INTERVISTA AD ALDO ALEDDA, SAGGISTA E RICERCATORE: ANALISI COMPLETA SUL FENOMENO DELL'EMIGRAZIONE SARDA ORGANIZZATA (TRA POSITIVITA' E NEGATIVITA')

Aldo Aledda


di Mariella Cortès

L’INTERVISTA E’ STATA REALIZZATA NEL PER LA TESI DI LAUREA DI MARIELLA CORTES E SARA’ INSERITA,

CON I DOVUTI AGGIORNAMENTI, SULLA PROSSIMA PUBBLICAZIONE DELL’AUTRICE.

Aldo Aledda è un saggista e ricercatore. In diversi anni ha raccolto dati, esperienze e diverse informazioni sui sardi nel mondo e i relativi circoli, spaziando dalla cronaca all’analisi sociologia.

L’Italia sembra aver dimenticato il suo passato migratorio. Eppure si è trattato, per citare Gian Antonio Stella, di una vera e propria orda di connazionali che ha scelto la via dell’espatrio. Perché secondo lei si è verificato questo “vuoto storiografico”? La questione dell’oblio nazionale dei flussi migratori, secondo me, ha il significato della rimozione collettiva di un problema che ha lacerato la società italiana per quasi un secolo. Ma l’esatto inquadramento lo si ha solo partendo dalle cause dei flussi migratori. Infatti se si assume come prioritaria o addirittura esclusiva la causa economica – indubbiamente valida (gli italiani e i sardi sono andati all’estero perché il nostro paese non presentava opportunità lavorative, imprenditoriali, ecc.) ? sarà più difficile spiegarsi perché alla fine le due comunità  ? quella dei residenti e l’altra dei non residenti in Italia ? si ignorino bellamente come fanno. Se, invece, si assume come causa più profonda e più ampia dell’esodo la rottura col contesto sociale (che comprende anche quello economico, naturalmente) il ‘risentimento’ tra chi è rimasto e chi se ne andato (perché in ultima analisi ‘non gli piaceva il modo di vivere’ nel contesto di origine) può risultare più comprensibile. In altre parole si tratta di attribuire il giusto valore all’andata all’estero considerandola per quella che era, ossia un abbandono di contesto e, per conseguenza, anche come un ‘rifiuto’ implicito nei confronti di chi rimaneva, non tanto per un fatto sentimentale perché comunque si trattava di familiari e amici, ma in quanto soggetto ritenuto meno capace, meno dotato, meno intraprendente, più legato a schemi esistenziali arcaici o quanto meno superati. Una sorta di razzismo all’inverso. Questa volta non contro chi viene ma da parte di chi va. Ma altri fatti storici hanno aggravato questa sorta di rottura di contesto. Per esempio l’unificazione italiana, che imponeva una ‘nuova’ lingua (l’italiano, appunto). Ecco perché, a mio parere, gli italiani nel mondo si sono subito uniformati alle lingue che trovavano anche quando, come in Argentina, erano in maggioranza (e, quindi, secondo la logica dei colonizzatori che in tutto il mondo sono riusciti a imporre la loro lingua quando erano consistenti come numero – inglesi, spagnoli, portoghesi, olandesi, ecc.). E ciò perché in luogo dell’italiano ? la lingua del conquistatore ? parlavano i propri dialetti. L’unificazione politica della Penisola, si sa che non fu accettata da tutti e da un certo punto di vista storiografico ha costituito solo la ‘piemontesizzazione’ del sud Italia. Dopo di ché è stato comodo per i residenti e per chi usciva attribuire tutte le responsabilità al disagio economico, che comunque agiva come causa scatenante. Ma se questa fosse una verità assoluta, perché andavano via i migliori e restavano i meno capaci? In teoria proprio i primi se la sarebbero dovuta cavare meglio nei  momenti di difficoltà economica mentre dovevano essere espulsi i più deboli.

