IL 1° MAGGIO A TORINO, FESTA DEL LAVORO CHE NON C'E': NON RESTA CHE EMIGRARE?

è numerosa la comunità dei sardi emigrati a Torino e nel suo hinterland


di Bruna Murgia

Sotto un cielo ombreggiato da nuvole incerte e un tiepido e solitario sole che fa capolino nella piazza, arrivano i partecipanti alla ricorrenza della festa dei lavoratori; e di tutte quelle persone che il lavoro lo stanno ancora cercando o, magari, aspettando. Fonti ufficiali quantificano in 20.000 le persone presenti a dare significato a questa giornata che vuole essere un richiamo all’unità, ma prima di ogni altra, assume le caratteristiche della protesta ad opera di alcuni contro il sindaco di Torino all’inizio del corteo. Dissenzienti giovani vite caratterizzate dall’appartenenza “ai centri sociali”, e di sociale declamano una parte oscura; quella che non si confronta, ma piuttosto si scontra con tutto ciò che non è da essi condiviso e affidano alla cronaca l’irrazionalità delle loro azioni caratterizzate, perlopiù, da gesti violenti.

È la festa dei lavoratori: ogni categoria sociale è presente nella piazza San Carlo e porta uno striscione che racconta in breve la loro storia, il desiderio di riaffermare che il lavoro, il valore per eccellenza è da ri-conquistare. Sono operai, impiegati, insegnanti, educatori, lavoratori disabili, badanti, lavoratori immigrati, amministratori della giustizia, esodati… . Persone che in questo giorno chiedono al governo di fermarsi a guardare l’impatto di tali e complesse scelte che, verosimilmente, hanno rimesso il Paese in linea con l’Europa, ma ricadono così pesantemente sulla collettività.

Le parole del primo cittadino della città, Piero Fassino, che pure dell’equità e del valore dell’uguaglianza sociale si è sempre fatto portare e con convinzione, oggi costretto, come molti altri amministratori locali, a stringere la cinghia dei suoi concittadini, sono accolte da una bordata di fischi a cui fa seguito l’applauso di coloro che davvero vogliono capire come e quali risorse la città intende mettere in campo per vivere e – si spera presto –  superare la crisi che stiamo attraversando. È sul finire delle sue parole che sulla piazza arriva un gruppo di sardi con le bandiere dei quattro mori; si fanno largo tra la folla e prendono posto accanto al tricolore che tutti ci accomuna. Sono persone che vivono in Torino da venti, trenta, cinquanta e oltre anni che fanno i conti con i cambiamenti piuttosto radicali che la città sta vivendo. L’origine dell’emigrazione dei sardi risale agli cinquanta e prosegue in modo massiccio fino agli anni settanta; ha origini soprattutto urbane, a causa della crisi mineraria, cui ha fatto seguito un fenomeno di deruralizzazione che ha coinvolto molti giovani e in modo significativo le zone di Logudoro, la Planargia e il Campidano. Il Piemonte era una delle regioni con il maggior numero di immigrati, seguito dalla Lombardia, il Lazio e la Liguria. Torino era la città che accoglieva un numero altissimo di immigranti e la Fiat ha dato a molti di essi la possibilità di guardare al futuro per sé e per i propri figli. Una grande azienda che estendeva concrete possibilità di lavoro a quelle innumerevoli altre piccole ditte artigianali dell’indotto sparse sul territorio piemontese e che oggi, a causa della delocalizzazione della produzione, sono pressoché scomparse. Qualcuno si lascia sfuggire che “di questo passo neppure la Fiat ci sarà più”. L’assenza di regole certe, atte a mantenere gli equilibri del diritto sacrosanto delle aziende di andare a produrre altrove – soprattutto nei Paesi in cui l’organigramma statale e fiscale consente ai cittadini di vivere con stipendi inferiori – non ha consentito, nel contempo, di tutelare e garantire adeguatamente il lavoro nel nostro Paese. Sono uomini che dimostrano un’età che varia dai sessanta ai quaranta anni che hanno figli e nipoti che studiano e sono, in pari tempo, alla ricerca di un lavoro che consenta loro di portarli a termine, perché la pensione e/o la remunerazione della cassa integrazione non bastano più. Sono uomini come tanti e come tanti, per una ragione o per un’altra, vivono con poco più di mille euro al mese e sperano, nell’attesa di un atto provvidenziale concreto del governo in cui si individui una riforma del mercato del lavoro che rilanci il Paese sul piano economico. Non sfugge la considerazione di questi uomini che, al di là di situazioni personali, si domandano dove saranno collocati i lavoratori che hanno superato i quaranta anni e non sono vecchi, ma neppure giovani, che hanno già perso il lavoro e di quanti altri lavorano due o tre giorni alla settimana e compensano con la cassa integrazione.

Oggi Torino si presenta come una città cosmopolita in cui sono evidenti processi di inclusione che l’hanno resa più accogliente, bella e più interessante, anche grazie alle azioni concrete di rivalutazione di un patrimonio artistico culturale che richiama parecchi turisti nel corso dell’anno, ma lavoro non se ne trova e il precariato la fa da padrone. Non conosco i nomi di queste persone, né ho voluto conoscerli perché so che sono gli stessi di tanti padri di famiglia, mamme, fratelli e sorelle; che la loro storia ci accomuna e ci rende speculari in una società così composita; ognuno portatore di un valore inestimabile da mettere in comune per superare, uniti, le difficoltà che stiamo vivendo.

La piazza urla il suo dissenso, talvolta usa parole forti che rischiano di spezzare la coesione necessaria in un momento come questo, ma, nello sventolio delle bandiere, si odono anche le voci di tante persone convinte e consapevoli che l’unione negli intenti è lo strumento per eccellenza, indispensabile per rivendicare con forza i diritti della moltitudine. La voce di persone capaci di manifestare un dissenso costruttivo che porta al confronto, e lascia fuori della porta ogni altro progetto di divisione che renderebbe ancor più precarie le nostre esistenze e quelle dei nostri figli. Persone consapevoli che verosimilmente non sono più tempi di emigrazione interna, ma piuttosto occorre guardare fuori dell’Italia, ad altri Paesi in cui provare a cercare il volto del futuro. Forse, però, resta lo spazio per pensare che ognuno di noi può fare la sua parte per riuscire ad affrontare le difficoltà che ci attendono; così da riuscire a guardare negli occhi dei nostri bambini e ascoltarli quando leggeranno nella storia di domani quanto siamo stati capaci di fare per noi e per loro. Uniti sotto il vessillo del Paese che ne ingloba uno per ogni regione che lo compone e s’imprime con forza nella coesione dei paesi comunitari, perché tutti siamo cittadini del mondo oggi, e lo saremo ancora domani quando nella piazza tornerà il silenzio. Un silenzio in cui ascoltare la chiara voce degli intenti che ripartano dall’onestà di tutti i lavoratori che hanno contribuito a rendere grande il nostro Paese e vogliono continuare a farlo. Lavoratori capaci di ripensarsi in mansioni diverse da quelle del passato, che si esplicano nella realizzazione concreta di tutti quei progetti che mettono d’accordo tecnologia, progresso e qualità della vita di cui tanto si parla, ma stentano a trovare lo spazio necessario. Lavoratori che vorrebbero scegliere in piena libertà se emigrare o restare.

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