IL LAVORO PER I MEDICI PER I DIRITTI UMANI: ILARIA ONIDA DA GHILARZA, PRIMA TAPPA IN AFRICA E ORA COORDINATRICE IN SICILIA

Ilaria Onida

di LUCIANA PUTZOLU

Partita da Ghilarza nel 2008 per la prima trasferta verso il continente africano, Ilaria Onida ora lavora, come coordinatrice per la Sicilia, di MEDU-Medici per i Diritti Umani.

Studi di pedagogia, ramo etno-antropologico. Negli anni dell’università l’esperienza al carcere minorile di Quartucciu e nel centro Salesiano di Cagliari è stata decisiva: l’incontro con innumerevoli nazionalità di minori è stato folgorante per le idee e i sogni del futuro, per approfondire una strada iniziata già da ragazzina, nelle esperienze associative del Guilcer. La voce di Ilaria è squillante, vibra di entusiasmo, ferma e determinata nel raccontare le motivazioni che la spingono a non fermarsi: mettersi a disposizione del mondo, di ogni persona, soprattutto di quella più sfortunata, dare voce all’ingiustizia, qualsiasi essa sia e trovare mezzi e risorse per alleviare sofferenze di chi ha avuto l’unica sfortuna di nascere in un posto diverso dal nostro.

Dalla Sardegna al mondo intero: ci racconti le tappe del tuo percorso? Dopo la tesi di ricerca a Foz de Iguaçu, al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay, sono partita per l’Angola, dove per circa 10 anni e per due principali organizzazioni umanitarie (UMMI e CUAMM) ho collaborato coi lavoratori locali, le compagnie internazionali e i governi provinciali di derivazione militare. Coi fondi internazionali e le risorse umane autoctone e straniere ho avuto la fortuna di partecipare al processo di ricostruzione di uno dei più grandi Stati subsahariani che usciva martoriato da 35 anni di guerre fratricide, sino a vederne poi di nuovo il tracollo finanziario dato dalle classiche manovre di corruzione, favoreggiamenti illeciti tra potenti e conquiste improprie di beni e capitali pubblici finite in poche mani.

Dopo l’Angola, il Kenya … Sì, in particolare tra i Masai, nelle aree più isolate della Rift Valley del Kenya. Insieme agli abitanti dei villaggi rurali e alle scuole municipali abbiamo lavorato alla prevenzione della malnutrizione scavando pozzi e portando acqua e irrigazione in luoghi irraggiungibili, dove la popolazione sopravviveva a fatica con il poco che offriva la terra. Così, mese dopo mese, le tante scuole beneficiarie ricevevano ortaggi e legumi per la sussistenza degli alunni che accedevano, così, almeno a una razione di pasto giornaliera. Intanto che operavamo subivamo il fascino di una comunità nomade, che dipende dai suoi grandi capi di bestiame, che ne fa merce di scambio e moneta locale (pensate allo scambio di una sposa con 24 buoi che sfamano una famiglia numerosa per mesi, e sappiate che è possibile anche oggi in qualche zona remota del mondo).

Un lavoro, il tuo, senza frontiere… Svolgere questo genere di lavori ti mette in contatto con personalità di tutto il pianeta, puoi collaborare con epidemiologi che si sono formati a Roma, come in Vietnam o in Giappone, pediatri guineani che per praticare sono fuggiti dalle aggressioni di una guerra di frontiera, chirurghi cubani esuli instancabili in continuo stato di malinconia verso la loro patria, e specialisti o volontari di mezza Italia che hanno scelto di operare là dove non si trovavano tutti i vantaggi della sanità pubblica nostrana. E poi ancora fotografi, giornalisti che hanno preso il caffè con personalità del livello di Nelson Mandela. Questa intersezione di figure, nella maggior parte dei casi unite da obiettivi comuni, spogliate di ogni forma di pregiudizio, regala profili molto più elastici di quelli che caratterizzano le persone vissute perennemente in contesti chiusi. Ogni migrazione, professionale o meno, espone qualsiasi uomo di fronte ai propri limiti e impone un confronto con le differenze. Obbliga all’affiancamento col diverso e alle collaborazioni multiculturali insegnando il vantaggio e le potenzialità di un lavoro di squadra.

Da poco hai dato voce, come operatore, alla situazione dei detenuti nel carcere di Ragusa. Quali sono le priorità? Quali progetti associativi potrebbero dare risposte all’ angoscia di quel mondo sommerso e nascosto? MEDU-Medici per i Diritti Umani di Roma, in Sicilia, si occupa di assistenza alle persone più vulnerabili, soprattutto tra le popolazioni migranti che raggiungono le nostre coste in fuga da situazioni estremamente complesse. Insieme allo staff, operativo sin dal 2014, offriamo supporto psicologico, psicoterapico e di medicina psichiatrica alle persone che presentano i segni più eclatanti di sofferenze subìte in mesi e anni di migrazione. Vittime di torture nelle carceri libiche o nelle tratte migratorie del Nord Africa perpetuate da una criminalità organizzata che ha fatto di questa tragedia umanitaria un business economico senza eguali. Tra le persone a cui diamo assistenza ci sono sicuramente anche i detenuti della struttura penitenziaria di Ragusa. Carcere che ospita circa 300 detenuti e che registra un elevato numero di presenze internazionali.

Chi sono i giovani che incontri nel carcere di Ragusa? Quasi tutti i nostri assistiti sono stati prelevati agli sbarchi con l’accusa di scafismo e traffico illecito di esseri umani. Molti di loro non hanno nemmeno ben chiaro il perché della loro incarcerazione. Prima di imbattersi nel viaggio sulle rotte del Mediterraneo non hanno idea di dove approderanno, né di quali insidie (oltre a quelle offerte dal mare) incontreranno. La criminalità organizzata li costringe, pena la loro stessa vita, a trasportare decine e decine di disperati dai porti più conosciuti della Libia, ma anche della Tunisia e dell’Algeria. Quando la navigazione non sfocia in tragedia, una volta intercettati dalle nostre motovedette o dalla guardia costiera, chi stava al timone deve rispondere al fatto che trasportava illegalmente tutti quegli uomini. E chiaramente, la maggior parte delle volte, non capendo cosa gli viene richiesto, si finisce agli arresti perché “colti in flagrante” e inizia un lungo percorso tortuoso ed esasperante. Ed è così che in una notte tanti dei giovani in arrivo in Sicilia, da vittima nelle proprie terre diventano carnefici a casa nostra…

Quale sostegno operate in questa assurda emergenza? Il gruppo di specialisti della mediazione interculturale e dell’intervento psicologico e psicoterapico cerca di prevenire stati di aggressività o di grave depressione, deperimento fisico, alienazione, smarrimento e addirittura, suicidio. Far sentire la nostra presenza è importante per cercare di ridurre le fragilità del singolo, rafforzare le sue sicurezze, aiutarlo a vedere prospettive che sembrano essersi azzerate. Offrire, nonostante tutto, possibilità alternative per chi ha spesso l’impressione di aver perso ogni cosa, di non contare più nulla per il mondo esterno e che non ha modo nemmeno di aggrapparsi all’affetto di un vicino familiare.

Ilaria, un tuo sogno per il futuro? Le sofferenze e le ingiustizie nei confronti di qualsiasi uomo le sento sulla mia pelle: vorrei che questo diventasse il credo di ogni persona di questa terra.

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