COLOR AMARANTO: ABDIR ISSAK, IL SOMALO “MANNU E LANGIU”


di Alberto Mario DeLogu

Abdir Issak era mannu e langiu, lungo e magro come tutti i somali. Non ho mai saputo che età avesse, avrà avuto tra i venti e i venticinque anni ma si muoveva come un anziano. Quando gli chiedevamo che cosa ci avrebbe preparato da mangiare il giorno dopo, finiva il menù con “…inshallah”.

“Abdir Issak, che cosa ci fai domani?

“Pollo in padella con capperi e datteri e poi insalata verde, inshallah”.

Con Abdir Issak parlavamo in inglese, tutti i giovani somali della sua età negli anni novanta parlano un po’ d’inglese per via degli americani di Restore Hope, mentre l’italiano lo parlano solo quelli che hanno più di quarant’anni e hanno frequentato le scuole italiane ai tempi di Siad Barre.

Abdir Issak arriva a metà mattina, lo sento nella saletta da pranzo che chiacchiera con il logista Gaetano, torinese. Non m’interessa quel che dicono perché sto male, ho quaranta di febbre, nausea e diarree continue, ho perso una decina di chili e ho molta paura.

Il medico Franco, bresciano convertito all’islam, mi guarda e mi dice: “Non ho capito che cacchio hai. Malaria no, tifo no, colera no, febbre gialla no… Se è un virus, spera solo che il tuo organismo se ne liberi prima che il virus si liberi di lui.”

Gli chiedo di portarmi all’ospedale. Mi risponde: “Vuoi morire? Se vuoi morire ti ci porto.”

Stamane, mi racconta, sono arrivati in ospedale tre fratelli disidratati, erano lì lì per tirare il calzino (dice così), venivano su da Ufeyn a piedi, li ha raccolti una camionetta di militari britannici e li ha portati qui, hanno raccontato di essere partiti insieme alla madre, poi la madre non ce l’ha fatta e l’hanno dovuta abbandonare.

“Come, l’hanno dovuta abbandonare?”

“L’hanno abbandonata lì, ai corvi. Che cosa dovevano fare, restare a morire insieme a lei? Scavarle una fossa in mezzo al deserto sotto il sole a picco?”

Non mi fa bene sentire queste cose, mi ritorna il crampo allo stomaco. Le donne che si occupano della casa scivolano via silenziose, cambiano le lenzuola quando io vado in bagno, cioè ogni mezzora, entrano ed escono come soavi fantasmi.

Se in casa ci siamo solo noi italiani si levano dalla testa lo shash, lo scialle colorato, e lo lasciano cadere sulle spalle mentre fanno le faccende. Se entra un somalo in fretta e furia si rimettono lo shash sui capelli. Se siamo noi a veder arrivare il somalo prima di loro, accorriamo ad avvertirle. Gaetano è particolarmente bravo ad avvertirle per tempo e con discrezione.

Le donne somale hanno occhi vivaci con pupille d’olio nero. Vedono tutto quel che succede attorno a loro e sanno sorridere di un sorriso lieve e complice. Non si fermano un attimo, sono sempre indaffarate e camminano veloci come se scivolassero.

Gli uomini somali hanno l’aria tonta e pigra, all’aperto sono intenti a sorreggere i muri e masticare khat, in casa stramazzano sulle sedie e fissano il vuoto.

Abdir Issak no, lui è uno che lavora ed è curioso e intelligente come una donna somala, ma questo non glielo dico per non offenderlo.

Mi chiede: “Tu vuoi tornare in Italia?”. Gli rispondo di sì e lui mi chiede perché.

Mi manca un po’ il fiato ma cerco di comporre una risposta: “Perché piove, scende acqua pulita dal cielo e si formano pozzanghere per terra. Perché puoi girare per strada a piedi e se giri in macchina non devi tenere il kalashnikov sotto il sedile. Perché ci sono negozi dove si vendono delle cose, e ce n’è tante, tante che non puoi immaginare. Perché sei libero di andare dove vuoi, e non devi avere paura di girare da solo per le strade, neanche se sei una donna. Perché se stai male ti curano, e se hai fame trovi da mangiare.”

