sempre accanto al focolare.

Al settimo e nono giorno dalla morte, era poi usanza da parte dei familiari del compianto distribuire ai vicini carne, pane e pasta (“maccarones”).

La sera, del nono giorno la famiglia del defunto si riuniva per un altro pasto. Anche questa usanza attinge a piene mani dal mondo romano della famosa coena novendialis.

Nei racconti e nelle leggende sarde le anime dei morti non abbandonano del tutto il regno dei vivi ma continuano a manifestarsi, di tanto in tanto, in apparizioni, consessi notturni e balli.

Tra le leggende più diffuse c’è quella de Sa Rèula, una processione silenziosa di anime che percorrono le strade buie dei nostri paesi fino a giungere sotto casa di qualcuno da portare via. Sa Rèula era temutissima così come il ballo dei morti. Si narra che, soprattutto nei pressi delle chiesette di campagna, alcune anime si riunissero la notte per dare vita a un ballo tondo. Rispondere all’invito di entrare a far parte del cerchio equivaleva a sottoscrivere la propria condanna a morte per cui, quando ci si imbatteva in un ballo dei morti, la soluzione era solamente una: pregare.

Le leggende sarde sono popolate di anime e spiriti errabondi, pensiamo alle panas, le donne morte di parto che, vestite di bianco, pare si facessero notare la notte, tra l’una e le tre, nei pressi dei fiumi dove lavavano i panni mentre intonavano una triste ninna nanna. Mai distrarle o interrompere la loro litania perché la punizione sarebbe potuta essere delle più tremende.

Un’altra creatura che popolava le notti sarde era quella de Sa Surbile, la strega-vampiro che andava a caccia di bambini non ancora battezzati per succhiargli tutto il sangue. Contro di lei si potevano adottare alcuni accorgimenti come quello di posizionare vicino alla culla una falce dentata poiché Sa Surbile, che sapeva contare solo fino a sette, in questo modo si sarebbe confusa e sarebbe rimasta lì fino all’alba nel tentativo di finire il conto per poi sparire con i primi raggi di sole.

La festa di tutti i morti, che ricorre ovunque il 2 Novembre, in Sardegna è segnata da tradizioni del tutto singolari. La sera del 1 novembre, dopo il tramonto, i bambini si organizzano in gruppetti e fanno il giro delle case per chiedere dolcetti, caramelle e frutta di stagione come noci, melegrane e fichi secchi. All’unisono recitano una cantilena: Animas de prugadoriu, Ave Maria che tradotto potrebbe suonare come “Siamo le anime del purgatorio, Buonasera” (Ave Maria era infatti il modo con cui si salutava quando si entrava in casa d’altri).

Vietato non aprire la porta ai bambini e nemmeno non dargli qualcosina, in quel momento loro rappresentano le anime dei nostri cari. Si tratta di un rito che in alcuni paesi si chiama Su prugadoriu, in altri Su mortu mortu o Sas animeddas.

Questa tradizione esiste da sempre e non è una mutuazione del dolcetto&scherzetto di Halloween anche se le radici potrebbero essere comuni.

La stessa notte, in molti i paesi dell’isola, sopravvive ancora l’usanza di apparecchiare la tavola e preparare una ricca cena per sas animas a base di gnocchetti conditi con sugo al pomodoro e pecorino. Si pensa, infatti, che i morti quella notte facciano ritorno nelle proprie case a banchettare e proprio per questo bisogna fargli trovare qualcosa di pronto da mangiare.

Una curiosità: la regola vuole che sulla tavola imbandita non debbano esserci coltelli, mai lasciarli accanto ai piatti, poiché le anime potrebbero farne un uso sbagliato.

E se i morti non si presentano? Non si butta via nulla e il pasto viene consumato il giorno successivo dai vivi.

Insomma, sino a non molto tempo fa, la morte e il culto dei morti in Sardegna assumeva un ruolo fondamentale nella vita di una comunità.

Il morto era uno che era stato da noi accompagnato fino alla sua fine.

Questo accompagnamento era decisivo, perché la morte è la prova più grande che ci attende ed essere accompagnati è ciò che più ci aiuta a fare della morte stessa un atto, non a subirla, a ridare puntualmente a Dio la vita, e a non lasciare passivamente che ci venga strappata.

Questa azione di misericordia corporale causa un grande bene a chi la compie: lo porta a riflettere sull’interrogativo della morte, su ciò che la morte è come mistero per ciascuno, a misurare il proprio limite, a discernere ciò che è essenziale alla vita, a riflettere su cosa sono gli altri per noi e a misurare se il nostro amore resta anche quando l’altro non c’è più.

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Un commento

  1. Stefania, bell’articolo. Complimenti.

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