APPRODA IN GALLURA LA NOSTRA “TRAVEL BLOGGER”: UN MONDO MAGICO FRA GLI STAZZI


di Claudia Zedda

Sono passati 17 giorni e 10 ore e un paio di minuti da che ho salutato la proprietaria dell’agriturismo che ci ha ospitati nella sconvolgente Gallura e ancora mi capita, quando mi sveglio di soprassalto, di buttare lo sguardo alla mia sinistra, alla ricerca di quella piccola finestrella che si apre su un mondo magico, con stazzi in miniatura e un albero di prugna dalle foglie nere che a guardarle bene sono di rosso sangue. La Gallura, quella Gallura mi è entrata negli occhi e ora un granello di sé, ben incastrato nelle ciglia, di tanto in tanto mi fa lacrimare di nostalgia, mi fa pensare che passerà poco, pochissimo tempo perché vi faccia ritorno. Esagerata? Senti qui. Naturalmente si fa per scherzare, non ho contato né le ore, né i minuti, ma i giorni si e ora, di rientro a casa mia, piccola, ben incastonata nel delizioso Campidano di grano e sale, mi sembra che quella Gallura, la mia Gallura sia davvero lontana, ma se possibile nel ricordo ancora più bella. L’organizzazione di questo viaggetto lungo tre giorni è stata lunga e dolorosa, ma a cinque stelle. Delle volte penso che dovrei organizzare viaggi per comitive visto  che, a dirla tra noi, ci so proprio fare. Bene chiudiamo l’angolo del “inevitabilmente modesta” e saliamo in macchina. Mio marito non era convinto del posto, ma io, dopo aver letteralmente divorato “Il muto di Gallura” di Enrico Costa, di dubbi non ne avevo: quell’agriturismo era da visitare. Il viaggio è durato si è no tre ore, più corto di quanto me lo aspettassi. La bambina ha praticamente dormito per due ore, e per il restante tragitto abbiamo cantato le canzoncine di Peppa Pig a squarciagola. Pensa te l’allegria. La stradina di accesso all’agriturismo “Il Muto di Gallura” compare quasi a sorpresa dopo una puntuale serie di indicazioni. Il parcheggio lo abbiamo trovato subito e non appena ho sentito il rumore di freno a mano sono schizzata fuori per sgranchirmi le gambe. Alle mie spalle, meraviglia della natura, i tre monti che fanno da corona ad Aggius. Le mostro al mio compagno di viaggio. Io sono entusiasta, lui un po’ meno visto che il libro non lo ha letto. Cerco immediatamente la croce su quel monte detto Crocetta, ma non la trovo… penso che Enrico Costa qualcosina se la sia inventata.

Il Muto di Gallura. L’agriturismo è… tutto quello che una come me potrebbe desiderare. Antico, immerso nel verde, con una storia, una specie ben ordinata di museo etnografico, tutto da scoprire, circondato da animali, abbracciato da vigne e per giunta con una favolosa piscina. D’accordo, la piscina è stata la prima cosa che mi ha fatto brillare gli occhi, ma dopo ore di viaggio come non capirmi?

Le meraviglie di Luras. Abbiamo pranzato in piscina, mi sono imbrattata di protezione e mi sono stravaccata in un lettino. Penso fin da subito che in quel posto mi ci potrei trasferire. Noto il sorrisetto compiaciuto di mio marito e di mia figlia e da buona organizzatrice di vacanze, me la godo. Bordo piscina ci sono pure deliziose more: questo è un paradiso! Dopo una doccetta fresca e un mini riposino partiamo alla volta di Luras, un centro piccino picciò ma famoso per almeno due fatti che poi ho scoperto essere almeno cinque: il museo de sa femmina accabadora;gli olivastri millenari; il nebbiolo; il dialetto; l’abbondanza di sughero. Il museo ovviamente lo visito subito. Un museo etnografico come molti altri se non fosse per la guida, piuttosto pittoresca e per il fatto che apra ad ogni ora su richiesta (basta chiamare), e che conservi fra le altre centinaia di cose il martello de s’accabadora. E’ ben custodito in un grande sacchetto: la guida lo mostra, racconta la storia, lo posa sul letto e ci dice che, a volerlo, c’è in vendita pure il libro, e io che ai libri non so resistere lo compro. A fine visita ci viene offerto il nebbiolo, che pare essere prodotto solo nella zona, e ci viene detto che solo a Luras e in nessun altro luogo della Gallura, gli abitanti parlano il Logudorese “la vera lingua sarda” come dice la guida con una certa fierezza. Io che sono campidanese storco un poco il muso, ma tant’è. Chiedo indicazioni sul come raggiungere gli olivastri millenari e sgattaioliamo via. Cinque euro e tanti saluti. Il museo in grossa sostanza mi è piaciuto e mi sono pure conquistata belle foto del martello e sul giogo in miniatura. Gli olivastri sono uno spettacolo: tre fratellini piuttosto longevi. Il primo ha quattromila anni decina più, decina meno. E’ recintato per via del fatto che qualche ramo sta crollando. Il secondo in linea d’aria ne ha cinquecento e il terzo e ultimo ne ha duemila. Con questo socializzo. E’ bellissimo, le fronde si allargano miracolosamente e alcuni dei suoi rami sono levigatissimi per via delle molte carezze ricevute. Ci scattiamo qualche foto assieme e lui mi guarda bonario, come si fa con le cose piccole. Lo abbraccio e vado via.

