CAPITANO PER SEMPRE: LA VITA IN ROSSOBLU DI DANIELE CONTI

l'addio al calcio di Daniele Conti, al Sant'Elia con i figli


di Gianfranco Murtas

Ci sarà, ed indubbiamente c’è, anche merito di Fabiano Gaggini e Vittorio Sanna, esperti di calcio ed esperti di scrittura, ma l’anima e l’umanità del libro che incroci sfogliando, leggendo, riga per riga, i tondi e i corsivi di La mia vita in rossoblù sono pienamente del suo autore dichiarato, il grande campione Daniele Conti.

Non è un libro spesso, sono poco più di centotrenta pagine tutte agili e potenti, sempre eleganti, come i suoi tocchi di palla, l’esplosione in ogni capitolo di una moralità umana e sportiva che molto può insegnare. Ed è magnifico che lo abbiano incaricato, Daniele Conti, se so bene, delle giovanili del Cagliari. Perché egli è un educatore nato, puro come nello sport tutti dovrebbero essere, anche nel professionismo non soltanto nel dilettantismo, e non sono furbastri calcolatori di egoismo, per colpa forse del denaro tentatore più che d’ogni altro vizio all’angolo, trascinato questo da casa al campo, riportato dal campo a casa.

Per chi è cresciuto nel culto di San Gigi Riva e magari, studente in seconda-terza media, dodici-tredicenne, si gustava, dalle 14 del dopopranzo e forse per un’ora, quei primi allenamenti del Cagliari appena arrivato in serie A, i giri e i tiri degli apostoli – da Greatti a Nenè, da Gallardo – Gallardo! – a Rizzo e Visentin, al Perfetto empatico (come un fratello maggiore), dai centrocampisti ai difensori – Longo il libero e Cera, e Tiddia e Martiradonna e Spinosi, anche Vescovi e Niccolai e Longoni, ancora Colombo fra i pali, poi Mattrel, all’Amsicora col tappeto verde finalmente, allenatore ancora Sandokan Silvestri, e la maglia rossoblù già con lo scudetto, quello dei quattro mori che avrebbe ospitato un giorno i nobili colori della patria italiana.

Memorie ed emozioni che non si perdono, tanto più se il professore di italiano, compagno di ideali di Fernando Pilia, il professore della porta accanto, ti incaricava ogni lunedì di scrivere la cronaca della partita magari come l’avevi vissuta o rivissuta, tu ragazzino senza soldi, non dagli spalti ma dalla radio, di sera un po’ dalla prima tv in bianco e nero, e dall’Informatore ancora a direzione Porru e le firme d’oro di Mario Mossa Pirisino e Franco Brozzu.

Daniele Conti ha quella purezza che aveva il ragazzino chiamato a fare, per il godimento di tutta la classe, la cronaca scritta della partita del Cagliari, ogni bel lunedì che il Cielo mandava a noi dopo averci fatto trepidare la domenica, dopo la messa e i maccheroni del pranzo e qualche partitella innocente giocata sul cemento, prima o dopo il catechismo pomeridiano e il film del cinema parrocchiale. Adolescenza di paese in piena città.

Daniele Conti è come un testimone del meglio che lo sport, e nel caso il calcio, può dare al vivere civile delle persone: perché il talento è valorizzato dalla lealtà verso la maglia, verso i compagni di gioco, verso il pubblico, verso gli avversari, senza gerarchie, perché la lealtà o c’è o non c’è. E’ la fotografia dell’uomo, la lealtà, o scatta sempre o non scatta mai.

Sono ventitré i capitoli di questo bel libro pubblicato, ora sono pochi mesi, dalla arkadia editrice, con la prefazione di Bruno Conti, il padre campione del figlio campione. Anche la nuova generazione nata cagliaritana – Bruno e Manuel, Melody lo vedremo – promette e l’una cosa e l’altra, il talento e la lealtà, il senso di appartenenza – che non è mai cerchio settario e chiuso – e quello dell’onore da portare ovunque, dimostrandolo nelle grandi e nelle piccole cose della vita. Perché appunto la vita in un campo erboso ha come una sua rappresentazione scenica, spalmata tutta per allegorie: il rispetto magno e il tempismo vincitore, la prospettazione e la gestione del momento, lo spirito di sacrificio e la ricerca della collaborazione, dell’intesa, la gioia condivisa e la prontezza della consolazione da ricevere e da dare.

