LE GRANDI UTOPIE SULLA SARDEGNA IN UNA LETTURA CRITICO STORICO-ECONOMICA: I DUE “CASI TABARCHINI” DI CARLOFORTE E CALASETTA (1738 E 1768)

di GIANRAIMONDO FARINA

Un caso particolare di questo”popolazionismo sabaudo” del XVIII secolo, stimolatore dall’analisi di Sanna Sanna nelle “Grandi Utopie”, e’ il caso di due particolari, uniche ed originali, esperienze consumatesi nel Sud-ovest dell’isola e, piu’ precipuamente, fra le due isole di S. Antioco e di S. Pietro. I risultati, anche in questo caso, non saranno confortanti ma e’ importante, dal punto di vista storico-economico, evidenziarne i tratti peculiari. Il punto di partenza, come ribadito anche da Sanna Sanna, non era certamente negativo.  Dagli anni Trenta del XVIII, nella prima fase del riformismo sabaudo, emergeva la convinzione che l’ “introduzione della popolazione” fosse “uno dei mezzi principali per il potenziamento del commercio” e ,più in generale ,per lo sviluppo economico dell’isola. È stato, soprattutto, Carlo Emanuele III a dare impulso ai progetti per il ripopolamento della Sardegna attraverso lo stanziamento di coloni forestieri. I casi che ora si descrivono, però, sono ben diversi da quelli “corsi e greci” di La Maddalena e Montresta. In questo caso, era intenzione del re, appena asceso al trono, d’intervenire maggiormente nell’area sulcitana e, soprattutto, nelle due isole quasi desertiche di S. Pietro e S. Antioco. Il 2 agosto 1737 il console francese a Cagliari Paget informava Parigi che una rappresentanza della comunità ligure stanziata nell’isola di Tabarca aveva chiesto “alla corte di Torino, di accordargli qualche terreno in Sardegna per stabilirvisi, tra le duecento e le trecento famiglie, che vogliono lasciare Tabarca”. Tabarca era ed e’ un’isola prospiciente la Tunisia, abitata, allora, da popolazioni liguri di Pegli parlanti una variante della lingua genovese.  Il viceré sardo Rivarolo accoglieva con favore la proposta e scriveva al sovrano Carlo Emanuele III, invitandolo a considerare la possibilità di stanziare i tabarchini nell’isola sulcitana di San Pietro. Il 10 dicembre, il console di Francia scriveva ancora al governo francese, informandolo che il re sardo aveva accolto il progetto e che l’isola di San Pietro sarebbe stata “eretta in ducato in favore del marchese Della Guardia, cavaliere di Cagliari (…). Grazie ai dispacci consolari francesii ora si sa che il 20 marzo 1738 la comunità destinata a San Pietro era formata da circa cinquecento persone. Il 10 aprile, al termine del periodo di quarantena, 535 coloni lasciavano, pertanto, Cagliari. Le donne venivano sbarcate a Porto Scuso, in attesa che gli uomini avessero portato a termine le fortificazioni necessarie alla difesa della colonia. Per proteggere i coloni da eventuali attacchi dal mare, il viceré Rivarolo aveva, poi, inviato diversi distaccamenti di militi formati da circa novanta effettivi. Molto interessante, a questo punto, diventa la disamina della specifica tecnica e modalità d’insediamento adottata dal governo sabaudo. Ai coloni arrivati sull’Isola erano stati assegnati, inizialmente, i diversi lotti localizzati nelle due regioni chiamate Tacca Rossa e Tacca Bianca e attualmente identificabili con la località della città di Carloforte chiamata “Macchione”. La distribuzione delle terre e degli starelli di frumento destinati alla semina era testimoniata da un documento datato 12 ottobre 1738. I primi mesi di vita della colonia non furono facili. Numerose baracche, utilizzate come alloggi provvisori furono travolte da un’inondazione, mentre altre restarono bruciate da un fuoco appiccato inavvertitamente. L’avvio delle produzioni agricole era, poi, minacciato dai conigli, presenti nell’isola in sorprendente quantità. Tra i coloni serpeggiava, poi, il proposito di lasciare l’isola alla volta dell’Asinara.  La storia successiva, per l’appena costituita comunità sarà piena e densa di avvenimenti, purtroppo anche drammatici.

Nel 1798 Carloforte subì una feroce incursione piratesca: più di novecento suoi abitanti furono catturati e tenuti schiavi a Tunisi per cinque anni. Successivamente gli schiavi furono liberati, pagando un oneroso riscatto, dal re Carlo Emanuele IV di Savoia.  Pochi anni prima, nel 1793, la cittadina era stata invasa dai francesi nelle fasi post-rivoluzionarie che travagliarono l’Europa: l’isola fu definita “isola della libertà” dagli occupanti. Con l’avvento della breve dominazione francese (durata pochi mesi: 8 gennaio – 26 maggio) una parte della popolazione inneggiò ai nuovi principi sociali di libertà, fraternità e uguaglianza della rivoluzione, altri furono avversi, ci furono di conseguenza disordini e conflitti nel paese. Negli anni ’60 del XIX secolo ,  che sono quelli piu’ o meno contemporanei a “Le Grandi Utopie”, l’Isola diventava  un importante centro dell’economia mineraria del Sulcis e dell’Iglesiente.  A differenza di altre realtà Carloforte aveva un porto ben organizzato dove potevano attraccare dei battelli mercantili, pertanto i tabarchini diventavano trasportatori di minerale, detti galanzieri, che recuperavano dalle cave della costa, portandolo in città, su barche a vela latina, conosciute come galanza. 

