VITA, OPERE E VERBI: NEL SETTECENTO DI PADRE LUCA CUBEDDU A PATTADA, FRA LAVORO E COMPOSIZIONE

Padre Luca Cubeddu

di MATTEO PORRU

In principio era il verbo e Padre Luca lo sa bene.  Anche quello con cui Cubeddu è cresciuto, fin dall’inizio, era uno: lavorare, perchè a Pattada in pieno Settecento quello serve, e serve pure forza nelle braccia per andare nei campi e pascolare le pecore, anche se sei un bambino.

Poi, però, di verbo ne arriva un altro: comporre.

C’è una vena poetica grossa, viva, nel ragazzino che zappa la terra. Non serve comporre, non ci si mangia, ma raccontando storie in sardo e in rima si stupisce la famiglia, e la madre Maddalena e il padre Gianluca su tutti, e una buona parte del vicinato che nel Settecento, in Sardegna, vuol dire tutto un paese.

Luca non è fatto per zappare la terra. Si vede, si sente e si va dai sacerdoti per capire che fare per valorizzare il talento. C’è solo un modo, solo un verbo: studiare. Alle scuole Pie di Sassari, che sono lontane ma sono la rampa di lancio che merita.

Lì dentro ci passa anni e cresce come studente, come poeta e, soprattutto, come fedele. L’età della svolta sono i sedici anni: nel 1764 inizia a raggiungere la maturità stilistica e annuncia alla famiglia di voler prendere i voti. Diventa sacerdote qualche anno dopo col nome di Guanne Pedru, poi padre scolopio e insegnante di latino nelle scuole degli scolopi del nord e del sud Sardegna.

La sua produzione poetica non fa che aumentare: fra i versi più belli ci sono quelli di “Su cuccu e sa rondine” e “Su leone e s’ainu”, delle favole animali, e quelli di “Confessione e comunione”. Testi eleganti, fini, mai banali, spesso con fini morali e scritti in ottave. Insegnare latino gli porta a riscoprire, e a riscrivere in sardo, gran parte della storia e della letteratura classica, fondando una nuova frontiera della poesia sarda, un’Arcadia isolana con la sua identità e la sua metrica: “Sa congiura iscoberta de sos troianos madamizantes” racconta di una congiura dei troiani e tutto “S’amante e sas deas de parnasu” è ambientato nei salotti delle muse sul Parnaso, per altro luogo dell’arte per eccellenza. La fede invece fa da leitmotiv a “Sa potentia de Deus”, un lungo e sentito cantico scritto in logudorese.

Va tutto bene, anzi benissimo, ma un giorno, nella sua chiesa, viene trovato un cadavere.

Gli occhi di tutti sono puntati su di lui. Sta di fatto che, senza preavviso e senza un motivo apparente, Don Luca lascia i suoi abiti e i suoi oneri da sacerdote. E torna nella Pattada dalla quale è partito tanto tempo prima e nella quale aveva fatto ritorno poche volte e tutte di fretta. Non è una fuga e nemmeno un riparo: è una scelta, un tornare alle origini. Cubeddu passa i suoi giorni a comporre per i pastori, vive in condizioni estreme dentro alcuni ovili, si scrolla di dosso il mondo che ha scelto e seguito per anni. E continua a scrivere e a scrivere molto, anche le emozioni fortissime de “Sos ingannos de su mundu”.

Passano gli anni e gli ultimi sono un ritorno alla fede e alla carità e sono fragili e intensi. Di Don Luca Cubeddu restano tanti dubbi. Come tanti sono i componimenti, le poesie, le opere di bene.

E se in principio era il verbo, lo è anche alla fine.

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