UNA VITA PER GLI ALTRI: MARIELLA PISANO, ANIMA E CUORE NELL’AFRICA DEI PIU’ BISOGNOSI

(Nella foto Mariella Pisano coi bimbi in Liberia nel 2013)


di Carmina Conte

 “Ero abituata a vedere gente morire, ma di malattie, contro cui non riesci più a fare nulla, perché non c’è proprio più nulla da fare, o per traumi irrimediabili… Ma altra cosa è veder morire bambini o anche adulti, per motivi assurdi, per cui ci sarebbe una cura e, soprattutto, nessun motivo per morire! Non è accettabile veder morire persone per disidratazione, perché non si sa che occorre dare acqua, possibilmente con un po’ di sale; o di fame, malnutrizione, parto, malaria o malattie, anche banali, curabili con un semplice antibiotico. Dovevo andare in Africa per vedere se c’era davvero bisogno di aiuto”. Mariella Pisano, Presidente Nazionale AIFO, Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, per la lotta alla lebbra, una delle prime donne medico-chirurgo a Cagliari negli anni ’70, in Africa ci andò la prima volta, nell’estate del 1976: un mese di ferie, passato a curare i malati di un ospedale nel Congo-Zaire, a Mosango, 800 posti letto, 300 malati di tubercolosi e un padiglione di Pediatria chiamato Sardegna, creato da don Giovanni Puggioni, e un solo medico congolese con cui affrontare un lavoro immane. Si, perché se il rapporto medico- paziente in Italia, all’epoca, era di un medico ogni 250 persone, in Africa era di uno ogni 50/100.000 persone e distanze siderali fra un ospedale e l’altro. “C’erano anche tanti malati di lebbra e praticamente niente per curarli: le nostre richieste di medicine e cure cadevano praticamente nel vuoto, anche perché Mobutu- il padrone-dittatore dello Zaire, adesso Repubblica Popolare del Congo- sosteneva che i lebbrosi “non esistevano” e che se volevamo curarli era affar nostro!”. Di quella prima esperienza Mariella ricorda, ancora con felicità, la storia di un ragazzino molto grave, malato di meningite e broncopolmonite: “Con una suora facemmo una ricerca disperata di antibiotici, in tutto l’ospedale, per mettere insieme una terapia di almeno una settimana. Ci riuscimmo e il ragazzino guarì”, una piccola-grande vittoria per Mariella, che “le ossa” se le era fatte all’Ospedale di Sorgono, la prima assunzione dopo la laurea, come assistente di chirurgia del prof. Daneo, il primario. Lei per la verità avrebbe voluto fare altro, internistica o anche cardiologia, ma in quell’ospedale regionale c’era da affrontare di tutto, traumi e parti in particolare, e il prof Daneo sosteneva che “la chirurgia era una cosa da donne” e che le si addiceva, soprattutto per la cura dell’aspetto estetico.
Una esperienza sul campo, piuttosto “intensiva” che le tornò molto utile, in Congo, prima, in Mozambico, Ghana, Somalia, Guinea, Zambia, e tanti altri luoghi del mondo, poi, perché da quel viaggio in Congo Mariella tornò con una decisone incrollabile: ripartire in Africa per curare i più derelitti, gli ultimi della terra, in luoghi spesso teatro di conflitti interni, guerre e guerriglie devastanti, che aggravavano le condizioni già estreme di quelle popolazioni, soprattutto dei bambini e delle donne, generalmente prive di diritti elementari, oggetto di violenza e di soprusi. Un volontà e una forza che le venivano da lontano, fin dal primo anno di iscrizione a Medicina, divisa, in qualche modo, fra gli studi universitari e le iniziative per il rispetto dei diritti umani e per l’attuazione dei principi della dottrina sociale della Chiesa. E così Mariella, Anna Maria, all’anagrafe, che nel frattempo era diventato medico chirurgo di ruolo, in forze al Pronto Soccorso del SS.Trinità a Cagliari, “fece le carte” per partire come volontario internazionale, in aspettativa e senza assegni, per un periodo di due anni, in Congo. Ma le fu impossibile trovare una ONG che le consentisse il viaggio, e dovette “ripiegare”, in Mozambico, nel ’78/’79, grazie a un progetto del CUAMM, Medici per l’Africa, e ci tornò ancora nell’82/83 e nel ’95/96. Nell’83, dovettero anticipare la partenza, troppo rischioso restare con una guerra in corso. La guerra e situazioni di conflittualità hanno sempre accompagnato Mariella nella sua attività di medico volontario per 25 anni. Mai avuto paura? “Non ho mai avuto veramente paura. Si affrontavano le cose come venivano, del resto ero dove volevo essere. Mi è capitato di dover curare persone torturate dalla polizia, saltate in aria su una mina, o ferite da colpi di bazooka o di fucile. Curavamo le persone e poi cercavano di sottrarcele, era terribile. Mi è capitato anche che sparassero vicino a casa… Ma le tensioni vere erano altre, anche molto pesanti: dover affrontare delle emergenze senza strumenti adeguati, senza sala operatoria o con il generatore della corrente elettrica che non funzionava e la gente che rischiava di morirti fra le mani”. Guardo le mani di Mariella, piccole, forti e delicate allo stesso tempo: a quanta gente hanno ridato la vita? “Nel ’79 mi trovavo nella regione del