Ogni capitolo è preceduto da qualche riga dei curatori del libro: sono flash di inquadramento del tema trattato, e il racconto di Daniele viene a seguire, come sul lettino dell’analista, o sulla poltrona del salotto, in confidenza con gli amici partecipi delle glorie finali e dell’impegno costruttivo: “Valeria aspettami, ti prendo e ti porto via”, “L’alba è Giallorossa”, “Dall’esordio al gol sotto la Sud”, “All’orizzonte c’è la Sardegna”, “I tormenti del primo anno”, “Compagni di squadra, amici per sempre”, “La rifondazione e la scelta di rimanere”, “L’infortunio sul più bello”… e così, passata la Roma come “il miglior nemico”, “La maglia come una Patria” o, verso la fine, “Il rapporto con gli allenatori”, “L’ultimo ad arrendersi”, “L’epilogo più amaro e le lacrime sotto la Nord”…

Sono molte le pagine di questo libro che più hanno costretto il lettore ad indugiare e riflettere e godere di tanta trasparente valentia dell’animo del campione, taluna della vita privata, talaltra della vita sportiva e di club. Le memorie di lui bambino in una Toyota sbarcata al porto di Cagliari nel 1982, direzione Villasimius, e quindici persone a bordo, quelle del trasferimento nell’isola non per un passaggio di carriera – anche se questo poteva essere – ma con una premonizione di ininterrotta continuità per nuovi innesti di sardità che saranno fecondi (Conti resterà Conti, senza rideclinarsi in Contu, e peraltro ne abbiamo già, e tutti d’oro e ricettivi, di Conti, tanto più nella storia novecentesca, civile e professionale, di Sassari città sorella della capitale, rossoblù pure essa); dal senso da dare ai gol o dai sentimenti da accompagno ai gol – quanti gol per un centrocampista! – alla fatica, ma soprattutto alla determinazione, di costruirsi una storia tutta sua, affrancata dal mito paterno, finalmente liberata dalla ipoteca scema e fasulla del raccomandato. Confessioni toccanti, del campione, come quelle di pagina 50 e pagina 51, riferite agli infortuni (dolorosi e ingiusti sempre), alla complessità della ripresa, all’insuccesso del nuovo tocco di palla, alle sconfitte quasi previste, ai fischi, odiosissimi fischi ad un generoso comunque, oltre che talentuoso ché tale rimane sempre, magari in pectore, anche quando la cosa non gira.

La generosità di Daniele la vedi e la tocchi anche quando ha da commentare i limiti e i vizi di questo o di quello, di coloro cioè che tu, per quanto ne sappia, non stimi. A me capita per Cellino, che mi pare insopportabile padrone. Vero è che ciascuno conosce l’altro sempre e solo parzialmente, ma magari certe volgarità in bocca a un dirigente sportivo possono sembrare un abominio, tanto più se si pensa ai minori, bambini e ragazzi che osservano e forse male imparano. Così per la superstizione che pur tanto affascina anche preti e vescovi tifosi più che sportivi, a Cagliari.

Sono da manuale le riflessioni relative all’assunzione della fascia da capitano, ai modelli rivissuti quando è lui alla prova, alla figura di Matteo Villa, gran signore nello stadio di Cagliari e in città. Ma forse sono le pagine dedicate alla sua famiglia, alla moglie e ai tre figli, e quelle dedicate agli amici maggiori dello spogliatoio – Agostini, Lopez, Carrus e Pisano – quelle in cui trovi poesia allo stato puro. Di grande autore. Autore e regista, e bravi, bravissimi Gaggini e Sanna ad interpretarne il vocabolario intimo, educato, signorile, puro – valga ancora questo aggettivo così poco utilizzato – ed a portarlo sulla pagina.

Sono magnifiche anche le pagine sulla “partita d’addio al Sant’Elia”. Ritrovi per l’ennesima volta,con vibrazioni liriche, il sentimento d’un giovane uomo che vive il sé nella socialità della città che l’ha adottato perché essa stessa si è sentita rispettata con un surplus di lealtà – sempre la lealtà! – ed amata. Come avviene nei grandi amori, sempre. San Gigi Riva ce lo ha insegnato, ce lo hanno insegnato Tomasini e Poli, Reginato e Brugnera e Greatti, e quanti altri abbiamo incrociato tutte le mattine come Martiradonna, uomo semplice e buono e sfortunato, e altri ancora delle stagioni del Cagliari postscudetto e conducono le scuole-calcio dei bambini.

Cagliari e “il” Cagliari per la Sardegna

La squadra del Cagliari come squadra della Sardegna, ecco un altro passaggio che sovente s’affaccia, discreto, nelle confidenze di Daniele Conti il campione-capitano. Perché, ormai e sempre più, ogni cittadino sardo è cittadino anche cagliaritano, nella esperienza di vita e nel sentimento portatore di una identità arricchita, non alterata o peggio adulterata, quella intoccabile del proprio paese, che risponde alle proprie radici, e quella del capoluogo accogliente, che risponde alle proprie fronde. Ed è responsabilità, questa, per Cagliari. Sempre più citta-regione, come un tempo si diceva. Che è amica, è sorella, di Nuoro e di Sassari,senza borie di nessun genere: Cagliari non è e non può essere mai municipio concorrente od avversario di alcun altro nell’Isola.

