"A NEW YORK MIO PADRE NON SAREBBE MORTO COSI'": ALESSANDRO SOLINAS PARTITO DA SASSARI NEGLI ANNI 90 E' MEDICO ASSISTENTE AL "FLUSHING HOSPITAL"

Alessandro Solinas nello suo studio di New York (foto A. Mannu)


di Antonio Mannu – Progetto Migrazioni

Questa pagina, già pubblicata sul quotidiano La Nuova Sardegna, nasce dal progetto: “Migrazioni – In viaggio verso i migranti di Sardegna”, un lavoro collettivo di ricerca sulla migrazione sarda. Durante lo sviluppo del progetto sono stati sinora visitati 11 paesi. “Migrazioni” è sostenuto dalla Fondazione Banco di Sardegna, dalla Provincia di Sassari, dalla Camera di Commercio Italiana negli Emirati Arabi e dalla Visual E di Sassari. Al progetto è dedicato un sito web: www.deisardinelmondo.it

«Sono nato a Sassari nel 1959. Ho fatto elementari e medie nel quartiere Cappuccini, poi il lice classico, l’Azuni. Ci hanno studiato due presidenti della Repubblica e svariati uomini politici. Di tutti questi personaggi indubbiamente il più importante sono io». Alessandro Solinas vive negli Stati Uniti dal 1990 ma in lui il sassarese, un certo tipo di sassarese, viene subito a galla. Per intendersi può essere d’aiuto conoscere le note biografiche, redatte da lui stesso e pubblicate sul sito del circolo “Shardana Usa”: «Alessandro Solinas è nato a Sassari nella seconda metà del secolo scorso. E’ cresciuto pallavolisticamente nelle giovanili del circolo Silvio Pellico. Dopo anni di duro lavoro in Sardegna si è trasferito negli Stati Uniti, dove è in vacanza dal 1990. E’ diventato assistente direttore di medicina al Flushing Hospital nel 2000 ed è stato promosso al rango di Associate Chairman nel gennaio del 2006. E’ sposato con Anna dal 1992 e ha 2 figli: Marc e Michael. Vive a Long Island dove gioca a calcio balilla, si diverte a fare fotografie e a passare il tempo, il migliore della sua vita, con moglie e figli».

Insomma Alessandro un poco sinn’affutti (se ne frega, in sassarese, ndr.). Dopo aver finito l’Università e aver meditato sulle dinamiche della professione medica in Sardegna, coglie la possibilità di fare l’abilitazione per gli Stati Uniti e decide di tentare l’avventura americana. Inizialmente è dura. Solo e con la necessità di adattarsi, di imparare a lavorare in un sistema diverso da quello di provenienza. «Ma posso dire con piacere che quello che ho realizzato l’ho fatto da me, senza incozzi, com’è praticamente inevitabile in Italia e in Sardegna. Sono arrivato qua, mi sono messo a lavorare, quello che facevo è piaciuto». Dopo un paio d’anni di vita statunitense incontra Anna, sua moglie. «Era il mio chief resident quando facevo il training di medicina interna. In pratica il mio capo. Dopo il matrimonio la situazione non è cambiata: lei dà gli ordini, io obbedisco». Con i figli arriva anche la decisione di restare negli Usa.

Oggi Alessandro è cittadino americano, ma ha mantenuto la cittadinanza italiana. «Ho 2 passaporti. A seconda degli umori del momento, a volte sarei pronto a distruggere quello italiano, a volte l’americano. Gioco a golf, perché un dottore americano deve farlo, ma quello che mi piace del golf è passeggiare nel verde con i miei figli. Ogni tanto vado in bicicletta insieme a mia moglie, ma non riesco a starle dietro. Anche stamattina, con questo caldo atroce, si è fatta 50 km. Io ho fatto la distanza dal letto al divano e ho acceso la tv per guardare le fasi finali del Mondiale».

Alessandro Solinas torna in Sardegna praticamente ogni anno, per le vacanze e per vedere i familiari. Gran parte del tempo lo trascorre a Santa Teresa, che moglie e figli adorano. A lui piace anche girare per Sassari, incontrare vecchi amici, ma averlo fatto insieme alla famiglia gli ha fatto capire che c’è un limite al tempo che si può trascorrere seduti in un bar, a chiacchierare. Racconta che, dopo il primo anno di lavoro a New Yor. k, tornò in Sardegna, nel 1991. All’aeroporto lo accolse il padre, poi si diressero verso Sassari. Non c’era ancora la nuova strada da Alghero e, una volta in cima a Monte Oro, la sua città, la sotto, si mostrava ai suoi occhi. Con il suo grattacielo! «Non riuscivo a smettere di ridere. Continuavo a dire “il grattacielo!” e ridevo. Naturalmente intendevo il nuovo, perché il cosiddetto grattacielo vecchio non si vedeva proprio».

«In casa parliamo inglese, ma i miei figli mi chiamano babbo e per me è bellissimo: “babbo, what are we doing today? (babbo, che si fa oggi?)”. Ma la parte migliore è che non solo loro, ma mi chiamano così anche i loro cugini e diversi amici. Succede che ci siano ospiti dalla Sardegna; arrivano questi ragazzi, a volte una decina, e tutti dicono: “Hi babbo, ciao babbo”. Intorno c’è sconcerto e allora preciso: “Non sono tutti figli miei. Babbo qui è il mio nome proprio, ok?”. In Sardegna, a casa, parlavamo italiano, ma mio padre parla discretamente il sassarese, mia madre meno. Riguardo al sardo penso che sia una lingua, con un suo patrimonio letterario e va salvaguardata. Ma un eventuale insegnamento nelle scuole, secondo me, dovrebbe essere offerto come una possibilità per chi ha interesse. Imporlo a tutti non so se sia giusto».

Un episodio che ti ha toccato? «E’ accaduto in Sardegna e riguarda mio padre. Ero li per festeggiare i suoi 80 anni. Ha avuto un ictus e l’ho trovato io per terra. L’abbiamo portato al pronto soccorso e ho chiesto che gli venisse praticata una terapia per dissolvere il coagulo: si fa con regolarità nelle cosiddette stroke units. Mi hanno risposto che non avevano i permessi ministeriali e non conoscevano il dosaggio dei farmaci. Ho chiamato l’ospedale qui a New York, mi hanno dato le dosi. Si sono comunque rifiutati. E’ stato un brutto momento, non riuscivo ad accettare il fatto che non si facesse niente. Il problema era che il mio modo di vedere le cose era cambiato. A Sassari dicevano “E se applichiamo la terapia e muore?” Questo era il loro punto di vista. Il mio era: “E se non facciamo niente e rimane paralizzato?” Mio padre è rimasto paralizzato, non ha più parlato, dopo un anno e mezzo è morto. Il dubbio su come sarebbe potuta andare mi è sempre rimasto. Oggi una delle cose che si discute in medicina è che non ci si dovrebbe preoccupare tanto della durata, ma della qualità della vita. Personalmente mi preoccupo anche dei tempi e della qualità della morte».

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