IN VIAGGIO TRA I PROGRESSI DI RICERCA E CURA: IL PROFESSOR ALBERTO CAULI SVELA LA “NUOVA REUMATOLOGIA”

il professor Alberto Cauli


di Francesca Cardia

All’inizio arrivano in silenzio. Spesso subdole e insidiose, le malattie reumatiche aggrediscono la cartilagine e i tessuti vicini senza dare grandi segnali. Il primo campanello d’allarme arriva con il dolore alle articolazioni e con difficoltà di movimento, quello che i medici definiscono “deficit di funzione”, che porta al deterioramento capacità lavorative e della qualità di vita quotidiana. Il dolore è un sintomo molto frequente e spesso è il motivo che spinge il paziente ad andare dal medico. “Le malattie reumatiche sono numerose, hanno un comune denominatore che è l’interessamento dell’apparato locomotore e sono a carattere sistemico, perché interessano tutti gli organi”, spiega Alberto Cauli, professore associato dell’unità di Reumatologia dell’Università degli Studi di Cagliari, Policlinico di Monserrato, diretta da Alessandro Mathieu. Se non curate, possono portare danni all’organismo e far arrivare progressivamente all’invalidità. Per questo è importante la diagnosi precoce. Le patologie reumatiche sono un universo molto vario. “Provando a riordinare le principali per grandi categorie si possono distinguere malattie reumatiche sistemiche: le connettiviti che comprendono illupus eritematoso sistemico, la sclerosi sistemica,  le vasculiti, le miositi, connettiviti indifferenziate e quelle in overlap, con dei quadri che un po’ si sovrappongono. Poi ci sono le artriti primarie: artrite reumatoide, artrite psoriasica, che sono tra le più frequenti, la spondilite anchilosante e le spondiloartriti  associate a malattie infiammatorie intestinali. E ancora le malattie dell’osso come l’osteoporosi, quelle da microcristalli come la gotta. Quelle degenerative come l’osteoartrosi, poi i reumatismi extraarticolari, tendiniti, borsiti e la sindrome fibromialgica. Le artriti sono più frequenti delle connettiviti. Le artriti croniche, reumatoide, psoriasica, nell’insieme colpiscono tra l’1 e il  2 per cento della popolazione, pertanto possiamo stimare in circa 30mila le persone con artriti croniche in Sardegna”. Molto spesso l’esordio della malattia non coincide con una estrinsecazione clinica completa. “Non è che la malattia mette tutto sul tavolo subito, sintomi, segni. Spesso i quadri clinici, soprattutto all’inizio, non sono chiarissimi, non facilmente identificabili in occasione della prima visita. Il primo sintomo può essere semplicemente una febbre. Non sempre i malati hanno la fortuna di incrociare subito il reumatologo. Alcuni casi sono chiari fin dall’esordio, altri necessitano di maggior tempo affinché la malattia possa fornire un quadro conclamato e si affacci completamente”. L’obiettivo è sempre una diagnosi precoce. “Prima si fa la diagnosi, prima si inizia la terapia e prima si agisce per limitare i danni”. Negli ultimi anni sono emersi due grandi elementi uno a livello di ricerca, l’altro a livello clinico. “Prima di tutto bisogna mettere in evidenza i progressi nella conoscenza dei meccanismi che determinano la malattia”, precisa Cauli. “Un passo avanti importantissimo che ha permesso l’individuazione di processi e sostanze che producono infiammazione da contrastare grazie ai farmaci di nuova generazione. Conoscendo meglio la malattia e i meccanismi che ne stanno alla base è stato più semplice progettare farmaci specifici.  Questo è stato il breakthrough, la svolta iniziata alla fine degli anni Novanta e proseguita negli anni Duemila, con farmaci dagli effetti benefici importanti ed effetti collaterali controllabili e pienamente gestibili”. Dal punto di vista clinico, i progressi nella gestione del paziente hanno determinato una diagnosi più precoce, dovuta alla più specifica formazione dei Medici dopo che la Reumatologia negli anni ’80 è entrata tra gli insegnamenti fondamentali del corso di laurea. Diagnosi precoce che porta a una terapia precoce con un vantaggio nella evolutività: meno danni organici, meno disabilità, meno dolore, migliore qualità di vita. “Poi c’è quello che in inglese viene definito treat to target, trattamento per obiettivo. Sin dall’inizio abbiamo un obiettivo ambizioso: non ci