IL REGISTA EMANUEL COSSU RACCONTA LA STORIA DEI GENITORI POLIOMIELITICI: ESCE IL SUO PRIMO DOCUMENTARIO “CON LE NOSTRE MANI”

di MARIA GIOVANNA FOSSATI

Due corpi gravemente segnati dalla poliomielite, due vite che si congiungono nonostante un passato di diritti negati e un presente di difficoltà, tra interventi, protesi e sedie a rotelle.

Esistenze che diventano montagne da scalare ma che non impediscono ad Anna Maria Loi 66 anni e Giovanni Cossu 77 – purtroppo recentemente scomparso – quasi quattro decenni fa, di costruire una famiglia, allietata dalla nascita del loro unico figlio, Emanuel di 37 anni.

Dopo la laurea in lettere all’Università di Cagliari, gli studi di Regia cinematografica alla scuola Bande a Part di Barcellona e il Master in Sceneggiatura Cinematografica a Bologna, Emanuel diventa regista e nel suo primo documentario “Con le nostre mani” prodotto da Karel film, racconta la storia dei genitori, che cambiano il paradigma dell’esistenza dei sopravvissuti alla polio, quando, negli anni ’70 e ’80, venivano rinchiusi in istituti e trattati come corpi malati senz’anima.

Anna Maria e Giovanni si conoscono nei primi anni ’80 nella comunità di Sestu, fondata proprio da Giovanni che si occupa dei diritti dei disabili e che fa lavori di sarto e di piccolo artigiano. Si amano, si sposano, e con l’arrivo di Emanuel mettono su casa a Sestu, da dove parte la sfida alla disabilità.

“Non avevo mai intuito la potenza della storia dei miei genitori perché mi hanno sempre fatto passare per normale la loro condizione – spiega Emanuel Cossu -: la nostra casa era aperta a tutti i bambini , mamma preparava manicaretti, babbo ci portava al mare e ci lasciava liberi. E’ stato un collega regista messicano a Barcellona a capirlo e a dirmi: tuo babbo non cammina e fa l’orto, tua madre non cammina e prepara da mangiare a tutti, viaggiano, vanno al mare, ma è una storia fantastica, devi raccontarla”. L’impegno a lavorarci su, arriva dieci anni dopo quando Emanuel vede che con l’avanzare dell’età i suoi genitori perdono autonomia. E lancia la sfida al padre le cui condizioni di salute si stavano aggravando: lo convince a tornare a Bosa suo paese natale che tra emozione e felicità visiterà per l’ultima volta: “E’ stata una piccola ma simbolica battaglia per far tornare babbo a casa sua – rimarca il regista sardo – Per me questo è il motore del film: credere sempre in sé stessi nonostante le difficoltà”.

Nei cinquanta minuti di documentario – presentato al Social Film Festival Artelesia dove ha vinto il premio per la miglior regia – e con l’incalzante ritmo del Bolero di Ravel a fare da colonna sonora, la coppia si racconta in un crescendo di emozioni. “A 12 anni sono stata mandata in collegio a Firenze perché a scuola non mi hanno voluto – afferma Anna Maria in una delle prime scene del film – Lì alle elezioni mi dicevano di pregare che non vincessero i comunisti perché picchiavano le suore, io in cuor mio pregavo che vincessero i comunisti per pestare le suore che pestavano noi. A 18 anni sono uscita e ho conosciuto il mondo”. “Anche io dovevo finire nella Casa Cottolengo di Bosa ma mi sono ribellato – aggiunge Giovanni – Alle elementari per la mia disabilità camminavo ancora come un gatto: un giorno la maestra ha convinto mia madre a non mandarmi più perché spaventavo i bambini. Ma non mi sono mai dato per vinto: ho studiato lavorato e costruito la mia vita nonostante tutto e tutti”.

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