DALLA LUNGA GAVETTA ALLA STELLA MICHELIN: LA PASSIONE PER LA CUCINA DI STEFANO DEIDDA IN GIRO PER L’EUROPA

ph: Stefano Deidda

di SIMONE SPADA

Essere figlio d’arte a volte può essere un peso, in altri casi uno sprone. Se oltre ad essere figlio sei anche nipote d’arte, allora il lavoro da compiere per proseguire il buon cammino di famiglia è decisamente di maggiore consistenza. Stefano Deidda si è sollevato le maniche ed ha iniziato a faticare in cucina in giro per l’Europa prima di tornare alla casa madre e compiere un autentico capolavoro: riconquistare quella stella Michelin di cui il nonno Filippo era stato insignito circa cinquant’anni fa. Dal Corsaro è dal 1967 uno dei ristoranti eccellenza della Sardegna, oggi diviso tra bistrot e gourmet attraverso però una cura costante e coerente, che consegna ai clienti dell’una e dell’altra parte il medesimo servizio e la medesima qualità. Stefano Deidda vi è arrivato dopo un apprendistato andando in crescendo, che prosegue ancora tra sperimentazioni, studio infaticabile ed un amore sconfinato per la cucina.

Come ti sei appassionato alla cucina? Stavo facendo un percorso completamente diverso inizialmente: liceo scientifico, giurisprudenza. La cucina ha iniziato a far parte dei miei interessi grazie ai racconti di mia nonna riguardo le vicissitudini del ristorante e i progetti di mio nonno. Mi sono ritrovato a studiare la vita dei grandi cuochi, mi interessava molto oltre che il lato pratico anche la storia di questi uomini che avevano portato la cucina italiana alla sua eccellenza. I miei non volevano assolutamente che facessi questo lavoro. Facemmo un patto: avrei lavorato nel ristorante per un anno e se avessi dimostrato di tenere veramente a questo settore, avrei ricevuto l’occasione di frequentare una accademia di cucina – l’Alma di Gualtiero Marchesi per cui oggi sono docente. Dopo un anno riesco a raggiungere l’accademia e ritrovandomi con colleghi di corso che avevano già più pratica di me, decido di colmare la distanza studiando tantissimo e presentandomi preparato allo stage all’Hotel Savoia di Milano agli ordini di Paola Budel, una delle pupille di Marchesi. All’esame mi classifico primo in tutto il corso, dunque la passione che avevo corrispondeva a verità. La scuola è un punto di partenza: dopo di che vado a lavorare dallo chef Riccardo Camanini nella struttura di Villa Fiordaliso, poi da Claudio Sadler a Milano, Martin Berasetegui a Lasarte (Spagna) e da Antonino Cannavacciuolo. Tutti chef scelti con un preciso intento: ovvero quello di imparare più possibile non solo in cucina ma anche dal punto di vista gestionale e organizzativo di un ristorante. In questo modo ho colmato i miei vuoti di preparazione.

Una volta tornato in Sardegna, cosa succede? Una volta tornato a casa, comincio a portare le mie esperienze anche nel ristorante di famiglia. Inizio a modificare i menù, la cucina del Corsaro: il ristorante aveva bisogno di essere svecchiato, ripulito, mantenendo però le cose positive a livello gestionale. Porto avanti questo discorso per circa 5/6 anni e intervengo in maniera massiva sulla gestione di una brigata, cosa che a mano a mano porta delle soddisfazioni a livello personale che indicano come fosse quella la strada da seguire. Nel frattempo ho continuato a studiare, a fare sperimentazione in cucina, a leggere e imparare nuove tecniche. Nel 2016 è arrivata la stella Michelin,  un coronamento del lavoro fatto, una grande soddisfazione che mi ha convinto ad alzare sempre di più l’asticella.

Come hai reagito quando hai saputo della stella Michelin? Una stella Michelin non arriva per caso, è frutto di un percorso voluto per raggiungere l’obiettivo. È complicatissimo raggiungerla, soprattutto quando ci si ritrova in una realtà piccola come quella della Sardegna. Occorre che il progetto totale si regga, ed è per questo che ad un certo punto ho deciso di fare una scelta ponderata e decisa, dividendo in due il ristorante: da un lato il ristorante gourmet del Corsaro aperto mattina e sera, e dall’altro una cucina più concettuale, più ricercata, aperta solo la sera. In entrambi i casi cerchiamo di mantenere un profilo che sia il più alto possibile, dove possiamo portare avanti due discorsi differenti ma coerenti con l’evoluzione del ristorante e con l’obiettivo di arrivare alla stella. In questo modo, quando l’ispettore arriva (in anonimato), riceve un servizio che è costante per tutti i clienti che gravitano da noi. La conquista della stella è stata molto importante: sono rimasto stordito dalla vittoria, ci vuole un po’ di tempo per capire realmente a cosa si è arrivati e a festeggiare sul serio. Dopo di che ho riorganizzato il lavoro del ristorante, cercando ogni giorno di migliorare sempre di più, alzando progressivamente l’asticella. Anche perché la stella, così come ti è stata riconosciuta può anche essere tolta, non è per sempre.

