SAS MERES DE SU PRANTU : GIOVANNI ZIDDA RACCONTA IL RITUALE ARCAICO FUNERARIO DI ORUNE

di FRANCESCA BIANCHI

Il prof.Giovanni Zidda, autore del libro Sas meres de su prantu. Rituali arcaici della Sardegna (Orune), pubblicato nel 2019 per Musa Edizioni. Insegnante in pensione di Storia e Filosofia, Zidda oggi si dedica a ricerche antropologiche e filosofico-religiose. Figlio di una attitadora orunese, la sua ricerca etnologica sul rituale funerario di Orune è stata oggetto della sua tesi di laurea, dalla quale è stato tratto il libro Sas meres de su prantu. Nel corso dell’intervista ha spiegato come veniva preannunciata l’imminenza della morte nei racconti della tradizione e delle credenze popolari orunesi, quale ruolo rivestivano i sogni, qual era l’atteggiamento degli orunesi di fronte alla malattia e alla morte, soffermandosi sulle peculiarità di Orune rispetto al resto della Barbagia. Ha preso in considerazione, poi, la figura di colei che lo studioso definisce la psicoterapeuta inconsapevole ed empirica del dolore del mondo antico: s’attittadora, la padrona del pianto per eccellenza, la lamentatrice di prestigio riconosciuta dalla Comunità.

L’autore coltiva la speranza che questa sua approfondita ricerca possa contribuire alla valorizzazione della tradizione orale di Orune in un periodo in cui questi valori di collaborazione, condivisione, solidarietà, che sono connessi alla cultura agro-pastorale, rischiano di estinguersi sotto la spinta del consumismo. Nella figura dell’attitadora vedo, infatti, una espressione della civiltà pre-capitalistica, di una società in cui l’amore conta molto e molto contano il senso e i valori di una comunità, come quella orunese, che ha sempre avuto tratti peculiari nel bene e nel male.

Prof. Zidda, nel 2019, per Musa Edizioni, ha pubblicato il libro Sas meres de su prantu. Rituali arcaici della Sardegna (Orune). Quando e come è nata questa sua ricerca etnologica sul rituale funerario di Orune? Da dove è partita la sua ricerca? La ricerca etnologica, oggetto della mia tesi di Laurea dal titolo Rituale funerario ad Orune, dalla quale è stato tratto il libro Sas meres de su prantu, ha avuto origine verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, epoca in cui venivano ad acutizzarsi le controversie, i conflitti tra alcune famiglie del mio paese. Era anche il periodo in cui nascevano i circoli culturali nel nuorese. A conclusione degli studi universitari iniziai a svolgere una ricerca sull’attività di alcuni di essi, in particolare su quello di Orgosolo, poiché fui attratto dalla sua interessante documentazione che trattava, tra l’altro, temi, allora attuali, sulla Teologia della Liberazione sorta in America Latina. La mia attenzione si orientava sull’interpretazione culturale-religiosa della figura di Gesù Cristo, considerato “primo comunista della storia”. Durante i primi momenti di confronto su questa ricerca con la mia prof.ssa Clara Gallini, che mi seguiva nel lavoro, nacque su questo punto un disaccordo. Mi venne, così, proposto di compiere una ricerca sul rito funebre del mio paese. Accettai la proposta, anche perché potevo disporre dell’aiuto di mia madre, donna impegnata e spesso invitata come Attitadora a rendere il suo contributo a famiglie colpite dal lutto. Già da bambino, inoltre, rimasero in me i ricordi delle cruente immagini e grida disperate delle donne che reagivano al dolore con atteggiamenti convulsivi e parossistici. Attraevano la mia attenzione anche i canti delle Attitadoras, che poi raccolsi con l’apporto determinante di mia madre e delle donne definite Sas meres de su prantu (“le padrone del pianto”), impegnate nel rito.

