IL CENTENARIO DELLA SCOMPARSA DI SEBASTIANO SATTA: INTERVENTO DELL’ORGANIZZATORE DEL CONVEGNO PER CONTO DEL COMUNE DI NUORO


di Ugo Collu

Un canto di risarcimento. Il titolo che abbiamo dato al Convegno per il Centenario di Satta può sembrare provocatorio. Ma non lo é.

La verità è che il poeta nuorese è stato penalizzato immeritatamente lungo i tre quarti del secolo appena trascorso. Dalla critica letteraria (epigono di Carducci senza scampo) e dal pregiudizio ideologico (non capì la necessità della lotta di classe, restando appeso ad un socialismo romantico).

Non degno, quindi, di entrare nella letteratura nazionale per mancanza di autonomia dai poeti di scuola, celebrati nella letteratura “italiana” (ma non sempre degli italiani, direbbe Nicola Tanda) e per l’assenza di preciso distintivo politico.

Risarcimento. Noi crediamo che i paradigmi dentro cui è stato pigiato gli stiano stretti e che la documentazione di cui dagli anni Ottanta siamo venuti in possesso sia in grado di ribaltare molti luoghi comuni sulla sua poesia e sulla sua personalità culturale.

Ho fatto notare, in una riflessione per la stampa, come nel Convegno per il cinquantesimo anniversario (1964), quando cioè, dopo la caduta del fascismo, la vita riprese a scorrere pacificamente, ci furono già importanti prese di posizione contro il riduttivismo che la critica gli aveva riservato.

Raffaello Marchi in quella occasione espresse constatazioni eloquenti:

Tutto lo sforzo fatto dalla critica “nazionale” – egli scrisse – fu di mettere in luce il volto meno marcato e minore della poesia di Sebastiano Satta, cioé tutte quelle liriche che se potevano adattarsi meglio ad essere catalogate fra i carduccismi e i pascolismi, fra i romanticismi e gli estetismi di varia natura e sfumatura, non riuscivano però a dare l’intera figura del poeta e a mostrarlo nella sua vera natura di cantore popolare e sociale, di “cantore della stirpe”.

Marchi sottolineava ancora la difficoltà ideologica dei critici ad affrontare gli “aspetti ispidi e rischiosi” di un poeta fuori dal coro che “mal si prestava a farsi imbrigliare con le parole d’ordine che andavano dilagando” o a farsi riconoscere fra i neutrali politici con quei “tumultuosi motivi di canto” a denuncia di una società regionale perennemente angariata dal potere centrale e costretta ad impeti di ribellione per fame di giustizia.

Si può dire che nel 1964 il “risarcimento” era già iniziato. L’ascendenza carducciana, inizialmente sottolineata come il grande pregio dei suoi versi, perché lo allineava alla migliore letteratura italiana dopo l’Unità d’Italia (Carducci, il vate dell’Italia Unita), gli si ritorse contro come un boomerang. Petronio, in quello stesso convegno, con colta e gelida eleganza, lo imbalsamò senza scampo e senza scuse. Accusandolo di carduccismo “a fari spenti”, di essere diventato carducciano, cioè, anacronisticamente, quando Carducci era già al tramonto e quando i due carducciani più importanti (Pascoli e D’Annunzio) se n’erano emancipati in autonomia, aprendo la nuova strada del Decadentismo. La preoccupazione di Petronio (nel periodo non solo sua) era quella di doverlo classificare o di farlo collimare con la casella di una scuola.                

Ma certamente la svolta significativa si ebbe nel Convegno di studio per il Settantesimo anniversario. Agganciandosi alla lucida presa di coscienza di Raffaello Marchi, fu il “Consorzio per la pubblica lettura” di Nuoro nel 1984 (ne ero presidente), a tentare ulteriori approfondimenti con l’apporto di filologi e di storici, allo scopo di reimpostare in modo più adeguato schemi e parametri interpretativi. E in parte questo avvenne con successo. Non posso omettere qui il ricordo affettuoso di Mario Ciusa Romagna che a quel Convegno nella difesa del poeta nuorese dedicò passione, amore e conoscenza. Ricordo a cui unisco quello di altri intellettuali illuminati che non sono più tra noi: come Giovanna Cerina, Mario Massaiu e Francesco Masala.