Dal suo punto di vista, anche la Sardegna ha dimenticato il suo passato migratorio? Secondo lei come è possibile spiegare il ritardo dell’emigrazione sarda rispetto a quella “continentale”? La Sardegna versava in condizioni di estrema miseria e il lavoro scarseggiava. Perché, allora, i sardi non emigravano? Questo discorso si lega anche alla nostra terra. Intanto forse c’è da mettere nel conto che questa faceva parte del ‘sistema’ che ‘conquistava’ l’Italia, per cui era difficile che si formasse un risentimento contro le istituzioni altrettanto forte di quello che caratterizzò le regioni del sud (non dimentichiamo il fenomeno del brigantaggio). Ma è fondamentale tener presente che in Sardegna, nelle epoche di estrema povertà, non si è ebbe emigrazione (di massa). Il che conferma ulteriormente che si esce da un paese quando si è raggiunto un certo livello di benessere dal quale scaturisce la consapevolezza che il contesto in cui si vive non è più adeguato a colui che, comunque, ‘cresce’ e che occorre per questo trovare soddisfazione e rivolgersi ad altri più ‘avanzati’. Infatti, non a caso in Sardegna gli esodi sono avvenuti in coincidenza con l’avvio del decollo economico e la crescita dell’occupazione. Tutto sommato anche i flussi migratori che oggi si avviano verso l’Italia e l’Europa non provengono da paesi in via di sviluppo con indicatori economici in costante crescita (la Cina e l’India sono  paesi che continuano indisturbati a distribuire popolazione in tutto il mondo)? Certamente il problema del risentimento di chi è rimasto nei confronti di chi è uscito in Sardegna  è ancora più complesso di quanto non riveli la mia semplificazione, perché a ciò si aggiungono cause psicologiche ? la gelosia, l’invidia per il coraggio avuto di rompere con il sistema e per l’eventuale riuscita nell’avventura migratoria, l’ostentazione per il successo ottenuto, il risentimento per la fuga dal nucleo familiare, ecc. ?, o politiche ?l’insofferenza e il disprezzo della cultura politica e amministrativa che governa il sistema che si reputa da paese di terzo mondo –  e così via..

Durante il Ventennio la minaccia più temuta era “Ti sbatto in Sardegna!”. In effetti questa visione ha penalizzato anche i sardi che emigravano nel Continente che divenivano frequentemente soggetti di discriminazioni e pregiudizi. Le viene in mente qualche esempio? Mah! Questa del sardo discriminato nel ‘Continente’ è stata un po’ la nostra percezione, frutto forse dello stato d’animo dell’isolano, per natura solitario, pieno di ombre e permaloso, indotto a vedere organiche azioni discriminatorie e razziste nei suoi confronti in ogni minimo gesto. In realtà, anche dalle testimonianze che ho raccolto in giro, il ‘sardo’ è uno degli italiani più ben voluti. Anche se un po’preso in giro per il suo fisico sovente sgraziato e la sua parlata pesante (ma non più di campani o siciliani o veneti) è stato sempre apprezzato per la sua riservatezza, la laboriosità e la capacità di legare in profondo con gli altri esseri umani. Anzi, ho constatato che proprio nell’Europa continentale, dove la gente ama la riservatezza e farsi i fatti propri e ha fatto della privacy un fondamento del proprio modo di vivere, il sardo ? che non fa il fracassone nelle piazze, che non si mostra invadente nelle relazioni umane e sul lavoro riga dritto senza le furberie che di solito caratterizzano gli italiani (soprattutto meridionali) ?, alla fine è apprezzato più di tutti. Anche il ‘ti sbatto in Sardegna’, ? minaccia amplificata nel ventennio ? che riguardava i funzionari pubblici continentali da punire, in fondo si basa su un timore teorico e iniziale quando l’Isola era raggiungibile con molto difficoltà e la si riteneva popolata di banditi. Infatti credo che sia un po’ a conoscenza di tutti noi sardi che gran parte dei ‘continentali’ che sono arrivati qui perché ‘sbattuti’ (nel caso del regime fascista questi poterono subito apprezzare che in Sardegna esso era abbastanza blando e la gente lo prendeva meno sul serio) si siano fermati e con loro anche le generazioni successive sono rimaste ben contente di stare da noi.

