TUTTI BRAVI A SOPPORTARE I MALI ALTRUI: LA SARDEGNA E L'ETERNO CONFLITTO SULLA STRISCIA DI GAZA FRA ISRAELE E PALESTINA


di Omar Onnis

Riprendo la massima di La Rochefoucauld a proposito di quel che succede in Palestina e della sua relazione con la Sardegna. Gli attacchi israeliani alla Striscia di Gaza sono talmente violenti, crudeli e sanguinosi che nemmeno la propaganda filo-israeliana veicolata senza filtri dai mass media mainstream riesce ad attenuarne l’ingiustificabilità. Indignarsi è giusto, mobilitarsi anche, così come palarne e non abbandonare la questione alla manipolazione mediatica. Magari sarebbe preferibile non indulgere compulsivamente nella diffusione di immagini cruente, specie riguardanti i bambini. Alla fine l’esposizione a scene di violenza brutale e di devastazione di corpi inermi rischia di produrre non desiderio di giustizia ma assuefazione.

Sulla faccenda bisognerebbe chiarirsi un po’ le idee. La si può pensare come si vuole sul conflitto israelo-palestinese, attribuire un peso diverso alle posizioni dei contendenti, schierarsi di qua o di là (sempre a rigorosa e rassicurante distanza, naturalmente), ma non si può negare la verità storica: un paese occupante, dotato di armi sofisticate e di risorse cospicue, opprime la popolazione di un territorio formalmente esterno. Lasciamo stare la questione del diritto di Israele di esistere, i nodi storici relativi alla sua fondazione, il pregresso di un conflitto in cui l’Occidente ha una responsabilità che troppo spesso tendiamo a rimuovere (qui come altrove). Ormai si tratta di valutare il presente e di provare a intravvedere un futuro che non contempli come unica soluzione la semplice eliminazione fisica dei palestinesi.

Cosa c’entra la Sardegna in tutto questo? Non, so. Forse poco. Forse c’entra nella misura in cui le forze armate israeliane utilizzano i poligoni militari presenti in Sardegna per sperimentare le loro armi. Quello che è evidente, però, è che molti sardi si sentono coinvolti dalla vicenda e si esprimono con forza su tutti i mezzi di comunicazione disponibili. Una partecipazione emotiva e politica in consonanza con quella di tutte le opinioni pubbliche europee, del resto, che però da noi assume una coloritura particolare.

Tanti sardi reclamano a gran voce il riconoscimento politico e giuridico di un’entità statuale palestinese indipendente e sovrana, ammessa nel consesso internazionale. Associazioni, comitati, singoli commentatori perorano in termini chiari e argomentati questa necessità storica.

Io non so se basti e se serva davvero riconoscere la sovranità palestinese su quei fazzoletti di terra inariditi, spezzettati e isolati a cui sono stati ridotti i territori sotto il controllo delle due autorità nazionali di quel popolo (ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza). Penso anche che sia l’ANP sia Hamas, al di là della loro consistenza politica e della loro denotazione ideale, siano fondamentalmente due centri di potere il cui scopo principale è l’autoperpetuazione, anche a discapito delle condizioni di vita della loro stessa popolazione. La soluzione, insomma, non mi sembra così automatica e lineare, nemmeno se tutto il mondo fosse concorde nel riconoscere oggi stesso uno stato palestinese. Dubito anzi fortemente che questa sia la soluzione ideale, ormai.

Ma di questo se ne dovrà riparlare e d’altra parte un’opinione qualsiasi, specie se espressa da posizioni del tutto ininfluenti, lascia il tempo che trova. Mi preme invece sottolineare come molti sardi che trovano naturale e necessario appoggiare esplicitamente la causa palestinese, siano al contempo totalmente ciechi e sordi riguardo la causa sarda.

È come se le vicende altrui non ci chiamassero in causa davvero, coinvolgendo la nostra consapevolezza in tutte le sue forme, il nostro senso del tempo e dello spazio, la nostra coscienza politica tutta intiera, ma servissero invece quasi come scappatoia per non guardare alla propria condizione storica con obiettività. È molto facile prendere le parti dei palestinesi, dei saharawi o dei popoli del Delta del Niger. Più facile che applicare gli stessi ragionamenti e le stesse argomentazioni a se stessi.

Eppure dovrebbe essere molto chiaro in che situazione ci troviamo. È vero che non possiamo paragonare la condizione attuale dei sardi a quella dei palestinesi e che la Sardegna – per nostra fortuna – non è la Striscia di Gaza. Ma siamo pur sempre una terra asservita e dipendente, piegata a interessi altrui, pesantemente compromessa dall’inquinamento in una parte cospicua del suo territorio (la più vasta area inquinata in territorio statale italiano è in Sardegna), impoverita e destrutturata sia economicamente sia socialmente sia culturalmente, controllata da una classe dominante autoreferenziale quanto a gestione dei problemi e delle risorse locali ma subalterna e vassalla rispetto ai centri di potere esterni da cui dipende la sua selezione e la sua legittimazione.

La domanda è: perché osservatori e intellettuali sardi dedicano così volentieri le proprie risorse alle vicende altrui (cosa meritoria, beninteso) e così poche alle loro? Cosa spinge a ignorare così clamorosamente se stessi e al contempo a profondere tante energie per qualcuno e qualcosa che stanno comunque lontano da noi? Probabilmente una componente decisiva è il disprezzo di noi stessi inoculatoci da duecento anni in qua insieme alla narrazione egemonica che ci ha conformato l’immaginario. Un’altra componente, collegata alla prima, è il conformismo ai paradigmi e alle cornici concettuali veicolati dalle agenzie formative (scuola, università) e dai mass media italiani, conformismo dovuto a varie cause, non ultima la necessità di non essere delegittimati nell’accesso alle professioni, all’ambito accademico, ai ruoli burocratici e/o politici, alle fonti di finanziamento pubblico.

Così ci ritroviamo ad essere estremamente partecipi alle disgrazie altrui ed estremamente indulgenti se non indifferenti verso le nostre. Anche quando non lo siamo, rifiutiamo comunque di affrontare i nodi storici da cui discendono i nostri problemi strutturali, preferendo mandare in tilt la nostra intelligenza, pur di non rischiare di compromettere lo status quo.

I fatti e i processi storici di questo nostro tempo, invece, ci richiamano prepotentemente prima di tutto alla responsabilità verso noi stessi. Con quale credibilità possiamo occuparci della questione palestinese o di qualsiasi altra questione problematica intorno a noi, se non siamo nemmeno in grado di affrontare con coscienza e capacità di discernimento i nostri problemi? Lo sguardo verso il mondo e lo sguardo verso se stessi non possono essere disgiunti, pena una scissione spirituale deleteria, uno strabismo storico e politico foriero di disastri. Quei disastri a cui assistiamo, giorno per giorno, molto più vicino a noi di quanto sia la pur vicinissima Striscia di Gaza. Non si può essere sufficientemente forti per risolvere i mali altrui, se non lo si è per risolvere i propri.

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