Da quegli anni in avanti, comunque, si sono verificate delle felici novità, di grande portata ai fini della rivalutazione del poeta nuorese.

Innanzitutto la donazione da parte del figlio Vindice, (e io ne fui personalmente felice testimone) di tutto l’Archivio di famiglia: una vera miniera di documenti che raccontano un altro Satta rispetto a quello presentato dalla critica ufficiale. La Biblioteca a lui intitolata da allora possiede l’inestimabile patrimonio: non solo l’intero studio, i suoi dipinti e gli arredi storici, ma tutti gli scritti, quaderni, appunti … spesso già raccolti e preordinati dallo stesso Satta. E proprio nella nostra Biblioteca del Consorzio sono fiorite delle ricerche interessanti e innovative, capaci di far ridiscutere e modificare tratti importanti del giudizio corrente.

Ma poi, questo sì straordinario, finalmente anche le nostre università (spesso occupate da cattedratici non del tutto disposti a comprendere in profondità la particolare situazione storica della nostra isola), dopo aver scoraggiato per decenni gli studenti da ricerche e tesi di laurea di argomento locale (non solo su Sebastiano Satta, Cambosu, Dessy … ma persino sul Nobel Grazia Deledda), si sono aperte a quello che per tre quarti del secolo appena trascorso avevano spregiativamente considerato “provincialismo culturale”.

E trovo molto significativa la recente presa di posizione di una autorità in questo campo come Giovanni Pirodda che con coraggio e senza mezzi termini nella introduzione alla nuova edizione dei Canti (Ed. Ilisso, 1996) scrive  riflessioni decisive.

Giovanni Pirodda stamattina avrebbe dovuto presentare la prima relazione del Convegno; ma è purtroppo bloccato a casa da malattia. L’ho sentito due sere fa ed era molto mortificato per l’assenza. Mi diceva il medico è stato tassativo nel proibirglielo. Manderà comunque la relazione. Me ne ha anticipato alcuni stralci da cui attingo ora per indicare la sua posizione. 

L’operazione poetica di Satta – scrive – é più ambiziosa e impegnativa di quanto non sia emerso nel dibattito critico che si é sviluppato sulla sua opera. Essa si fa carico di una tradizione poetica regionale, sia sul versante della tradizione in lingua sarda, sia sul versante della produzione in italiano – più modesta e recente e tuttavia significativa -, per rilanciare con una coscienza più scaltra e aperta e meno subalterna, una esperienza poetica che ponga sullo stesso piano i valori di una realtà locale, trascurata ed estranea, e gli strumenti espressivi e tecnici di una tradizione colta, in un momento in cui si tende a dar voce alle culture emergenti che ambiscono ed esigono di avere diritto alla parola nel concerto nazionale.

Pirodda si riferisce ai recenti risultati degli studi filologici approfonditi e puntuali sull’officina del lessico sattiano (alcuni dei quali sono stati realizzati proprio da suoi allievi). Da essi (da tali studi), insomma, risulta che Satta ha compiuto un lavoro immane di ricerca e di commutazione del codice nazionale chiamato a sagomarsi sulla esperienza del mondo barbaricino, nell’ambizioso sforzo di far sentire la voce della Sardegna in alto loco, col linguaggio più gradito e più aulico per le orecchie della cultura ufficiale. Ed è di straordinaria importanza che questa operazione avviene sulla ispirazione della tradizione poetica in sardo (i rapsodi), ritenuta esterna e da sola inadeguata ad aver accesso nei territori della cultura ufficiale.

In sintesi, nella poesia del Satta domina, quindi, l’uso della lingua nazionale, ma con il pervasivo innesto della tradizione linguistica sarda; nel dichiarato intento di rilanciare una esperienza poetica che ponga i valori di una realtà locale emarginata e calpestata sullo stesso piano di quella nazionale; senza subalternità alcuna. Usando gli strumenti della tradizione colta per farsi sentire come realtà trascurata. Come protesta e come riscatto. Parla da sardo, e in sardo, ma con la lingua nazionale. Non spetta a me entrare qui nel come e nel dove, abbiamo nel Convegno i protagonisti di tali studi, e ce ne parleranno anche stamattina. C’è comunque ancora non poco da fare. Molti faldoni attendono di essere esplorati, e poca analisi sistematica è stata attivata sulla poesia in limba, da Satta molto frequentata, soprattutto nel periodo giovanile. Domattina su tale problema e sul materiale relativo ci parlerà   Dino Manca, professore nuorese che insegna alla Università di Sassari.