Rispetto alle altre comunità di emigrati,  quelle sarde sono le più attive e anche, a distanza di anni, quelle che hanno saputo mantenere una certa coesione interna sfatando il detto “chentu concas chentu berrittas”. Come spiega il fatto che il sardo all’estero diventi più collaborativo e sopratutto più attivo? La spiegazione del sardo ‘diverso e migliore’ all’estero credo che sia semplicemente sociologica e si leghi un po’ alle cose già dette. Il sardo  in Sardegna è così come lo rappresenta una certa iconografia corrente soprattutto perché l’isolamento, la mancanza di contatti, il sistema, ecc. forgiandone di conseguenza anche il carattere, lo rendono cosiffatto. Non appena il sardo si rende conto che il mondo che lo circonda non gli va bene incomincia a emigrare (‘socializzazione anticipatoria’) e quando si trova fuori è ben felice di trovare il mondo che nel suo inconscio e senza ancora piena consapevolezza cercava. Guarda caso quello nel quale, appunto, si collabora di più, ci si comprende meglio, si uniscono le forze e non si vive e si lavora isolati. Questo fenomeno tuttavia ha comportato spesso una sorta di scissione della personalità. Da un lato il sardo che vive all’estero appare immediatamente uniformato alla cultura del paese ospitante: è aperto mentalmente, si inserisce nelle gerarchie lavorative e sociali, coopera alla riuscita sociale, ecc. Dall’altro, non appena si relaziona o con la comunità di sardi oppure quando torna in Sardegna (magari per le vacanze) nello stesso individuo tendono a riapparire i caratteri tipici della sua terra: esclusivo, geloso, conservatore in famiglia, diffidente, ecc. Frequentando i circoli dei sardi all’estero e conoscendo molti conterranei sono rimasto sempre sbalordito di questa scissione della personalità, che tuttavia si spiega probabilmente con processi di assimilazione della nuova cultura non ancora conclusi e con l’attrazione che ancora esercita nel profondo la cultura di origine. Spesso occorre più di una generazione per superare questa contraddizione.

Riallacciandomi al discorso precendente, nel suo libro I sardi nel mondo, parla dei lavoratori sardi che, una volta emigrati, diventavano quasi degli stakanovisti. Questa instancabilità dei sardi all’estero era dovuta più al volere a tutti i costi guadagnare quanto possibile per poter rientrare in Sardegna e riscattarsi o era un modo per alienarsi completamente e vincere così le difficoltà dovute allo sradicamento? Lo stakanovismo all’estero è quasi una condizione generali di tutti gli immigrati. In primo luogo perché hanno scelto di andare all’estero per migliorare la loro condizione, soprattutto economica, è per ciò hanno messo nel conto di dover lavorare instancabilmente. In secondo luogo, perché capiscono che la comunità ospitante non li accetterebbe se non mostrassero una ‘marcia in più’ dei residenti.  In terzo luogo, dal momento che per doversi allineare con questi ultimi, debbono dotarsi di alcune essenziali basi materiali di partenza: superare handicap linguistici, formarsi una famiglia, ecc., perciò sono costretti a lavorare molto più duramente degli altri. Infatti non a caso due su tre di quanti emigrano tornano indietro. L’esperienza migratoria è molto selettiva, e alla selezione di partenza si aggiunge quella della permanenza che è diviene ancora più dura, soprattutto quando si sta in un paese straniero, si è culturalmente ancora molto indietro e gli affetti sono lontani. Così l’emigrazione funziona nei vent’anni, dopo è difficilissima perché la personalità ormai si è plasmata e si mostra sempre meno adattabile. E’ vero che una molla potente è il desiderio del ‘rientro’, presente in tutti gli immigrati, non solo sardi. Ma questa componente è oltremodo ‘mitica’ perché quasi tutti sanno che difficilmente si materializzerà. E’ un sentimento, questo del rientro, che serve a tranquillizzare le mamme piangenti, a illudere se stessi che si tratta in fondo di un tempo transitorio della propria esistenza (tutti coloro che emigrano promettono che lo faranno per il tempo strettamente necessario per guadagnare qualcosa e poi torneranno), ma chi ‘agisce’ da vero ‘emigrato’ sa che la strada è senza ritorno. Intanto perché ogni volta che prova a prendere questa via gli saranno sempre più nitidamente presenti le ragioni che lo hanno spinto a ‘fuggire’. Poi perché la sua ‘vocazione’ era di trovarsi in un luogo diverso e migliore da quello di origine (in caso contrario sarebbe rientrato subito). Terzo, cammin facendo, si sarà probabilmente  formato una famiglia e i suoi figli – figli della nuova società ospitante – lo costringeranno a rientrare nella sua terra solo per le vacanze. Non a caso con la morte della madre spesso molti rarefanno i rientri nella terra d’origine e lentamente si preparano a tagliare il cordone ombelicale con questa. E ciò nonostante la nostalgia divenga sempre più struggente soprattutto col passare degli anni. Ho visto molti piangere per causa sua, ma anche rassegnarsi definitivamente.