Niassa, a nord del Mozambico: c’erano solo due ospedali, il nostro a Cuamba e quello provinciale, a centinaia di chilometri di distanza. Con il medico mozambicano mettemmo in piedi una sala operatoria “al volo”, formando due infermieri, uno come anestesista e l’altro come strumentista: era l’unico modo per salvare soprattutto le donne incinte, arrivavano da lontano, da villaggi sperduti, spesso allo stremo delle forze, o persone da operare con urgenza, che dovevamo rispedire all’altro ospedale, sarebbero morti per strada”. Salvare una donna e il bimbo che porta in grembo: una battaglia costante nell’esperienza di Mariella in Africa: ”Un po’ ovunque, nei luoghi dove sono stata, le donne non hanno voce in capitolo, non hanno diritto di parola e “la sentenza” è che se una donna non è in grado di partorire da sola è meglio che muoia”. A volte riuscivo a convincere della necessità del taglio cesareo, ma purtroppo qualche volta no. In Somalia, dove la condizione delle donne era particolarmente grave, nel 1985, riuscii a convincere, dopo una giornata di trattativa, prima il marito e poi il consiglio delle anziane della necessità del taglio cesareo. Fu una battaglia durissima, anche perché la donna era allo stremo, ma alla fine potei fare il taglio cesareo, salvai la madre e nacque un bambino bello e sano”.
Difficile raccontare un’esperienza di vita e professionale eccezionale come quello di Mariella Pisano, che ha prestato la sua opera infaticabile, dividendosi fra l’attività al Pronto Soccorso del SS. Trinità e poi al Brotzu, in Chirurgia Plastica e Centro Ustioni, e quella in tanti luogi del mondo, dove c’è una “fame disperata di diritti”, prima di tutto alla salute. Come nello Zambia, dove nel 1993-1995 trovò una condizione disperata per l’imperversare dell’AIDS, della malaria, aggravata dalla malnutrizione, dalla mancanza d’acqua e dalle disagiate condizioni del territorio, un’esperienza durissima sotto tutti i profili. Ma, cruciale era stato l’incontro con AIFO: nel 1986/88 partecipa al primo progetto in Ghana, dedicato alla cura dei malati di lebbra e fa propria la pluridecennale battaglia di questa Associazione, ispirata all’insegnamento del giornalista umanitario Raoul Follereau. Nel 1990 costituisce il gruppo AIFO di Cagliari e da allora la battaglia di AIFO è diventata la “sua” battaglia, in una visione più ampia e inclusiva, che guarda ai diritti negati non solo dei lebbrosi, ma dei disabii più in generale, dei bambini e delle donne, una battaglia contro tutte le “lebbre”, come diceva Follereau, “per l’inclusione delle persone, per i diritti per tutti, per un po’ più di giustizia”, come dice Mariella. Oggi Mariella, “in pensione” come medico dal 2002, è impegnata a 360° nel suo ruolo di Presidente Nazionale AIFO- prima donna a ricoprire questo incarico- nella realizzazione degli innumerevoli progetti in programma, in varie parti del mondo, in Guinea Bissau, Liberia, Mozambico, Brasile, Cina, Mongolia, Indi. Infaticabile, come sempre: “Cerchiamo di creare e favorire le condizioni -dice- per la formazione del personale in loco per migliorare la prevenzione e l’assistenza sanitaria; per la creazione di gruppi di mutuo aiuto; per la creazione di attività artigianali che consentano l’autosufficienza delle persone. Una particolare attenzione la dedichiamo ai progetti per la creazione di reti di mutuo aiuto per le donne, contro gli abusi e violenze. Tengo in modo particolare a un importante progetto in Liberia, dove sono stata nel 2013, pensato per tutti i disabili e in particolare per i bambini in età scolare, interrotto per la grave epidemia di Ebola, e che ora stiamo riprendendo”. Le brillano gli occhi quando racconta dei piccoli grandi successi ottenuti dai volontari nei villaggi della regione di Bangalore dove, con una azione di microcredito, raccolto con piccolissime cifre messe a disposizione dagli stessi abitanti dei villaggi, sono state create delle attività anche di tipo produttivo e artigianale e sono state risanate e rese abitabili abitazioni fatiscenti. Infaticabile Marinella, che racconta di come queste piccole e grandi azioni consentono di recuperare persone e comunità intere, spesso abbandonate a se stesse, isolate e private di ogni dignità, e di come stia per partire un gruppo di giovani, 18-25 anni, che andranno nella zona della Karnakata, in India, per lavorare con i bambini disabili e ragazzi ciechi, per recuperarli alle attività scolastiche ed aiutarli ad inserirsi nel lavoro. Storie che recentemente ha raccontate anche a Milano, in occasione del convegno “Cooperazione e volontariato internazionale delle donne sarde”, organizzato da Pierangela Abis, presidente del Centro Sociale Culturale Sardo e da Serafina Mascia, Presidente Nazionale della FASI, la Federazione delle Associazioni dei Sardi in Italia: donna sarda insieme a donne sarde, impegnate nella promozione di un’altra visione delle cose e del mondo.

* Sardinia Post

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