accontentiamo che il paziente stia bene ma puntiamo a una remissione della patologia controllandola al cento per cento, impostando la terapia con dosaggi pieni, farmaci in associazione, cercando di vedere il paziente a intervalli brevi e regolari. In questo modo la terapia può essere modulata strada facendo. Agire precocemente in maniera aggressiva: prima non avevamo le armi, oggi grazie ad un armamentario terapeutico di grande livello, mettiamo in campo tutte le capacità di contrasto alla malattia”. Per quanto riguarda l’esordio, il picco si ha tra i giovani-adulti in età fertile, anche se ci sono delle forme pediatriche e anche dell’anziano. Alcune , come le Connettiviti,  sono più frequenti nelle donne in età fertile. “Talvolta per una malattia reumatica che si manifesta nell’anziano bisogna stare attenti perché può essere una forma paraneoplastica.  Inoltre, se una malattia infiammatoria non viene trattata il paziente andrà più facilmente incontro a una patologia cardiovascolare e avrà una durata di vita inferiore proprio per le complicanze. A volte il paziente per paura degli effetti collaterali dei farmaci si cura poco, ma in questo modo sta perdendo opportunità irripetibili perché l’infiammazione agisce su diversi apparati come quello cardiovascolare e danneggia altri organi”.  Le terapie vengono adattate al paziente in relazione a sesso, età, esigenze di vita. I passi avanti della ricerca, i farmaci di nuova generazione e la formazione degli studenti di Medicina, hanno segnato la nuova faccia della Reumatologia italiana che, nel corso degli ultimi venti anni, ha subito una trasformazione epocale. Dalla fine degli anni Novanta, la disciplina ha modificato prospettive e qualità di vita, grazie alla tecnologia che ha permesso la produzione di farmaci nuovi, molto costosi, ma che alla fine permettono di risparmiare. Meno invalidità, meno assenze dal lavoro, più produttività, meno ricoveri, nella stragrande maggioranza dei casi i medicinali di nuova generazione assicurano ai pazienti una vita normale. E poi c’è la “scuola cagliaritana”. “La Reumatologia di Cagliari ha una tradizione che deriva dalla  prestigiosa “scuola” della clinica Aresu, fondata dal professor Carcassi proseguita col professor Perpignano e quindi col professor Mathieu. C’è un’eredità lasciata da professionisti di livello, un lavoro che ha lasciato il segno a livello nazionale e internazionale”. Un marchio di fabbrica che funge da attrattore per studenti sardi e non solo. In Sardegna ci sono due importanti centri di riferimento, due sedi di scuola nelle AOU, a Cagliari, diretta da Alessandro Mathieu  e a Sassari da Giuseppe Passiu. Strutture complesse con posti letto, ambulatori e day hospital. “Ma quello che distingue l’Isola è una rete territoriale di qualità”, assicura ancora Cauli.” In tanti ambulatori esiste il reumatologo, cosa che non si trova  in altre regioni italiane, che sono messe molto peggio. In questi anni il ruolo del Reumatologo si è affermato e nostri ex allievi si sono specializzati e hanno avuto incarichi definitivi nelle Asl.  Tanti nuovi medici che adesso sono molto più preparati. Il motivo è semplice: l’esame prima era un complementare e ora è obbligatorio, perché la reumatologia ha assunto importanza come disciplina a sé. Adesso gli studenti sanno quali sono tutte le malattie reumatiche e fanno anche il tirocinio in reparto con i pazienti”. Medico di base e poliambulatorio, poi i centri, Cagliari per il sud e Sassari per il Nord Sardegna. Se la rete funziona bene, l’invio riesce ad essere congruo e si evita di intasare gli ospedali con i casi meno impegnativi. “Il medico di base che individua un paziente con una patologia reumatica può riferire con competenza agli specialisti del territorio. Se, invece, individua patologie più gravi, come connettiviti o artriti primarie con complicazioni che necessitano di ospedalizzazione  e  farmaci molto complessi, meno man
eggevoli e spesso molto costosi, interverranno i centri di riferimento”.

* http://www.sardegnamedicina.it/

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Un commento

  1. Dottooo se dovesse studiare me avrebbe lavoro per anni e non ne verrebbe a capo !!

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