Carlo Cracco ha perso una stella. Diversi colleghi hanno quasi esultato per questo fatto, tu come hai vissuto e vivi una situazione del genere? Io sono portato ad ammirare chi sa fare, evitando le contrapposizioni. Ho sempre ammirato chi ha un progetto, chi raggiunge gli obiettivi. Chi invidia, si preclude tante possibilità con un atteggiamento negativo. Sicuramente qualcuno, in quel di Milano, avrà goduto. Probabilmente dedicarsi alla televisione e ad altri progetti, come il nuovo ristorante in Galleria a Milano, ha concorso alla perdita, ma Carlo è sempre uno degli chef più presenti in cucina ed ha sempre lavorato tantissimo. Ha raggiunto la sua attuale posizione dopo una vita di sacrifici e di obiettivi raggiunti, che mano a mano si evolvono. Io non sono stato affatto felice di quel che gli è capitato, ma anzi gli auguro di poter tornare a riconquistare la stella. C’è sempre da imparare da uno chef come lui.

Cosa dà e cosa toglie ai ristoranti come il tuo il boom di programmi televisivi? Questi programmi hanno permesso al pubblico a casa di poter entrare dentro le cucine, capire tutto il lavoro e la tensione che ci sono dietro. Ha portato a una presa di coscienza, la gente inizia ad essere informata e sa più di prima cosa gli viene proposto in un menù. Non è più un mondo oscuro, e questo porta i clienti a fare domande: non in maniera arrogante, ma anzi con una curiosità positiva, sana. Chiedono lumi sugli ingredienti, cercano di riprodurre qualcosa a casa. La parte negativa risulta invece in chi si avvicina a questo mondo con l’interesse di lavorarvi, ma con una considerazione ben lontana da tutto il lavoro che in realtà viene fatto. Molte persone pensano di far cucina e ristorazione senza faticare più di tanto, quando in realtà è un lavoro che ti stravolge completamente, soprattutto per quanto riguarda i ritmi di vita. Quindi questo genere di programmi da questo punto di vista hanno distolto l’attenzione su quello che è il lavoro effettivo di un cuoco, che non si occupa solo di cucinare ma anche di pulire, sanificare, rimettere tutto a posto.

Che differenza c’è tra il lavoro in cucina a capo di una brigata e insegnare a qualcuno altro il nocciolo delle tue conoscenze culinarie e storiche? Non sempre c’è una sicura correlazione tra il saper fare e il saper insegnare ciò che si fa. La mia figura sia che in cucina ci siano dieci persone che sei persone, deve essere sempre operativa. Controllo tutte le preparazioni, lavoro al passe, mi avvicino a ciascuna persona che sta lavorando a dargli un consiglio, a spiegargli perché determinate cose vanno fatte in modo piuttosto che in un altro. Più informazioni io passo, più faccio formazione e più i ragazzi che lavorano con me saranno in grado di seguirmi. È molto importante coinvolgerli e cercare di trasmettergli il più possibile, dargli anche gli strumenti per studiare e capire l’eccezionalità di questo lavoro.

Hai degli aneddoti legati alla tua professione e alla tua esperienza legata alla cucina? Ce ne sono davvero tanti, e fanno capire quanto è duro fare questo lavoro. Non sempre basta il percorso accademico per diventare chef, o presentarsi super gasati in una cucina. Ho visto molti ragazzi scappare letteralmente dopo appena due ore di un servizio. Ci vuole anche una buona dose di personalità per reggere la tensione della cucina. Per quanto riguarda me, ti dico che mi sono ritrovato a dormire in uno stanzone nel sottoscala di un ristorante dove ho lavorato assieme ai miei colleghi, non aveva finestre e la situazione era piuttosto assurda. Oppure ho visto situazioni in cui i colleghi hanno provato a sabotarmi in modo da poter emergere più rapidamente rispetto a me. Questo perché? Perché è un mondo difficilissimo e iper competitivo, dove tutti vogliono arrivare. Io ho provato a portare qui un modello completamente diverso, dove il lavoro in team riesce a portare risultati eccellenti solo con una coesione del gruppo e non con una competitività stretta.

Come si nota la tua identità sarda nei piatti che presenti quotidianamente? Non intendo raccontare la Sardegna con la rivisitazione di ricette tradizionali come fanno un po’ tutti, ma ho deciso di guardare il territorio da una prospettiva completamente diversa. Lo racconto attraverso una interpretazione personale delle sue materie prime, sia delle eccellenze che di tutti quei prodotti che il territorio stesso offre. Per farlo bisogna avere un inquadramento geografico e morfologico del territorio, capire il perché vi sia il clima che viviamo e come mai trovi determinati prodotti qua. Poi considero il trascorso storico del territorio, le sue contaminazioni e l’evoluzione sociale. Così ho mappato il territorio, ho capito quali sono tutti i prodotti presenti – tutti senza escluderne manco uno, e poi ho cominciato a lavorare con tutta la tecnica che ho a disposizione per poter mettere in risalto le caratteristiche di un prodotto che vado ad utilizzare e trasformare. Lo modello anche in diverse maniere in modo da esaltarne le diverse caratteristiche anche in uno stesso piatto, così sarà molto ricco nel gusto e nelle sfaccettature.

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