Come veniva preannunciata l’imminenza della morte nei racconti della tradizione e delle credenze popolari orunesi? Che ruolo rivestivano i sogni? Come si presentava la morte? Non è facile ricostruire un quadro completo ed articolato delle credenze relative ai diversi segni premonitori. Essi erano sempre accompagnati al pensiero di disgrazie o di morte e generavano paura, angoscia e terrore in chi ne aveva fatto diretta esperienza o in chi li viveva in un contesto di precarietà sociale ed esistenziale. Diversi e numerosi sono i segnali premonitori da ricordare e spiegare. Tra questi, possiamo considerare suoni e rumori strani, comportamenti strani di animali, come “S’erchidu de su boe”. Quest’ultima era una credenza molto sentita nei diversi paesi della Barbagia. Si credeva che durante la notte arrivassero nei pressi delle case del vicinato uomini malvagi, ritenuti colpevoli di gravi delitti, che per questo si trasformavano in animali per annunciare la morte. Essi venivano chiamati “erchidos”. Si trasformavano in buoi con grosse corna dalla punta d’acciaio e muggivano per tre volte davanti alle case in cui alcuni avrebbero dovuto in breve tempo lasciare questo mondo. Essi incutevano terrore perché il lugubre annuncio veniva accompagnato dal fragore delle catene che trascinavano sul selciato. Tra i segnali premonitori, va annoverato anche il ritorno delle anime dei defunti. Le “Panas” rappresentano il mesto ritorno delle anime vaganti delle donne morte durante il parto, che sono costrette ad espiare per sette anni consecutivi le pene per non aver garantito la sopravvivenza del neonato. Si credeva che vagassero di notte lungo le rive dei fiumi e dei ruscelli per lavare i panni. Quanto al ruolo che rivestivano i sogni, bisogna dire che anch’essi, come espressione del mondo dell’inconscio, venivano interpretati, sul piano simbolico, come segni premonitori di morte. Nel libro Visiones, i sogni dei pastori (AM&D Edizioni), l’antropologo Bachisio Bandinu ha dedicato uno studio analitico-scientifico al mondo simbolico dei sogni. Questi possono ritenersi, secondo Bandinu, buoni o cattivi (in malu). I sogni sono “avvisos”, segnali, messaggi che giungono dall’aldilà per comunicare con i vivi e anche per annunciare lutti imminenti.
Nella tradizione orunese le anime parlano nei sogni, ma anche attraverso altre forme, quelle legate ai riti e ai tabù della morte, che tendono oggi ad essere superati, messi in crisi dalla civiltà della tecnica e dei consumi, ma non cancellati del tutto sulle premonizioni, sull’agonia, sulla preparazione del morto, sul pianto funebre (attitu), sui funerali, sul lutto, sulla conservazione del ricordo dei defunti e, appunto, sui sogni. Insomma, nonostante il mutare dei tempi, i sogni mantengono nel rapporto tra i vivi e i morti tutto il loro potere magico e misterioso La scena onirica crea inquietudine e timore e fa apparire segni enigmatici che rimandano a una lettura simbolica. Secondo la tradizione e le credenze della cultura popolare, i sogni devono essere interpretati al contrario.

la storia siamo noi,donne di orune (foto di claudio gualà)

Nel libro afferma che Orune per la sua altitudine è esposto a tutti i venti, tanto da essere definito padrone del vento. Spesso il vento era visto come segnale premonitore di disgrazie e omicidi. Come venivano giudicati questi fenomeni? Oggi è rimasto qualche retaggio di alcune di queste usanze? Un forte vento o l’apparizione di un fenomeno astrale ad Orune erano considerati segnali negativi. Gli orunesi hanno sperimentato che il vento forte è sintomo di disgrazie imminenti o di “mortes malas” (morti violente). Per la sua posizione collinare aperta Orune è esposto a tutti i venti, tanto che il paese viene definito “mer’e su ventu” (padrone del vento). Quando il vento si sente fischiare, sembra si tratti di anime che lamentano il proprio stato, forse perché uccise; anime che, gemendo nell’aria, mormorano qualcosa: forse invocano giustizia e vendetta per la loro morte. Il pessimismo collettivo tende a prevalere in ogni paesano: l’ululare del vento è stato spesso foriero di sventure. Non mancano le esclamazioni tipiche che rivelano questa paura e questo convincimento. È la cultura popolare che tramanda tutta questa serie di credenze e convinzioni che vengono interiorizzate da tutta la popolazione e diventano patrimonio culturale per i posteri.
La premonizione di sciagure giunge anche attraverso la parvenza di fenomeni astrali, come l’eclissi totale o parziale di luna. Sono, naturalmente, eventi eccezionali, e per questo sono giudicati come delle interruzioni, come disturbi del corso naturale degli eventi.

