LO SPECCHIO DELLA TRADIZIONE SARDA: LE OPERE DI SALVATORE COMINU A MILANO PER “IL DUOMO INCONTRA L’ARTE”

Salvatore Cominu

di SERGIO PORTAS

Salvatore Cominu, da Allai, (nello stemma del paese, in rima: sopra: tralcio di vite e spighe di grano, sotto in trachite il ponte romano) nel Barigadu di Sardegna, due passi da Fordongianus, non l’avevo più visto dall’esposizione di alcune delle sue opere nel corso della manifestazione: “Il Duomo incontra l’arte”, nella piazza antistante il maestoso monumento marmoreo che, giocoforza, oscura in bellezza ogni altro artefatto esposto dagli artisti presenti, tutto bianco e grigio e rosato com’è di quel marmo di Candoglia che a partire dal 1387 l’allora duca Gian Galeazzo Visconti, faceva arrivare, imbarcato sul fiume Toce, sin sulla piazza maggiore milanese, attraverso il lago Maggiore e il Naviglio Grande. E dirimpetto al Naviglio, in Ripa Ticinese, ha casa Salvatore, al settimo piano di un caseggiato dove  possiede anche cantina e  abbaino, nella prima, accatastate in scatoloni di cartoni anonimi le sue creazioni di una vita, nel sottotetto con vista che spazia sino alle guglie del Duomo, un minuscolo laboratorio sotto il quale c’è l’abitazione, e ambirebbe farci una sorta di botola per unire i due ambienti, mediante una qualche scala a chiocciola disegnata da lui medesimo, e chissà che non ci riesca davvero un giorno o l’altro, perché se c’è una cosa che lo caratterizza in toto è una perenne voglia di fare, di manipolare, di disegnare, di pitturare. E, al piano di sotto pare infatti entrare in un museo di archeo-pittura-scultura: le opere di Salvatore appese a tutte le pareti, sin le piastrelle del bagno dipinte con fenicotteri degli stagni oristanesi, frontoni in ceramica laccata di cavalli che si spingono in un galoppo che ha premio il vento che al primo scompiglia meglio la criniera. E questa è solo la “casa di Milano”. Che in Sardegna, a Tuili, c’è la vera casa-museo, perché lì ha avuto la possibilità di tutto piastrellare, tutto dipingere, persino l’orto e il giardino formano un tutt’uno artistico col resto della casa. Di Tuili, al centro della Giara, quella dei cavallini scuri dal medio garrese, che se ne vanno ad abbeverarsi nei pauli coperti da minuscoli fiorellini, è la moglie di Salvatore, Pierina, la casa è quella che era dei suoi genitori. Purtroppo di questa posso soli dirvi in grazia delle foto che mi mostra Salvatore però, vi assicuro che un’amministrazione un poco più che accorta ne farebbe motivo di vanto e di attrattiva, un po’ come Barcellona fa con le case che il suo grande architetto, Antoni Gaudì, ha costruito per i vari Batliò, Milà, Viciens, (la “Sagrada Familia” è notoriamente una maestosa mai finita casa di Dio). A Tuili, questa “casa Cominu”, se ben sponsorizzata, non sfigurerebbe nel paragone, caratterizzata com’è da una visione di sardità dal gusto tutto particolare, che ha fondamento dalla meraviglia di scorgere le prime cose del mondo da un piccolo paese del centro-Sardegna che nei documenti storici sardi viene citato nella “Ultima Pax Sardiniae” stipulata il 24 gennaio 1388 “Atto solenne di pace tra re Don Giovanni di Aragona ed Eleonora Giudicessa di Arborea”, e anche allora doveva, come oggi, non arrivare ad avere quattrocento abitanti. E’ qui che Salvatore è venuto su, per travagliate esperienze familiari, in casa dei nonni, nella “Grande Guerra”furono tredici i ragazzi di Allai che non tornarono a casa, e allora gli abitanti erano quasi settecento, il nonno di Salvatore ebbe a perenne ricordo di quell’impresa un solco di baionetta sulla fronte e, dopo due anni di prigionia austriaca, degli incubi notturni che lo facevano gridare forte. E svegliavano tutti. Donna di carattere anche la nonna, quando il nipote, scuola d’arte a Oristano, accademia di Brera in quel di Milano, le comunicò che la sua promessa sposa “non era laureata”, lo cacciò di casa (ma dopo fecero pace).

