DALLA VICENDA URRU ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE CHE DERUBRICA LA LINGUA SARDO A DIALETTO


di Omar Onnis

A margine delle manifestazioni di sollievo e grande gioia per la liberazione di Rossella Urru e dei suoi colleghi, è giusto segnalare – come ha fatto tempestivamente Alberto Masala – alcuni aspetti della vicenda che si legano, a mio avviso, a un altro evento molto meno rilevante fuori della Sardegna (ma forse anche sull’Isola): una sentenza della Corte di Cassazione in cui si derubrica la lingua sarda a dialetto. Il rapimento e la liberazione di Rossella Urru nel corso di questi lunghi mesi hanno costituito lo spunto o il pretesto per sciorinare diffusamente una narrazione “identitaria” di noi stessi, secondo gli stereotipi egemonici ancora imperanti. Si è fatto abuso di orgoglio sardo, di carattere sardo, di serietà sarda, di rivendicazioni verso l’Italia matrigna (che non si prodiga per liberare Rossella solo perché sarda), di applicazione continua delle cornici folkloristiche di cui si alimenta il nostro mito identitario subalterno. Una deriva pressoché inevitabile, in casi come questo, eppure sempre meno sopportabile. L’insistenza sul feticcio identitario – sempre comodo per mascherare i reali rapporti di forza, la condizione materiale, culturale e politica così come è nella concreta dimensione storica – è ormai inversamente proporzionale alla urgenza di liberarcene. Liberarcene è una priorità, nell’ottica della nostra emancipazione storica. In questa narrazione, la sentenza della Cassazione, che ignora e, peggio ancora, rinnega addirittura le disposizioni di una legge del medesimo stato italiano (L. 482/99), viene assunta come simbolo di orgoglio identitario ferito, in un’ottica prettamente rivendicazionista, sterile quanto abusata. Gli strali della critica sardista e “limbista” si accaniscono feroci contro l’ennesima dimostrazione di insensibilità dell’Italia (delle sue istituzioni) verso i diritti linguistici dei sardi. Uno sfogatoio di facile uso e consumo, che lascerà poi tutto come prima. La questione linguistica fa integralmente parte della costruzione mitologica tossica da cui siamo dominati. Tant’è vero che non si riesce mai a cavarne qualcosa di produttivo. Il problema è anche qui che prima di tutto ci si dovrebbe liberare delle incrostazioni ideologiche e retoriche di cui si compone il nostro mito identitario. Altrimenti si verifica ciò che è sotto gli occhi di tutti: divisioni, chiacchiere al vento, reciproche scomuniche e nessun risultato positivo. Chi si occupa di lingue in Sardegna ha intanto la fastidiosa incombenza di dover sopportare la concorrenza di chi ne parla occasionalmente, non si sa mai bene a che titolo, magari (ma non sempre) in virtù di una qualche visibilità mediatica, sempre comunque a sproposito e senza alcuna base teorica seria. Sono queste le voci che i mass media sardi amano interpellare e offrire al dibattito pubblico. Chiaramente, si tratta di mezzi alquanto rozzi ma efficaci per riportare una questione altrimenti importante e fondamentale a un livello bassissimo, più o meno di pettegolezzo, di chiacchiera da tzilleri. Ma d’altra parte anche chi si occupa della questione linguistica in termini professionali, teorici e/o pratici, spesso indugia sull’egocentrica pretesa di avere la verità in tasca, non riconoscendo la legittimità dei discorsi e degli argomenti altrui, piuttosto che soffermarsi su quel 90% di conoscenze, acquisizioni e posizioni politiche condivise pressoché da tutti. Solitamente ci si divide molto sulla necessità (pure evidente e convalidata sia teoricamente sia storicamente) di una normazione grafica unitaria per tutto il sardo. Un altro motivo di divisioni e persino di astio (perché vige l’inveterata abitudine di trascinare il dissenso teorico sul piano personale) è il riconoscimento su un piano paritario di tutte le lingue dei sardi. Chi non vuole questa, chi non vuole quella. Come se il catalano di Alghero o il tabarchino di Carloforte non fossero lingue dei sardi. Senza nemmeno citare il gallurese. E si mettono veti ostili alla lingua italiana, come se anch’essa non fosse per tanti sardi una lingua propria, spesso l’unica. E come se l’italiano esistesse a prescindere dall’uso concreto, storico, che se ne fa, come fosse un’entità quasi soprannaturale. Basterebbe invece conoscere un poco di linguistica italiana e magari avere anche un po’ di esperienza pratica dell’Italia per sapere che l’italiano è una lingua aliena, comunque imposta e artificiosa, per la stragrande maggioranza dei medesimi parlanti italici, spesso molto più che in Sardegna. Ma queste sono tutte argomentazioni che, se assunte pacificamente nel discorso linguistico sardo, lo priverebbero della sua natura feticistica, lo ricondurrebbero alla dimensione politica del possibile, del possibile in senso pragmatico, materiale, reale. Quindi eliminerebbero la sua dimensione puramente retorica e narrativa, sottraendolo al novero degli strumenti di distrazione di massa e quindi di dominio. Così, più che prendersela con i poveri giudici della Corte di Cassazione italiana, ignoranti come moltissimi altri su questi temi, bisognerebbe che i sardi si facessero un bell’esame di coscienza essi stessi. Magari ne verrebbe fuori che il sardo e le altre lingue di Sardegna sono state danneggiate molto più dall’incuria e dall’autocolonizzazione che dall’opera di acculturazione (pure innegabile) messa in campo dallo stato e dalle istituzioni scolastiche e accademiche italiane. E allo stesso modo sarebbe ora di abbandonare l’uso dei clichè identitari per ogni circostanza che veda qualche isolano o isolana coinvolto/a in qualcosa di notevole. Nel bene come nel male. Sarebbe ora di riappropriarci di una nostra dimensione storica a pieno titolo, fuori dai costrutti retorici e mitologici che ci hanno inoculato (e che abbiamo interiorizzato) nel corso degli ultimi centocinquant’anni. Non è solo una questione culturale. Si tratta di ridiventare consapevoli e dunque responsabili di noi stessi, delle nostre vite, dei nostri luoghi, del nostro avvenire. Il che avrebbe inevitabilmente conseguenze pratiche e materiali macroscopiche. L’auspicio è che la liberazione di Rossella Urru e la sentenza (invero ridicola) della Cassazione servano a una riflessione sincera e onesta su questi aspetti e non a riversare sulla debilitata opinione pubblica sarda l’ennesima vagonata di sciocchezze ammorbanti.

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