La cena al Muto. Quando viaggio le cose davvero importanti sono quattro: il luogo, le visite, l’ospitalità e la gastronomia. La cena, al Muto è stata da scuotere tutte le mie papille gustative e schizzarle vie verso nuovi lidi. Gli antipasti sono tutti deliziosi, non esagerati in quantità ma la qualità parla da sé. Li divoriamo, letteralmente. Tutto è accompagnato da un delizioso, romantico, profumato vermentino, che parla di sere antiche, di bevute fra amici, di amori solo guardati e mai consumati. Penso che sia buono come me lo aspettavo. Il piatto forte è la zuppa gallurese: pesante come un pugno in pancia che davvero non ti aspettavi, ma buona di una bontà vecchia e affamata. E’ solo un assaggio ma ci basta. Se avessi in dosso dei pantaloni li dovrei slacciare. Intorno si è fatto buio: piccole lanterne appese chissà come al soffitto (siamo sotto una bellissima tettoia retta da fusti di legno possenti e scuri) si illuminano. La notte è magica, la super luna (così è stata chiamata quella che in quei giorni brillava sulle nostre teste leggere) è già alta. Ci offrono un moscatino. Io vorrei piangere da quanto è buono. Quella notte, sdraiata in un letto più piccolo dei nostri e molto più alto una leggera brezza fresca entra dalla finestra. La Gallura mi sta colando dentro e io nemmeno me ne accorgo.

Berchidda e Aggius. La mattina dopo una colazione abbondante e tutta handmade ci dirigiamo verso Berchidda. Devo presentare il mio libro al Time in Jazz impegno che ci ruba tutta la mattinata. Il pomeriggio invece lo dedichiamo tutto ad Aggius, uno dei borghi più autentici, fieri e ordinati che abbia mai avuto la possibilità di visitare. E’ tutto pietra fresca e forte, ricordi di tessitura alle pareti e fiorellini colorati alle pareti. I tre monti, il Crocetta in prima fila, mi osservano. Leggenda vuole che lì proprio lì viva il demonio e che scatenando un vento 

infernale abbia soffiato nel cuore degli Aggesi, di indole dolce e generosa, quel non so che di demoniaco. Altrimenti non si spiegherebbe perché Aggius piccola e bonaria, dal cinquecento all’ottocento abbia dato natali a grandiosi banditi e sia stato un feroce centro del banditismo in Sardegna. Mi intrufolo immediatamente dentro il museo del Banditismo. E’ piccolo e caldo, caldissimo al suo interno, ma subito le foto dei banditi ottocenteschi mi rapiscono. Cerco Bastiano Tansu, il Muto, ma non lo trovo… naturalmente non ne esiste alcuna foto. A lui è dedicata un’ala piccola ma intensa del museo: cartucciera, sue opere d’intaglio, un anello di fidanzamento del quale non mi do spiegazione, e una pistola simile a quella che secondo leggenda lo avrebbe ucciso. Speravo di trovare pure gli orecchini regalati a Francesca, ma chissà che fine avranno fatto. Anche il Museo Etnografico non è per niente male, immerso nel verde e con una bellissima area dedicata alla tessitura, la mia nuova passione. Sogno passeggiando fra le erbe e le lane, sogno e la serata vola via. Dove si cena? Ancora al Muto, e un po’ di nostalgia già mi prende visto che so bene la notte volerà tra un nuovo piatto di zuppa, una buona bottiglia di vino, del moscato e quella luna, grande come non ne vedevo da tempo. La mattina seguente la colazione la facciamo di fretta, ma è squisita come te la potresti immaginare. Decidiamo di visitare, di rientro Trinità, l’Isola Rossa e Castelsardo, ma i progetti cambiano.

Sedini e il Museo in una Domus. Piccola è piccola Sedini, famosa per almeno una cosa: il suo museo. Ad essere suggestiva è la location, una piccola Domus abitata dai vivi non si sa nemmeno da quando, e oggi divisa in tre piani. Due foto, un panino e poi si vola a casa. Durante il rientro scorro le foto… penso che una vacanza bella così ci voleva proprio.

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