Per i sardi “su disterru” è un vero e proprio stato d’animo. Come mai la nostalgia di una terra che, in fondo, li aveva cacciati è così forte nei sardi? Ha avuto modo di conoscere qualche storia particolare? Quando si è giovani sembra che le radici con la propria terra siano tenui, ma a mano a mano che si avanza negli anni queste si rafforzano sempre di più e il richiamo della ‘foresta’ diviene sempre più irresistibile. Il fenomeno è più accentuato negli isolani, perché l’isola radica e alimenta di più le persone e questo sentimento di appartenenza che nei sardi lentamente finisce per forgiare il carattere rendendoli il più delle volte sempre più chiusi e melanconici. E’ il prezzo che la prima generazione di solito deve pagare per avere una condizione migliore, anche chi riesce a tornare indietro alla fine della propria esperienza migratoria. Infatti alcuni che sperimentano il rientro in pensione o quello sporadico per certi periodi dell’anno, in ultima analisi difficilmente riescono a migliorare la propria condizione generale perché comunque quello del rientro in concreto appare per quello che è, ossia un mito. Un mito al quale non corrisponde quasi mai una realtà, perché la terra che hanno abbandonato nel frattempo è cambiata e anche loro sono molto diversi da come erano quando sono partiti (e in molti addirittura incomincia a sopraggiungere anche la nostalgia per la terra che li ha ospitati e nella quale hanno ancora tanti amici o addirittura i figli). Non è un caso che quando si rientra si rappresenta il fenomeno come una ‘seconda’ emigrazione. Dopo di che si innestano anche riscatti e rivincite. L’acquisto della casa in Sardegna  spesso suona come ostentazione di successo riuscito nell’emigrazione (come lo sgommare in paese delle Mercedes dei primi emigrati in Germania), un’affermazione però che spesso non è gradita alla collettività che isola ed emargina ancora di più chi, dopo esserne ‘uscito’, pretende di rientrare da vincitore (altro motivo di risentimento). Ma si innestano anche disagi. Solitamente nel nuovo ‘emigrato’ riecheggia sempre il raffronto tra i servizi del paese di origine e quelli che trova al suo rientro. Così finisce per essere un eterno brontolone capace anche di infastidire ogni volta fa riferimento o esalta quelle cose che funzionavano meglio in Francia o in Olanda. Infatti, dopo le prime volte la gente ascolta estasiata e stupefatta i racconti della civiltà ‘superiore’, alla fine reagisce negativamente e incomincia a non accettare più critiche del ‘rientrato’ (‘perché non te ne torni in Germania se qui non stai bene?). E così, come riemergono in lui le ragioni che lo avevano spinto a emigrare, trovandosi in un  ‘cul de sac’, diventa un eterno insoddisfatto. Quando era in Germania non faceva che decantare il senso di amicizia e di simpatia dei sardi, il bel clima e il bel suolo della sua terra contro l’antipatia dei crucchi e del clima plumbeo della terra teutonica, come rientra in Sardegna non fa che elogiare il funzionamento della Germania cui contrappone il pessimo funzionamento dei servizi in Sardegna. Da qui a diventare disadattati e isolarsi il passo può diventare breve. Una volta, quando dirigevo l’ufficio emigrazione della Regione,  venne a trovarmi un barbiere che si trasferiva dall’Inghilterra in un paese dell’hinterland di Cagliari. Poiché si mostrò carico di entusiasmo lo pregai di venirmi a trovare in seguito per raccontarmi come andava la sua esperienza. Tornò dopo sei mesi circa per dirmi che se ne tornava in Inghilterra: in paese non si prendevano appuntamenti, tutti venivano alla bottega per fare salotto costringendolo a chiudere alle nove o le dieci di sera, dopo pranzo l’attività si fermava per tre ore e…poi i figli erano in Inghilterra e gli mancavano.