Venendo, dunque, al progetto insediativo di Calasetta, sulla costa settentrionale dell’isola di S. Antioco, proprio davanti alla ricordata Carloforte, possiamo parlare di uno dei disegni di pianificazione urbana piu’ interessanti del Regno di Sardegna. Sanna Sanna, certamente, non poteva avere una precisa cognizione di cio’. Tuttavia, il suo grande merito e’ stato quello di essere stato fra i primi politici sardi del XIX secolo ad averne parlato e scritto. Sul caso di Calasetta, poi, intervennero molti altri attori, partendo dal governo, dalla neocostituita Segreteria per gli affari di Sardegna, voluta appositamente dal ministro Giambattista Bogino (il primo sabaudo ad aver avuto “a cuore” la Sardegna), per arrivare ad un nutrito e preparato gruppo di ingegneri e pianificatori. Un progetto,questo di Calasetta, che arrivava, dato il disegno complesso di ripopolare l’intera isola di S. Antioco, a coinvolgere persino un ordine cavalleresco religioso. Proprio per questo, il 21 marzo 1758 la Corona cedeva l’intera isola in commenda all’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, il quale si impegnava a popolarla e renderla produttiva. Nell’aprile 1766, l’Ordine si accordava con l’avvocato cagliaritano Salvatore Durante, il quale in cambio di trenta aratri di terra, s’impegnava ad attivarvi la produzione di grano e olio ed a introdurre dieci famiglie estere di religione cattolica. 

L’area individuata per la fondazione della colonia era “Cala di Seda”, insenatura adagiata lungo la costa settentrionale dell’isola di Sant’Antioco: da questo toponimo deriva, appunto, l’attuale nome di Calasetta. Nel 1768 si aprivano, poi, le trattative con diverse famiglie originarie dell’isola tunisina di Tabarca, gia’ ricordata per il caso della vicina Carloforte, disponibili a stanziarsi sull’isola di Sant’Antioco.

L’Ordine di San Maurizio copriva i costi di trasporto, un sussidio annuale in grano e uno giornaliero in denaro per la durata di un anno e mezzo, due aratri di terra a ciascun capofamiglia (incrementabili con la crescita delle famiglie) e dieci anni di franchigia fiscale. Ai coloni spettava, invece, la costruzione delle rispettive abitazioni entro tre mesi dallo stanziamento. Pietro Belly, ingegnere militare piemontese, era l’autore dell’interessante piano urbanistico della colonia: una pianta a scacchiera tracciata nell’area di Porto Major nei pressi di una torre difensiva ed uno stagno da riconvertire in salina. 

Il centro generativo della cittadina era la piazza principale, dove venivano ubicate la chiesa, la grande casa parrocchiale e la cisterna idrica.

Un magazzino per le provviste era localizzato nel versante meridionale del borgo. Lo spazio urbano veniva, poi, diviso in 38 lotti da assegnare per estrazione alle famiglie tabarchine (119 coloni) sbarcate nell’isola dal bastimento “Ancilla Domini”, salpata da Tunisi il 15 giugno 1770. 

Originariamente le case erano posizionate agli angoli dei lotti agricoli, come case-fattoria. Esse erano composte da una stanza unica, i cui muri erano in pietra e terra impastata e con un tetto di tegole e con intorno un appezzamento di terreno. 

La comunità si sarebbe governata con un sindaco e due consiglieri di età superiore ai 25 anni scelti dai capi famiglia alla presenza del potestà regio. 

Ogni tre anni si sarebbe proceduto al rinnovo delle cariche con l’introduzione annuale di un nuovo consigliere e, contestualmente, la sostituzione del sindaco con uno dei due consiglieri già in servizio. 

Probabilmente, l’aspetto negativo, che avvalora la tesi di Sanna Sanna in merito al mancato sviluppo di tale progetto insediativo, è da ricondursi non tanto alla prima esperienza positiva dei tabarchini, pescatori ed agricoltori, quanto a quella successiva di alcune comunità di piemontesi, che pescatori ed agricoltori non lo erano. Infatti, tra l’agosto ed il settembre del 1773, circa 300 piemontesi si stanziavano a Calasetta. Presa dimora in capanne umide e malsane, venivano investiti da un’epidemia di vaiolo che uccise numerosi bambini. In prevalenza artigiani, i piemontesi non avevano alcuna perizia agricola. Iniziarono ad abbandonare la colonia quasi subito dopo il loro arrivo. All’inizio dell’Ottocento non c’era più traccia della loro presenza.

 Un aspetto, pero’, da rivalutare in tal senso e che Sanna Sanna implicitamente riprenderà nel passaggio successivo, e’ che, comunque, tali politiche di ripopolamento erano state strutturate in modo da mirare allo sviluppo di precisi settori produttivi come, nel caso di Carloforte e di Calasetta, della pesca del tonno.

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