DALL'OSSERVATORIO PERSONALE DEL MIO DIVANO, UNO SGUARDO SEMISERIO ALLE OLIMPIADI DI LONDRA: CINQUE CERCHI ALLA TESTA (terza parte)

 

Alex Schwazer


 
di Massimiliano Perlato

Due premesse: 1) Schwazer non è perdonabile per nessuna ragione, ha sbagliato e ha sbagliato di grosso, come chiunque bari o si dopi (che venga scoperto oppure no); 2) c’è una grossa falla nel suo racconto – quella relativa a “ho fatto tutto da solo” – che andrà indagata, letteralmente, per scoprire qualcosa di più del magico mondo dei bombati. Detto questo, trovo la vicenda di Alex Schwazer più pedagogica di cento manuali di sport e filosofia spicciola. “Come un campione può buttarsi via” è una storia che andrebbe raccontata ai ragazzi che iniziano a fare sport, perchè capiscano un po’ di cose belle e brutte di questo mondo (che non è solo medaglie, addominali a tartaruga e belle ragazze) e di come gli eventi possano prendere una piega imprevista. La categoria non è foltissima, ma esistono anche i campioni infelici: e anche questa è una cosa utile da sapere. Il caso Schwazer è esploso in maniera così deflagrante (del resto siamo nel bel mezzo di un’Olimpiade) che nel giro di due giorni è successo tutto, si è detto tutto, si è scritto tutto. Non voglio aggiungere inchiostro virtuale sul doping e sull’etica dello sportivo. Mi auguro per pura pietà umana che Schwazer, cui va riconosciuto il merito di non essersi nascosto fin da subito né di essersi rifugiato dietro dichiarazioni o versioni di comodo, superi questa immane pressione mediatica, lui che proprio delle pressioni si è dichiarato vittima. Nella – ribadisco – assoluta inescusabilità del suo comportamento, ho trovato molto toccante il racconto della sua parabola umana e sportiva. Il ragazzo che sceglie la marcia anche se gli amici lo prendono per in giro, il ragazzo che ama la marcia perché è bravo e vince, il ragazzo che sopporta la marcia e i relativi estenuanti allenamenti perché ha un sogno da inseguire, il ragazzo che vince la 50 km di marcia a Pechino sotto il sole e con il tremila percento di umidità perchè è il più bravo e il più preparato, il ragazzo che da allora non ne imbrocca più una perché quando sei una medaglia d’oro olimpica hai la responsabilità di essere il migliore, sempre, e allora corri, marci, ti alleni, mattina, pomeriggio, sempre, sette giorni su sette, finchè ti viene la nausea e allora addio, hai passato il limite e attorno hai solo gente che questa possibilità proprio non la calcola. Anche noi, dai nostri divani, abbiamo messo pressione a Schwazer. In totale buonafede, certo. Ma sono le parole che più mi hanno fatto riflettere della conferenza stampa. Ho pensato a quando tutti, chi più chi meno, imprechiamo per un gol sbagliato, o per un quarto posto invece che per un terzo, o addirittura per un terzo invece che per un primo, come se in fondo tutto ci fosse dovuto, sì, a noi che improvvisamente siamo tutti allenatori, tutti cittì, tutti espertoni di tutto, dal calcio al taekwondo. Nello sport vince solo uno, gli altri ci provano e non ci riescono. E’ una regoletta banale fino all’inverosimile, però non la consideriamo mai. In quel preciso istante, quando uno taglia il traguardo davanti agli altri, abbiamo già deciso che gli altri sono tutti coglioni, sfigati, scoppiati. Eppure la loro storia è uguale a quella del vincitore, è una storia di allenamenti massacranti, sacrifici, privazioni. Poi mettici la fortuna, mettici il talento soprattutto. Non siamo tutti uguali, per fortuna. Mettici il caso. Mettici il doping. Ecco, Alex, è qui che tutto crolla, e anche tu infatti sei crollato. La tua storia insegna molto proprio per questo, perchè è una storia a 360 gradi, una storia strana, una storia anche un po’ terribile, perchè quando è il migliore che a un certo punto deve doparsi anche noi – noi sportivi, noi appassionati, noi tifosotti – rischiamo di non capirci più un tubo. L’estremo rispetto per un fachiro dello sport, per un asceta dell’endurance, per un grande talento di una storica e desueta disciplina, arriva a intersecarsi con il totale disprezzo per una cazzata sostanziale e concettuale, un suicidio incruento che però non ti salva, non ti assolve: ti fa solo scomparire. Non mi piace la gogna e la bava alla bocca di queste ore: Schwazer merita rispetto e spero che altrettanta feroce intransigenza venga riservata a questioni più generali, in un Paese dove un sacco di gente sbaglia ma nega l’evidenza, non confessa, non si dimette. Con i dovuti modi e il senso delle proporzioni, imponiamoci però anche il contrario: non avrebbe senso un buonismo assolutorio nel giorno in cui un grande campione – per umanissimi, comprensibili ma non condivisibili motivi – sfregia i valori della sport. Però questa storia va tramandata e raccontata: Schwazer, dal “come si vince l’oro” e dal Kinder Pinguì, diventi testimonial di quello che uno sportivo non deve fare. E noi, se uno arriva quinto applaudiamolo, non diamogli sempre e solo del coglione.

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Un commento

  1. Adelasia Divona

    troppo voyerismo mediatico su questa storia…io ci ho visto la fragilità di un uomo che non ha trovato altro modo di dire che non ce la faceva più se non dopandosi e facendosi scoprire…pessimo esempio di uomo di sport, grande episodio di attenzione sulle conseguenze non volute che le troppe aspettative possono generare. Due mesi fa Alessio Bisoli, 25 anni, nazionale di pallamano, talento e campione, prima di andare in ritiro per una partita con la nazionale ha lasciato un biglietto nella sua stanza di albergo e si è coricato sui binari della stazione di Bologna…queste devono far riflettere

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