Eppure, una buona percentuale dei sardi all’estero dedica all’Isola gli anni della pensione o non perde l’occasione di comprar casa per potervi trascorrere le vacanze. Si potrebbe considerare come un tentativo per chiudere un cerchio aperto al momento della partenza? Quasi un tentativo di riscatto? Nell’incontro di civiltà è difficile che una possa essere totalmente prevalente sull’altra. Anche quando si procede verso la società che attrae (per ragioni, economiche, di stili di vita, climatiche, ecc.) ci sono sempre degli ‘oggetti’ nel bagaglio di chi emigra che comunque, nella loro specificità antropologica, sono ‘superiori’ a quelli della società ospitante. Per l’Italia questa è stata la cucina, la moda, lo stile di vita amicale e familiare. Questo è solitamente l’apporto degli emigrati italiani che, muovendosi, hanno conquistato il mondo con la pizza e la pasta, l’opera, la canzone napoletana, lo stile, il bel vestire, ecc. Questo patrimonio, poi, nella psicologia di chi emigra fa parte delle cose che non si sarebbero mai volute abbandonare e che in ogni caso si è deciso di portarsi sempre appresso (solo in casi estremi di rottura col proprio contesto di origine mi è capitato di conoscere chi non voleva sentire neanche di queste cose). Quando, poi, come capita in questi casi, l’esigenza di conservare tratti della propria cultura coincide col fatto che questi nel frattempo siano divenuti egemoni anche nella società ospitante il successo diventa completo, e allora il mangiare alla ‘sarda’ o all’italiana diventa non solo un tratto distintivo della propria cultura ma anche di interloquire con gli altri sempre estremamente contenti di assaporare gusti ‘superiori’ di una variabile di quella che è diventata la cucina egemone, quella italiana. Il successo delle ‘feste’ che ancora fanno molti circoli degli emigrati sardi, coinvolgendo le comunità che li ospitano o sono loro vicine, rappresentano l’esempio migliore di come tutti approvino i ‘valori’ culinari, musicali, folkloristici e artigianali che i nostri corregionali portano e diffondono all’estero. Pensi che in una cittadina della Lombardia erano talmente organizzati che arrostivano e vendevano panini con porchetto stile fast food mentre i poveri animaletti giravano poco distante.