Qual era l’atteggiamento degli orunesi di fronte alla malattia e alla morte? Da questo punto di vista, c’è qualche differenza o peculiarità di Orune rispetto al resto della Barbagia? Si può affermare il principio che ad Orune, come in tutta la Sardegna, e non solo quando c’è la morte, non si è soli. La morte è regolata da consuetudini precise che i vivi si impegnano a rispettare come vincolo tra individui e famiglie. Il rapporto fra vivente ed estinto è così immediato che sembra non stabilisca mai un distacco. In Sardegna, e ad Orune in particolare, il morire rappresenta un impegno di solidarietà collettiva e questo perché i concetti del vivere e del morire impongono uno stretto vincolo di rapporti tra individui e individui e tra famiglie e altre famiglie. La morte di un uomo nella comunità popolare offre l’occasione per giudicare non solo l’individuo in sé, ma tutti coloro che appartengono al suo “sangue”. L’atto di accompagnare al cimitero un defunto è detto caridade (carità). Questo atto giova a colui che viene accompagnato alla tomba, ma anche alle altre animas; è un atto che rivela il vincolo che lega gli individui al defunto. Chi, all’interno della comunità, non partecipa al funerale, compie un meditato atto di offesa, disprezza i morti e la sua “gente”, soprattutto perché viola le regole (lezes) comunitarie.
Veniamo ora alla figura di s’attittadora. Come veniva scelta? Quale formazione riceveva? Ritengo che sia comune la convinzione che ogni donna in sé, grazie alla sua profonda sensibilità, possegga potenzialmente l’attitudine al canto doloroso, fatto di lamentazioni e sospiri, in particolare quando avviene una disgrazia o una morte nel proprio nucleo familiare. Fin dall’infanzia esse hanno appreso, avendo partecipato a diversi eventi funebri, le tecniche delle lamentazioni. Tuttavia, è l’Attitadora, per la sua ricca esperienza, la figura più importante e necessaria nella gestione del rituale. Lei sa come muoversi e comportarsi, come le antiche sacerdotesse, per dare conforto e incoraggiamento ai familiari del defunto, sempre pronta a rendere il suo canto di dolore, in quanto dotata anche di particolari doti poetiche estemporanee che hanno lo scopo di rendere gli onori al defunto. Questi momenti toccanti suscitano commozione e pianto in coloro che assistono alle scene dolorose. Il defunto non se ne deve andare senza che sia reso il cordoglio completo. Quindi è l’Attitadora la “padrona del pianto” per eccellenza, la lamentatrice di prestigio riconosciuta dalla comunità, e proprio perché riesce a rasserenare, non penso di esagerare definendola la psicoterapeuta inconsapevole ed empirica del dolore del mondo antico. Se si dovesse fare a meno della sua figura e della sua prestazione, il dolore potrebbe determinare conseguenze negative anche irreversibili sul piano psico-fisico. Mentre pronuncia i versi settenari dell’attitu, muove il busto come se fosse in uno stato onirico, e forse anche per questo assurge a sacerdotessa del triste rito attorno a cui si snoda il mistero della morte. La sua figura è diretta espressione della cultura del mondo pastorale e rappresenta lo specchio dei valori comunitari che travalica il singolo. Generalmente l’Attitadora non viene scelta: è lei stessa, in quanto riconosciuta dalla comunità, che sente liberamente il dovere di svolgere questo servizio, in particolare alle famiglie parentali o vicinali. Animata oggi dal principio religioso della carità (sa caridade) e dallo spirito di servizio, si mette a disposizione dei familiari tutti per rendere il suo canto di dolore e determinare quello sbocco necessario e catartico e poter, così, rasserenare l’animo turbato dal dolore di coloro che hanno perso una persona cara.