Ci pensa un po’ e mi dice: “Solo per queste cose vuoi tornare?”

Poi ci ripensa e mi chiede: “Dimmi la verità, che cosa c’è in Italia che qui non c’è? Che cosa c’è di tanto bello che tu voglia andartene da qui?”

Non ce la faccio a rispondere, riesco solo a sorridere.

Torno in camera e prendo in mano il libretto color amaranto che tengo sul comodino, lo friziono tra le dita e mi dico che se in questo paese non ci lascerò le penne come centinaia d’altri ogni santo giorno qui a Bosaaso, sarà solo grazie a quel libretto.

E non riuscirò mai a capire che cosa ho fatto di bene in questa o in un’altra vita precedente per meritarmelo.

A mezzogiorno parte la preghiera, ormai anche qui funziona a megafoni, come a Ittiri quando negli anni ’70 zittirono la vecchia campana e inaugurarono lo scampanìo elettronico, una bruttura che non ho mai digerito, ed ora rieccola qui. La differenza è che questa è la voce vera del muezzin, dopo un po’ concilia il sonno, peccato che gli orari siano quelli sbagliati: non si va a dormire a mezzogiorno, alle sei di pomeriggio o a mezzanotte, troppo presto o troppo tardi.

Tranne che per me, che passo le giornate a letto e guardo l’armadio in fondo alla stanza, poi le cortine di lino alle finestre, poi la porta del bagno, e poi di nuovo l’armadio, le finestre e così via tutto il giorno, e mi chiedo se dovrei convertirmi anch’io, e se questo possa avere effetti positivi sulla mia guarigione, oppure se debba solo dormire e lasciare che tutto passi, e che mia madre e mio padre in Italia si struggano pure, tanto a che serve, se me la caverò non sarà certo per il loro struggimento.

Sarà invece piuttosto per la Coca-Cola, che arriva in lattine prodotte inYemen con la scritta in arabo. La Coca Cola contiene sali che non fanno vomitare come quelli di reidratazione che mi chiede di bere Franco, contiene caffeina che tira su, contiene acido fosforico che ripulisce il tubo digerente e contiene zucchero che nutre. Chi l’avrebbe mai detto, una robaccia come quella che finisce per salvarmi la vita?

Preghiera dopo preghiera, notte equinoziale dopo giorno equinoziale, piano piano anche la febbre si abbassa, ma mi sento ancora uno straccio e vomito al primo odore di cibo. Ha voglia Abdir Issak di chiedermi se può farmi un brodino. “Un brodino di che?”

“Di capra”, mi fa lui.

“Lascia perdere” riesco appena a rispondere e torno in camera.

ECHO sta per European Community Humanitarian Operations. È l’unico barlume di servizio aereo continuo e affidabile in Africa centrale, soprattutto in certe zone di guerra. In quegli anni collegava Nairobi con Gibuti, e da Gibuti faceva una spola circolare con tappe a Berbera, Hargeisa, Garowe e Bosaaso.

Il volo che avrebbe dovuto riportare a Nairobi questo cencio con tutti i suoi cenci in valigia partiva quella mattina. Mi ero svegliato presto, persino prima del muezzin. Alle nove abbiamo cominciato a chiamare sul canale dell’aeroporto internazionale Bender-Qassim di Bosaaso, una striscia in terra battuta con una vecchia Fiat Campagnola a fare da torre di controllo.

Niente radar né ILS, atterraggio a vista previo passaggio a volo radente per fare allontanare cammelli e capre dalla pista.

“Peace Corps compound to Bender-Qassim ATC, please confirm ECHO flight ETA”

Peace Corps è l’agenzia di aiuto e cooperazione internazionale americana che ci ospita, ATC significa torre di controllo ed ETA è gergo portuale e sta per orario previsto d’arrivo.