Nei sardi all’estero è forte anche la tutela e la salvaguardia delle identità. I cibi  vanno preparati secondo la ricetta del paese di provenienza, la lingua ufficiale tra conterranei rimane spesso il sardo ed è sempre sa limba a riempire le pagine della letteratura dell’emigrazione sarda. Il sardo diviene spesso uno dei pochi fili solidi tra gli emigrati e la propria terra portando alcuni di loro a rifiutare le altre lingue in virtù di quella d’appartenenza. Ha avuto modo di conoscere qualche situazione particolare? L’aspetto linguistico è un po’ complicato. In poche parole si può dire che vale per i sardi ciò che vale per tutti gli altri italiani: il dialetto era la loro vera lingua e non certo lo era l’italiano ufficiale insegnato a scuola. Quando  i migranti italiani arrivavano a Ellis Island l’interprete che li sentiva parlare il calabrese o il siciliano, senza capirci una parola, rivolto all’agente dell’immigrazione americana diceva: “questo non è un italiano”! Dopo di ché va detto che la lingua rappresenta il legame con la madre terra, usarla significa tenere stretto quel legame. Ma crogiolarsi in essa, come hanno fatto molti emigrati, soprattutto con l’avanzare dell’età, significa spesso anche emarginarsi dal contesto ospitante e votarsi al minor successo  se non addirittura nel fallimento. Per esempio, ci si chiude nella propria lingua quando ci si sposa tra corregionali, e in questo caso gli effetti negativi superano quelli positivi: i figli hanno difficoltà nella scuola e nella socializzazione perché in casa sentono parlare il ‘sardo’ (e neanche l’italiano), ci si emargina rispetto alle amicizie con gli stranieri e nel lavoro per cui, non praticando a sufficienza la lingua, si rivestono ruoli marginali, ecc. Inoltre il desiderio di rientrare in Sardegna, divenendo sempre più impellente, per le ragioni suesposte, appare in tutta la sua drammaticità. Tutta la letteratura in limba dell’emigrazione, seguendo il leit motiv della nostalgia struggente, del dolore della propria terra, ecc., se fa bene alla poesia fa male alla sociologia perché è segno spesso del mancato inserimento del migrante nella società ospitante, col rischio che questa sarà la sorte definitiva per la stragrande maggioranza dei migranti che si riconoscono eccessivamente nella loro identità linguistica e culturale. Altre volte poi ci si colloca addirittura in una zona franca, perché  il più delle volte la lingua coltivata in emigrazione non è neanche più attuale nella zona della Sardegna dalla quale provengono (in questi casi fa la gioia dei glottologi che studiano queste forme che si sono conservate meglio nel tempo, soprattutto negli emigrati anziani). E’ indubbiamente una grande ricchezza culturale quella della lingua d’origine, ma l’effetto finale però, spesso, è l’amara rappresentazione di un mondo che non c’è più e nel quale ci si riconoscono sempre meno persone. I am sorry!

Quanto i sardi che vivono nell’Isola sanno dei conterranei all’estero? Circa la conoscenza delle condizioni di vita che ciascun sardo ha di coloro che vivono fuori, il discorso ci riporta a quanto detto all’inizio. Poiché il sardo in qualche modo non vuole fare pubblicità di questa ‘macchia’ che ha caratterizzato la sua famiglia, ma poiché la gran parte delle famiglie sarde hanno avuto emigrati, alla fine tutti conoscono almeno una fetta di realtà, sia pure limitata agli emigrati della propria cerchia. Tuttavia sembrano che non amino farne parola e quando gli si interroga difficilmente hanno voglia di sbottonarsi (a meno che non si riferiscano a emigrati che hanno avuto successo). Quindi a scavare un po’ su questo tema si scopre, per esempio, che esiste anche una certa comunicazione tra chi è emigrato e i loro familiari, ma l’atteggiamento è come se si avesse un familiare in carcere: gli si vuol bene, sì, lo si sente spesso, magari lo si va pure a trovare, ma si preferisce non farne pubblicità. Questo, tranne rari casi, rende difficile anche la frequentazione tra parenti lontani, anche se qualche volta viene sfruttata dai parenti più giovani che si conoscono in vacanza in Sardegna e poi magari instaurano un rapporto che giova anche al ragazzo sardo in quanto ha maggiori opportunità di imparare una lingua e studiare all’estero, proprio grazie agli ‘zii’. Ma questa rete, che pure esiste in Sardegna, è più misteriosa e silenziosa della mafia. Per il resto tutti i tentativi fatti dai media, sia livello della nostra regione che del Paese in generale rivolti a dare più visibilità al fenomeno, sono destinati a cadere nell’indifferenza più totale oppure destano dal torpore l’opinione pubblica per un poco quando se ne occupano giornalisti di un certo livello, come Stella appunto, o conduttrici come Raffaella Carrà nei suoi programmi di incontri con gli italiani all’estero, ma per il resto è acqua che scorre sulla roccia. Talvolta sembra di assistere a uno scatto di orgoglio quando qualche italiano all’estero si afferma per qualche scoperta scientifica, ma, anche in questi casi poiché il tutto si mescola con i sensi di colpa che ci sorgono perché facciano scappare i cervelli all’estero, sembra quasi che come lo abbiamo aperto tutti abbiamo voglia di chiudere rapidamente il capitolo. Avendo constatato drammaticamente questo fenomeno ed essendone rimasto sempre molto colpito, non mi è rimasto che darmi una spiegazione con le ragioni che ho esposto all’inizio.

