LA CURA SECONDO LO SCRITTORE FRANCESCO ABATE? SCRIVERE, LEGGERE E IMPARARE AD ASCOLTARE

ph: Francesco Abate


di Guido Garau

Francesco Abate, per gli amici Frisco, è un giornalista e uno scrittore affermato. Dieci romanzi fin qui pubblicati – due con Massimo Carlotto, uno con l’attore Valerio Mastandrea – per le case editrici Castelvecchi, Il Maestrale, Frassinelli ed Einaudi. E’ letto e tradotto in Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Grecia. L’ultima fatica, “Mia madre e altre catastrofi”, Einaudi Stile libero (pagine 168, euro 16). “Mette in scena – spiega lo scrittore – una giocosa dialettica tra madre e figlio, una serie di dialoghi che raccontano una vita intera, attraverso il rapporto sentimentale tra un figlio e la madre, dall’infanzia alla maturità”. E’ una storia autobiografica, non sempre ma quasi sempre: perché Frisco non ha paura di mettersi a nudo, di confessare le proprie paure, né delle parole quando raccontano la sofferenza. Anzi, parte proprio dal vissuto, dalle sue piaghe profonde, per trovare quella che i filosofi chiamano eudemonologia: la via d’uscita verso la felicità attraverso la confessione, il logos, l’ironia. Il dialogo schietto con i suoi (fedelissimi) lettori.

Francesco, parliamo di infelicità. Nei tuoi libri la racconti, la analizzi, la spieghi per poi sconfiggerla, in un percorso di rinascita catartica. Cos’è, l’infelicità? “La vita è fatta di momenti di difficoltà. L’infelicità è intrinseca nella nostra natura: può essere determinata da uno stato di salute, da una situazione economica o lavorativa sfavorevole, da una circostanza sentimentale. Spesso ci troviamo in uno stato di sofferenza. In questo orizzonte, per così dire, ci sono due modi per reagire: uno tramite la forza, l’altro attraverso il disincanto. Io spesso utilizzo la chiave dell’ironia per superare le prove: ho avuto modo di constatare che è il vero, grande antidoto contro il grande male di vivere. Ad ogni modo faccio mio questo motto: c’è un giorno per abbattersi, inevitabilmente, ma c’è anche un giorno per reagire”.  

Dicono che la scrittura abbia una funzione liberatoria. Quanto cambia, comunicare il proprio malessere? La scrittura cambia tutto: mettere nero su bianco la tua vita, le tue impressioni, ti costringe innanzitutto a fare i conti con te stesso. Siete in due, chi scrive e il te stesso nascosto, e bisogna fare in modo di non mentire l’uno all’altro. Poi ci sono i lettori: con loro si inizia un “dialogo” che ha un doppio valore: quello di permetterti di capirti meglio, di lavorare introspettivamente in modo chiaro e quello di condividere un pensiero, uno stato d’animo: magari mandando un SOS, un messaggio velato”.

Per questo molte persone sofferenti mettono in pubblico, attraverso blog o siti Internet, la propria condizione? “Indubbiamente sì. Scrivere, comunicare, dialogare, condividere, diventano una “cura” in senso esistenziale. Sentire “la cura” degli altri, sentirne il calore, la vicinanza, può diventare l’arma in più per uscire da situazioni buie e a volte impossibili. Purtroppo a volte si confonde questo bisogno con l’egocentrismo o addirittura si vedono dietro queste attività delle improbabili azioni mirate a far business. Ma dietro c’è altro, c’è una necessità, un desiderio e un bisogno”.

Perché i giovani, che avrebbero bisogno di “cure” esistenziali, spesso curano il corpo, l’automobile, il vestito, in definitiva la forma e quasi mai l’anima? “I giovani leggono poco, è vero. Però non tutti. Mi piace pensare ai numerosissimi ragazzi che leggono, che scrivono, che spesso mi scrivono e mi contattano, che riflettono e affrontano problemi, individuali e sociali, oppure paure. Loro lo sanno, quanto è importante la cura dello spirito. Ma anche gli altri lo intuiscono, ma spesso non trovano gli strumenti giusti per essere coinvolti”. 

Quanto influisce sulla felicità il luogo in cui si vive? “Tantissimo. Io ho avuto la fortuna di nascere e vivere in un’isola fantastica, un paradiso che è la Sardegna. Essere isolati è forse la vera fortuna, e sai perché? Perché quel mare, che ci inibisce l’orizzonte, ci obbliga a costruire ponti, anzi, meglio: a fabbricarci delle catapulte. Strumenti mentali che ci permettano di immaginare l’altrove, di sognarlo, di desiderarlo, per poi andare a conoscerlo. E finalmente, solo dopo questo percorso, di tornare a casa”. 

http://www.sardegnamedicina.it/

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