Come si inserisce l’attittadora nel rituale funebre? Dove veniva eseguita la lamentazione? La presenza della figura dell’attitadorasi può individuare subito, a partire dal momento in cui i familiari vengono informati di una brutta notizia, di disgrazia o di morte. La notizia viene data non a freddo, ma seguendo delle regole dettate dal buonsenso. La brutta notizia si dà considerando lo stato psico-fisico della persona ricevente, ricorrendo ad una attenuazione della novità, perché non susciti reazioni troppo scomposte. Bisogna procedere ad una graduale presa d’atto reale dell’accaduto. Bisogna evitare reazioni troppo scomposte nella donna che riceve la brutta notizia. L’attitadora, come tutte le donne del vicinato e del parentado venute a conoscenza dell’accaduto, accorre a fare visita alla famiglia della vittima. La casa del defunto è il luogo dove inizia su teju e dove avvengono i diversi momenti del rituale. Il salotto diventa il luogo d’incontro tra i paesani e quelli del vicinato e il luogo dove avviene l’inizio de “su teju”, la lamentazione funebre. La salma viene sistemata con i piedi rivolti verso l’uscita, intorno alla quale le donne si siedono in rija, in forma lineare e aperta ai contributi delle altre donne al cordoglio.

Come si svolgeva il periodo del rituale funebre? Chi soprintendeva ai preparativi e all’organizzazione? Quale significato acquistavano i preparativi? Già dai primi momenti successivi all’avvenuto trapasso del moribondo si veniva a creare, nella casa del dolore, una situazione generale di affusu, ossia manifestazioni di agitazione e momenti di confusione individuali e collettivi. Quello era il momento dei preparativi vari per attuare il rito. Nella fase che precedeva il decesso, animati sempre dalla speranza, i familiari, mediante sa e sos cumannos (la donna delegata a compiere le commissioni), avvisavano il medico del corpo e quello dello spirito (il prete) per elaborare un’ultima diagnosi o per dover amministrare l’Estrema Unzione (s’ollonzu). Un’altra donna esperta provvedeva a “abbrusare”, ossia a misurare, controllare, con la stretta del polso sinistro, la pressione sanguigna del malato per considerare il suo destino. Quando il medico accertava il continuo peggioramento delle condizioni del malato, si ritirava in un’altra stanza insieme ai familiari per informarli della grave situazione e quindi si affrettano a preparare su locu (il luogo) per dare inizio al rituale. La preparazione dello spazio, del luogo, che generalmente è il salotto di casa, aveva un significato propiziatorio, poiché l’ordine creava le condizioni per onorare nel miglior modo possibile il caro estinto, affinché, col canto dell’attitu, potesse intercedere dall’aldilà per aiutare tutti i familiari. Infine, un altro aspetto importante dei “diritti” del defunto era la veglia. La regola da rispettare era quella di non lasciare mai da solo il defunto, ma di vegliarlo per tutta la notte, durante la quale, mentre le donne andavano a riposare, gli uomini (amici, conoscenti, parenti del defunto), per trascorrere il tempo, facevano giochi vari. Non mancavano coloro i quali, “allegri” per il troppo vino, improvvisavano attitos vicino al feretro dell’estinto.