Circoli sardi come ambasciatori di storia e cultura. Concorda con questa affermazione? Può essere  considerata realistica o è ancora un’utopia? I circoli sardi, soprattutto oggi, costituiscono un bel problema (ma nondimeno anche quelli italiani in generale), anche se apparentemente sembrano ben strutturati e organizzati. In realtà la gran parte purtroppo esistono sempre più solo sulla carta o si identificano con un esiguo gruppo di dirigenti che sembra intento solo a…trasferire le loro attività sociali in cimitero. La ragione è che essi rispecchiano un temperie sociale dei primordi dell’emigrazione che oggi non esiste più e non essendosi rinnovati sotto il profilo anagrafico sono diventati sedi di gestione della nostalgia e luoghi, sempre meno frequentati, dove si organizzano cose sempre meno attraenti per la maggior parte della collettività. D’altro canto i tentativi di coinvolgere le giovani generazioni (che sentono non meno dei loro padri l’attrazione della terra di origine) sono andati sempre male a causa dell’opposizione dei ‘vecchi’ a modelli di aggregazione e di interazione tra giovani che non rispecchiassero rigidamente quelli tradizionali (ossia le quattro mura del circolo tradizionale dove si era poteva consumare un pezzo di Sardegna). A un certo punto della storia della Regione si è cercato di caricare queste organizzazioni del compito di relazionarsi col mondo esterno eleggendole quasi ad ‘ambasciate’ della Sardegna. Ma questo tentativo non è mai riuscito, anche perché il profilo intellettuale, culturale, economico e dell’inserimento sociale dei propri membri – sui quali si dovevano basare queste azioni – era generalmente molto modesto perché potessero attendere adeguatamente a questi compiti. Infatti non bisogna dimenticare che i circoli sardi nascevano tra e per gli  ‘operai’ e i ‘lavoratori’ ai primordi dell’esperienza migratoria con la funzione fondamentale di aiutarli a sopportare meglio la loro esperienza, e perciò in essi si radunavano gli strati più marginali dell’emigrazione sarda. La Regione li aveva concepiti e finanziati, fin dal 1965 (prima regione in Italia), proprio come luogo di assistenza, sorta di ‘centri di prima accoglienza’, ideati per non far sentire troppo lontana la loro terra, inviando periodicamente gruppi folk, conferenzieri che parlassero di Sardegna, favorendo la circolazione di prodotti sardi, ecc. Questa natura non l’hanno mai persa, anche se alcuni, grazie a leader particolarmente carismatici, sono riusciti a diventare punto di riferimento nella comunità ospitante e altri, eccezionalmente, hanno potuto – soprattutto nelle grandi città – attirare sardi di un certo livello che consentivano così di inserire l’isola e le sue istanze in certi ambienti. Ma, come capita in tutto il mondo, i sardi di un certo livello frequentano italiani o stranieri di un certo livello. Frequenterebbe, lei, all’estero o da altre parti una ragazza appena conosciuta, ma che fa la domestica con appena la licenza elementare? Si, forse perché è simpatica e spiritosa, perché è dolce e affettuosa, perché è pure sarda… ma ci farebbe programmi di espansione culturale, coltiverebbe progetti professionali ambiziosi? Anche se in teoria possibile – non poche  volte mi è capitato di conoscere modesti operai con stoffa di leader che hanno fatto del bene alla propria associazione sotto questo punto di vista più di tanti uomini colti che invece si tenevano lontani da queste realtà associative – in genere tranne che nelle favole non capita che cenerentola sposi il principe. Fuori della metafora questo è quanto accaduto: quando abbiamo cercato di far fare ai circoli salti di qualità nelle relazioni col mondo esterno i limiti culturale e professionali dei loro dirigenti sono venuti presto a galla  e alla fine poco o nulla si è potuto fare. Anche perché c’è un altro problema. Prima che si sviluppi una classe di dirigenti di associazioni  di una certa levatura è necessario che passi almeno una generazione. Il padre che emigra è un operaio, il figlio diventa un dottore. Allora i conti tornano. Ma se il padre non fa entrare il figlio nel circolo – perché di ‘cose’ di Sardegna se ne intende solo il padre che vi è nato- , cosa succede? Succede che il figlio si allontana e noi non disponiamo se non raramente di esponenti di nuove generazioni – professionalmente più riusciti e socialmente più inseriti – in grado di rappresentarci all’estero. Questo in soldoni il problema.