Stasera tra gli altri interventi ci sarà quello sul figlio di Satta. Maurizio Virdis ne presenterà, fresco di stampa, le poesie.  Il riscatto fortemente desiderato da Sebastiano. Si tratta del figlio che venne al mondo un anno dopo la morte di Raimonda (Biblina) nel 1908. Il poeta sconvolto, fiaccato nello spirito e nel fisico – dopo pochi mesi lo colpì una paralisi progressiva a partire lal braccio destro – lo accolse con sollievo e gli diede un nome di sfida al destino che lo aveva colpito crudelmente e che stava per inaridirlo anche nel sentimento poetico. Lo chiamò Vindice. Rivendicazione, vendetta. “Venuto per essere, un giorno, tutto quello che lui non era potuto essere e non poteva essere più” (Vincenzo Soro). La consegna testamentaria non gliela scrive su un pezzo di carta, ma l’affida al suo stesso essere. Il figlio non potrà strapparla nè nasconderla. Vindice,  è come inciso nella carne. Eredità e missione. Oggi possiamo dire senza paura di smentita che Vindice ha preso sul serio  quell’imperativo carnale testamentario. In tutta la sua vita ha cercato di onorarne la consegna. Prima ha tentato di sensibilizzare il figlio Sebastiano jr alla poesia, ma in seguito al diniego, (dalla fine degli anni Sessanta in avanti) vi si è dedicato lui stesso, con costanza e sistematicità. Conservò in un cassetto le circa settecento composizioni fino ad un anno dalla morte (1983). Quella eredità lo terrorizzava: aveva paura di deludere il padre (Il tuo nome mi rilusse come spada,/ ma mi gravò come croce). Quando me le consegnò per la pubblicazione tremava; era ancora titubante. Sconvolto dai sentimenti opposti che gli avevano turbato l’intera vita: la paura di “osare con poca poesia seguire il tuo canto” e la necessità opposta di eseguire il testamento, di sentirsi finalmente lui stesso maturo testamento del padre.

Bene, la prima raccolta (Parole a una donna bella) la pubblicai nel 1985, (da Gianni Trois edizioni di Cagliari); le altre due, Il giorno qualunque e Una solitudine, riunite in un solo volume, sono in libreria da ieri (Edizioni Maestrale). Ecco un altro verso del Canto di risarcimento, che sembra uscito da un romanzo psicologico.

Concludo.

In chiusura però vorrei rivolgermi direttamente ai giovani studenti, qui venuti numerosi e attenti.

La poesia di Satta ha a che fare con la vostra, con la nostra identità; e contiene “nutrimenti” per la nostra identità. I vostri insegnanti sapranno svolgere distesamente la verità di questa affermazione. I grandi uomini del nostro territorio, quelli che ne hanno fatto la storia, sono tasselli necessari alla comprensione dell’ambiente mentale in cui ci troviamo e abitiamo.

Vanno studiati e meditati, perché ci consegnano la personalità del territorio di appartenenza e ci possono dare anche gli estremi per progettare il suo sviluppo sia civile che materiale.

Il vuoto di memoria della cultura specifica del nostro passato ci destina al galleggiamento e alla instabilità; e, ciò che è peggio, al dominio dall’esterno. Chi non consiste da sé è destinato ad essere subordinato ad altri.

Approfondite la cultura, tutta la cultura di cui la Sardegna, ma soprattutto il nostro territorio, è ricca. Nel periodo di Satta, Nuoro era un miracolo, in questo povero angolo del mondo. L’Atene dei sardi. E noi non riusciamo ancora ad esserne orgogliosi.

Aspirate con coraggio ad una identità piena, capace di dialogare alla pari al tavolo delle culture sempre più numerose con cui oggi e domani saremo, chi più chi meno, tutti costretti ad entrare in conversazione. 

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