A Brera Salvatore si iscrisse prima a Scenografia, lui che è del ’49 aveva neanche vent’anni, nell’ormai famigerato 68 capì che la Scultura era quell’arte che più gli si addiceva e, come tutti gli studenti, fece la corte alle ragazze che posavano, perlopiù senza veli, nelle aule di disegno. E, come tutti gli studenti, ebbe da loro cortesi ma altrettanto decisi rifiuti. Quattro anni dopo il matrimonio con Pierina che, laurea o non laurea, fece una splendida carriera al Comune di Milano, finendo all’Agenzia delle Entrate e se ne andò in pensione solo quando, in grazia di quel liberismo così ben supportato dai vari Regan e Tatcher anche il Comune si convertì ad appaltare ai privati quelle funzioni pubbliche che, sino a lì, avevano sempre ben funzionato. Mense, sanità, asili, i risultati (pessimi) sono sotto gli occhi di tutti. Cominu intanto girava a supplenze per le scuole (famigerate) di Cinisello, Quarto Oggiaro, sino a che ebbe una cattedra definitiva a Rozzano, era il 1984, intanto erano nate due bimbe, la fortuna questa volta fu di vista acuta, gli fece trovare in dote, come insegnante di laboratorio qual era, un forno installato nel laboratorio di ceramica. Così che potè unire lavoro a creatività artistica e i suoi alunni ebbero la buona fortuna di incontrare un insegnante innamorato della sua materia che a null’altro mirava se non che anche essi se ne invaghissero. Se mi chiedessero per quale tipo d’opera d’arte Salvatore Cominu è unico nel suo genere direi che le sue lampade/fontane a costume sardo, spesso bifronti, maschio e femmina, impreziosite con fregi di legno e ferro, con colori smaltati opachi, sono davvero inconfondibili, c’è ne è una col costume di Orgosolo, un uomo-donna dai colori sgargianti, una con quello di Bono (solo donna), la camicetta candida a piegoline e sulla manica sinistra otto bottoncini argentati, e poteva forse mancare quella col costume di Allai? Di solo cotto di un lucido arancione. Hanno fatto la loro bella figura anche alla Biennale 2019 (presentata da Vittorio Sgarbi). E poi i grandi orologi-calendario sempre in ceramica smaltata, con fregi che rimandano al tempo dei nuraghi, la scritta dei nomi della settimana e dei mesi che varia col variare dei dialetti, da un paese all’altro anche se confinanti.  Una volta vi imbatteste in uno di questi “orologi” non v’è dubbio che sapreste riconoscerli sempre: “è un Cominu”, dallo stile inconfondibile, non c’è bisogno del marchio di fabbrica che lo attesti. Nel laboratorio all’ultimo piano c’è la “produzione corrente”: sopra il tavolo la creta grezza appena manipolata che un pezzo dopo l’altro, per esclusioni di parti asportate dalle dita delle mani, si arrende a mostrare quel cuore che dentro custodiva, non altro che l’idea dell’artista che si svela, anche a se stesso. Le pareti della stanza sono completamente ricoperte da sculture, spesso di piccola dimensione, vi sono dee madri in ceramica bianca, numerosissime e in gran risalto su di un supporto nero smaltato, ognuna nella sua nicchia, ognuna diversa dalla vicina, la natura che si esibisce nelle sue cento e mille varietà di forme. E poi crocifissioni in cotto, ancora orologi policromi, pecore bianche in gasbetto (calcestruzzo aerato in autoclave ndr.) dalla testa nera o rosso vivo, con stampigliate in fronte una bianca colomba, al collo una striscia di cuoio regge un campanellino argentato (ma quelle di grande dimensione sono a Tuili). C’è una macina di grano perfettamente funzionante, presepi d’ogni tipo, maschere puniche in ceramica e vetro fuso. In ceramica bianca i tralci di vite che in fine ricamo ornavano la “camicia della festa” di nonna.

Salvatore è un collezionista delle sue opere, se ne stacca con sofferenza, spesso le regala piuttosto che venderle, in questo periodo di reclusione pandemica si è dedicato in massima parte all’acquarello, formano un vero e proprio libro le stampe che si alternano, coi temi sardi di sempre: la cavalcata di Sedilo, il ballo sardo davanti alla chiesa, i costumi tutti in tinta di bianco e di nero con a sfondo il cotto dei mattoni e il verde delle piante, il cielo azzurro senza nubi. Crocifissioni, sempre coi due ladroni ben in vista, è un periodo che gli vengono così. Quattro cavalli visti di fronte dai colori improbabili, verde smeraldo piuttosto che giallo ocra, ognuno con una mascherina anti-covid con su stampigliata la bandiera dei quattro mori. Tocca dare ragione alla didascalia del libro unico “Salvatore Cominu” produzione artistica, in cui sono esposte parte delle sue opere, che gli hanno stampato e regalato le figlie Simona e Emanuela che dice: “Le opere di Salvatore Cominu sono lo specchio della tradizione sarda, un tributo artistico e affettivo per il proprio paese e per la cultura di questa magica isola”. Che la Sardegna sia opera di magia Salvatore non ha il minimo dubbio, mi mostra i due libri di Stefano Piroddi che narrano della saga di “Sandahlia” in cui lo scrittore cagliaritano (fondatore e direttore editoriale de “La Città degli Dei”) si propone di evocare una epopea del popolo che osò sfidare Roma. Non entro nel merito dei contenuti (la storia romanzata non è nelle mie corde) Salvatore però, oltre che assumerli a “Bibbia del sardismo” ne ha istoriati con i suoi disegni colorati ogni pezzo di foglio bianco che è riuscito a trovavi, facendone così una sorta di libro-miniato, assolutamente originale, che credo l’autore apprezzerebbe con entusiasmo. Due libri unici. Due opere d’arte. Come sono diventate opere d’arte le tombe dei nonni nel cimitero di Allai, la porta in castagno della casa di Tuili, le ceramiche terra-fuoco-acqua alte due metri con sopra uno dei suoi orologi. Non poteva mancare, immerso in pasta di vetro l’orrido ceffo di un diavolo, parente prossimo di quello che l’Arcangelo Gabriele va inchiodando a terra con la lancia nel retablo sito nella chiesa di san Pietro di Tuili. Il magnifico dipinto a tempera e olio su tavola, opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo è stato appena restaurato, la pala d’altare splendente di ori e rossi carminio è alta cinque metri e mezzo e larga tre e cinquanta, datata tardo quattrocento, non ha mai lasciato la chiesa in cui si trova. Vale da solo un viaggio nel paesino della Marmilla (ma Barumini è lì a un tiro di schioppo) e, già che ci siete, un salto a “casa Cominu” diventa davvero irrinunciabile.

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Un commento

  1. Anna Paola Ardu

    Nel paese di Allai ha lasciato anche le stazioni per la Via Crucis in ceramica

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