Cosa potrebbero fare i circoli dei sardi per la promozione della Sardegna? E’ chiaro che la realtà associazionistica è datata, com’è datata l’esperienza migratoria. Oggi si assiste a una ripresa dei flussi, si dice, ma i caratteri sono diversi. Non solo perché in prevalenza si tratta di intellettuali e ‘cervelli’ che escono, ma anche perché manca il carattere di ‘massa’ che consentiva di definire l’esodo massiccio del dopoguerra come un flusso migratorio. Oggi solo l’ 1,6% degli europei si sposta all’interno Europa. Normale mobilità del lavoro. I giovani ricercatori e i laureati che possono farlo si dirigono verso i centri nei quali viene loro assicurato un impiego che qui non è possibile. Il problema è alquanto diverso, dunque. Del resto i flussi migratori, come tutti i fenomeni storici, sono datati: con loro iniziano e, poi, finiscono gli uomini e con essi le loro costruzioni, materiali e sociali. Qualcuno ci rimprovererebbe perché non abitiamo più nei nuraghi? Con l’emigrazione sarda si è chiusa una stagione, sulla quale si potrà fare ancora analisi storica e sociale, ma, secondo me, è difficile che si possa fare dell’attualità. Anche se non escludo che si possano fare ‘alcune’ cose concrete. Del tipo: ho un’intrapresa economica, mi voglio espandere, entro in contatto con imprenditori di origine italiana (o sarda) all’estero, in questo caso la nostra comune origine oggettivamente aiuta a intenderci e a progettare delle cose da fare in comune. Ma , come mi ha insegnato l’esperienza, certamente se non vi è il business la comune appartenenza etnica non fa miracoli. Ed è quello che oggi si sta cercando di fare soprattutto a livello di piccole e medie iniziative culturali o economiche, perché il grande sa già dove andare e il suo discorso – evidentemente multinazionale e globale – supera per definizione le barriere etniche. Col piccolo, invece, funziona. Un recente articolo dell’Economist spiegava come questa rete stia dando i suoi frutti tra gli indiani sparsi in tutto il mondo a vantaggio di quelli che risiedono nell’India. Dire ‘sono sarda’ come tuo padre, sicuramente apre una porta, ma per entrare in casa poi occorre avere tutte le altre cose. Questo è quello che, secondo me, si può fare fintanto che l’assimilazione dell’etnia originaria si sia consumata nel corso delle generazioni facendoci tutti, senza distinzioni, discendenti di Adamo ed Eva. Ossia la cosa più probabile è che i giovani sardi, che non hanno più quel ‘risentimento’ storico nei confronti dei loro corregionali ‘emigrati, possano collegarsi con i loro coetanei -figli di sardi e ancora attratti dalla comune origine – e cercare di fare quello che i loro genitori, divisi da una barriera psicologica, non sono riusciti a realizzare: aiutarsi negli studi, trovare insieme opportunità lavorative, collegarsi tra di loro. Gli ebrei così sono divenuti rispettati (anche se non sempre) e temuti (di più) in tutto il mondo. Altri, come gli anglosassoni, hanno egemonizzato la cultura  e l’economia mondiale (anche se apparentemente non appaiono i nessi che li stringono). I sardi, rispetto agli altri italiani, hanno un vantaggio: l’isola. L’isola consente di mantenere i legami stretti per qualche generazione in più della ‘penisola’. Ecco perché l’opportunità forse è ancora a portata di mano.

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