Gigi Riva ha ricordato qualche volta quella certa confidenza di Mesina che, al tempo della latitanza barbaricina, ascoltava dal suo transistor la radiocronaca delle partitedel Cagliari, press’a poco negli anni dello scudetto, o poco prima. Lo sport può avvicinare i diversi, pacificare perfino banditi e carabinieri per un’ora e mezza, il tempo di una partita ben giocata potrebbe suscitare buoni pensieri. E di club intitolati al Cagliari e ai suoi campioni che ne sono un po’ in tutta l’Isola e anche nei circoli dei nostri emigrati i quattro mori e la fascia rossoblù cementano la fraternità, consolano ed energizzano…

Noi cagliaritani sostenitori della Dinamo come un tempo del Brill o dell’Olympia, ammiratori della Torres femminile e del Suelli hockey femminile, pronti all’applauso per ogni prova di valore delle polisportive di Alghero e Serramanna, Nuoro e Oristano od Iglesias e Carbonia ed Olbia, noi tutti che amiamo Fabio Aru villacidrese orgoglio regionale e del bel ciclismo mondiale, i sardi tutti amanti del Cagliari quando sa dribblare le tentazioni della omologazione mercantile e mercenaria di certo sport e sa preservare anche al professionismo, qui alla prova, l’indissolubile nesso con la lealtà del confronto e della complicità (virtuosa) con il suo pubblico.E quando, aggiungo, ha una dirigenza tecnica ed una dirigenza societaria che credono esse per prime, e testimoniano, che il tifo senza sportività è come un capitello senza colonna.

“Il Sant’Elia era pieno. Ho cercato di guardare ogni volto per “fermarne” quanti più possibile nella memoria. Avrei stretto sedicimila mani e ringraziato anche quelle 120mila persone che, seppur attraverso uno schermo tv, erano lì con me. Quel calore ha incendiato il mio cuore. Ho provato gioia, emozione, gratitudine. Tutte quelle persone per me. Ad applaudirmi. E io ad applaudire loro. La mia storia con il Cagliari il giorno del “Conti Day” è diventata eterna…”. Questo dice Daniele, l’uomo dei record di presenze con la maglia rossoblù, l’uomo che siavvicina a San Gigi Riva con la timidezza di preadolescente. “Pur abitando nella stessa nella stessa città, quando ancora giocavo, ci siamo incontrati soltanto due volte, per caso, e quasi non riuscivo a spiccicare parola per l’emozione. Sino a quella cena, organizzata a casa di un amico. All’inizio mi sembrava di avere davanti un santo. Eravamo seduti uno accanto all’altro, incredibile, io e Gigi Riva. E’ nata subito una sintonia. E, una volta rotto il ghiaccio, non abbiamo smesso un attimo di parlare. E’ stata una serata indimenticabile”.

Ventuno istantanee (una sola in bianco e nero) nella galleria fotografica su carta patinata e dopo la prima sezione la seconda, un focus ogni campionato giocato a Cagliari e col Cagliari, dalla stagione 1999-2000 a quella 2014-2015, dopo un antefatto, fra il 1996 ed il 1999, nelle giovanili della Roma e in prima squadra. Con il consuntivo ultimocostruito, mattone dopo mattone, da noi: 464 gare e 51 reti fra campionato e Coppa Italia; vertice forse anche di ammonizioni – 176 – ed espulsioni – 6.

Credo che fra cento anni, alle contabilizzazioni del paradiso, ammonizioni ed espulsioni, cartellini gialli e cartellini rossi varranno a Daniele Conti qualche premio supplementare: non credo proprio, non lo potrei credere, che in alcun episodio di contrasto o tensione con avversari od arbitro, vi sia stato calo di lealtà. Impossibile, matematicamente impossibile. “Giuro su quello che ho di più caro: non ho sputato a Bierhoff… Continuavano ad accusarmi… E’ vero, con Bierhoff ci siamo stuzzicati e mandati a quel paese di malo modo, in continuazione. Ma lo sputo no, è un gesto che non ha mai fatto parte di me… Ma lui disse che l’avevo sputato e l’arbitro mi cacciò senza nemmeno chiedermi se fosse vero…”. (Anche a me, una volta, in tribunale, non fu chiesto neppure come mi chiamassi, e il gip mi rinviò a giudizio, mentre l’avvocato Delogu si rifiutò di prendermi in carico, essendomi presentato senza protezione legale. Conosco l’umiliazione).

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