Dopo un’ora la radio gracchia: “Bender-Qassim ATC to Peace Corps, Echo flight number five ETA eleven hundred hours inshallah”

E va bene, se Dio vuole partiamo alle undici.

La camionetta passa per strade sterrate, vicino a cumuli di pietre che indicano case da costruire, altri che indicano sepolture comuni del tempo della guerra, e pochi metri più in là i pozzi per l’acqua. Ecco, mi sarò preso una salmonella.

Ma adesso ormai chi se ne frega. La nausea si fa più intensa. I miliziani all’ingresso della striscia di terra battuta vogliono il mio passaporto, ma col cavolo che glielo lascio in mano: glielo mostro con la destra e con la sinistra gli tengo lontana la mano che lo vuole toccare. Anche gli altri fanno così. Franco non parte, mi accompagna e basta.

Ha detto ad Abdir Issak di venire con noi, sedersi davanti e mettersi il mitra in mezzo alle gambe, quello stesso mitra che mi ha insegnato ad armare col doppio caricatore a banana legato con lo scotch per pacchi, quello stesso mitra che teneva in spalla quando andavamo in spiaggia a giocare a pallone, e io ogni tanto gli chiedevo: “Abdir, ma lo tieni locked (con la sicura) o no? Se è locked tanto vale che lo lasci per terra, e se non è locked non mi sento tranquillo a giocare a calcio con te”, ma Abdir Issak alzava la mano, diceva “It’s ok, it’s ok” e continuava a correre con quell’arnese a tracolla.

Echo 5 lascia la terra battuta della spiaggia di Bosaaso e punta a sud.

Quando passa davanti alla testata della pista vedo Abdir Issak insieme a Franco e Gaetano che mi salutano.

Arrivederci a chissà quando, amici cari, e grazie a tutti e tre per avermi aiutato a tirar via la pelle dal Corno d’Africa.

Su queste caffettiere si balla peggio che al luna park, quindi le due ore di volo fino a Gibuti sono un’unica ininterrotta deglutizione per cercare di bloccare i conati.

Notte a Gibuti e poi la mattina dopo altre tre ore di scuotimenti per aria fino a Nairobi. Qui una collega mi dice: ti porto all’ospedale? Un’altra mi dice: no, meglio che te ne vai.

Sì, meglio che me ne vado, portatemi al Kenyatta.

Il Kenyatta doveva essere bello quando l’hanno costruito gli italiani trent’anni fa, oggi cade a pezzi. Ma chi se ne frega.

Il grande uccello bianco con una striscia verde orizzontale e la coda tricolore è parcheggiato in fondo al piazzale. Faccio un biglietto a tutti i costi, e infatti finisce per costarmi un bel po’. Voglio salire su quell’aereo, dico, non ci sono santi, sto male.

Al banco biglietteria sto per accasciarmi, ma sento quattro braccia che mi tengono. Sono due suore cattoliche, l’acciaio di quelle braccia è niente in confronto a quello dei cuori. Sono le ultime colonne di ogni casa che crolla, le prime a soccorrere, le ultime a scappare. Vedono Dio in ogni miserabile criminale senza Dio che cammina per strada, e chissà forse adesso vedono un fratello in questo pallido cencio che accompagnano fino al grande uccello bianco.

Prendo un posto corridoio e mi adagio sullo schienale. Il comandante ci saluta in italiano. Mi sento già meglio.

Tiro fuori dalla tasca il passaporto color amaranto e lo guardo. E lo ringrazio. Eppure ancora non ho capito perché a me sì, e a loro no.

Che cosa ho fatto per meritare di cavarmela quando dappertutto qui sotto e qui attorno si muore come moscerini sul fuoco?

La voce del comandante è rotonda e rassicurante. Anche lui oggi tornerà a casa. Anche lui, ci scommetto, avrà in tasca quel bel libretto color amaranto.

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