Qual era la funzione originaria e tradizionale che spettava alla figura di sa e sos cumannos? Sia l’Attitadora che sa’e sos cumannos sono due figure monolitiche presenti nella loro ieratica funzione. Seppur coinvolte nei sentimenti, restano vigili nel compimento dei loro doveri affinché il dolore e la situazione luttuosa non diventino elementi destabilizzanti nella portatrice del cordoglio (s’anneada). Sa e sos cumannos è colei che riceve dai familiari l’incarico di eseguire le commissioni e organizzare gli aspetti tecnici del rito funebre del morto e per il morto. Sono generalmente le donne parenti, amiche o del vicinato ad espletare le commissioni. In loro assenza si presta, per fare opera di carità, una delle donne che gravitano intorno alla parrocchia. La scelta è dettata da criteri di fiducia, familiarità, confidenza con la famiglia dell’estinto. Si ha la convinzione che chi si metterà al servizio dell’estinto non potrà non ricevere del bene e una profonda gratitudine da parte della famiglia. Sa e sos cumannos, infatti, per il servizio prestato avrà diritto a una buona ricompensa con ricchi doni (simili a quelli ricevuti dall’Attitadora), come denaro, caffè, zucchero, formaggio, salumi vari e vestiario. In passato non mancavano anche le sporte (le corbule) piene di grano e farina, tutto in onore e in suffragio dell’anima dell’estinto e anche per il prestigio sociale dei vivi. È una prestazione libera, spontanea, non di tipo utilitaristico, che si rende al defunto stesso, in suo onore, altrimenti viene a mancare il rispetto per i vivi e per il morto. Durante l’iter dei preparativi non mancavano improvvise manifestazioni di pianto e di sconforto, ma si provvedeva ad infondere coraggio e a considerare l’ineluttabilità del morire.

Prof. Zidda, ricorda qualche attitu particolare? Esiste l’imbarazzo della scelta, perché sono tanti gli attitos da me raccolti e differenziati a seconda del tipo di morte, occasioni e contesto storico-ambientale. In particolare, ricordo che durante l’ultimo conflitto mondiale una donna si recò a fare visita a casa di una madre che, venuta a sapere del grave ferimento del figlio in guerra, rispose in tale maniera a questa donna che chiedeva novità:

O est mortu o morinne “O è già morto o sta per morire
Lontanu dae domo lontano dalla propria casa
Ch’est fininne sa gherra che sta (forse) finendo di soffrire
O est mortu o morinne O è già morto o sta per morire
Oro in terra drinninne e come l’oro che sento cadere per terra
Lontanu dae domo lontano dalla propria casa
Drinninne in terra oro è come l’oro che squilla per terra
Ch’est fininne sa gherra che sta per finire di soffrire
Oro drinninne in terra e come l’oro che squilla per terra”.

Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori di questo saggio? La risposta a questa domanda è seria e complessa. Sono le ragioni che mi hanno guidato verso questo tipo di ricerca. L’ho intesa, innanzitutto, come un recupero di un aspetto dell’identità culturale da far conoscere ai lettori come valorizzazione, in particolare, della tradizione orale del mio paese, in un periodo in cui questi valori di collaborazione, condivisione, solidarietà – che sono connessi alla cultura agro-pastorale – rischiano di estinguersi sotto la spinta del consumismo. Nella figura dell’attitadora vedo, infatti, una espressione della civiltà pre-capitalistica, di una società in cui l’amore conta molto e molto contano il senso e i valori di una comunità, come quella orunese, che ha sempre avuto tratti peculiari nel bene e nel male. Credo che ricerche di questo genere aiutino a comprendere meglio il nostro modo di essere “diversi” rispetto agli altri paesi della Barbagia. Ho avuto certamente dubbi e incertezze, ma è stata mia madre a spazzarle via, sicuro che l’attitu svolge una funzione di recupero alla vita in un paese così difficile e dalla vita tormentata come è stato ed è ancora Orune.

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Un commento

  1. Infinite grazie, in particolare a te, cara Francesca, e anche a tutti quei lettori che potranno leggere e apprezzare il contenuto generale dell’intervista, come testimonianza e valorizzazione della nostra cultura e dei valori dei Sardi nel mondo. Grazie.

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