FAROUK KASSAM E LA SUA SECONDA VITA: L'AMORE E GLI STUDI A LOS ANGELES, I RICORDI DELLA PRIGIONIA

Farouk Kassam


di Nicola Pinna – Unione Sarda

 

Ai nuovi amici americani si è presentato così: «Io sono Farouk, un ragazzo semplice, con una storia terribile, reso più forte da questa brutta esperienza». Bruttissima, come può esserlo solo un sequestro: quasi sei mesi di prigionia, 177 giorni in una grotta tra i boschi. Vent’anni dopo, quel bimbo con l’orecchio mozzato dai rapitori, ha costruito lontano da Porto Cervo la seconda vita: studia commercio internazionale a Los Angeles, vive tra Beverly Hills e Santa Monica e sogna Hollywood. «Un film sì, ma niente reality show».

Cos’hai raccontato della tua storia ai colleghi dell’università? «Di solito non dico niente, mi espongo su questa storia solo se me lo chiedono o se vedo che vorrebbero sapere ma non osano. Gli italiani che ho conosciuto a Los Angeles sapevano già tutto: “Ma tu sei quel Farouk?”».

La sera del 15 gennaio a Porto Cervo. Cosa accade? «Avevamo appena cenato. Io e Nour, mia sorella, stavamo andando a letto, mi ero già messo il pigiama. A un certo punto si è sentito un rumore fortissimo che veniva dal piano di sotto. Una persona è salita in camera, mi ha preso in spalla e mi ha portato in cucina. Qualcun altro ha rinchiuso Nour in un armadio, poi se l’è presa con mia madre e l’ha legata in cantina. Io mi sono trovato con una pistola alla tempia, di fronte a mio padre legato. Un bandito gli ha detto qualcosa che non ho capito bene, ma il significato era chiaro: per riavere suo figlio doveva pagare un riscatto».

Così è iniziato l’incubo. «Mi hanno caricato in macchina e per farmi dormire mi hanno dato un sonnifero. Non ricordo nulla, il viaggio è durato quasi due ore».

Il 9 maggio era il tuo compleanno. C’era poco da festeggiare. «Non sapevo neanche fosse il mio compleanno. Per me ogni giorno era lo stesso. Per 6 mesi ho perso la cognizione del tempo».

È arrivata l’ora del perdono? «È difficile perdonare un amico che ti tradisce, figuriamoci una persona che ti ha fatto soffrire fisicamente e mentalmente. Hanno fatto del male a me, alla mia famiglia, agli amici e alla gente che ha pianto per me».

Quanto ci è voluto per ritrovare la serenità? «Parecchi anni: anche quando pensavo di esserci riuscito ripiombavo nell’incubo. Vivere a Los Angeles mi ha aiutato. Qui non sono il “piccolo Farouk” ma una persona normale. Qui Farouk Kassam non vuol dire niente».

I banditi ti dicevano che eri stato affidato a loro da papà. «Mi dicevano che mio padre doveva fare dei lavori in albergo e non mi voleva in mezzo ai piedi. Io ci avevo creduto, avevo sette anni. Dopo mesi ho capito che mi prendevano in giro. Non era possibile, erano troppo cattivi. Mi nutrivano con il grasso di maiale e se non mangiavo arrivava la frustatina. Poi l’orecchio…».

Ti vietavano tutto. Anche i bisogni. «Con un pò di immaginazione potete capire da soli come facevo».

Poi è arrivato il giorno della mutilazione. «Hanno detto che mi avrebbero tagliato i capelli: mi hanno rasato, con uno spray hanno gelato l’orecchio e poi, tac, un bel colpo di forbice. È incredibile come una persona possa fare una cosa del genere, tagliare l’orecchio a un bambino… Ce ne vuole coraggio»

Matteo Boe lo chiamavi l’uomo nero. E gli altri soprannomi li ricordi ancora? «Certo, Antonio e Beppe. Ma non glieli ho dati io i soprannomi, mi avevano detto loro di chiamarli cosi».

La casetta disegnata sulla roccia: rappresentava il sogno di un bambino che voleva essere libero? «Tornare a casa era tutto in quel momento. Grazie a quella casetta si è avuta la prova che la grotta era stata la mia prigione».

Le prime parole di mamma dopo la liberazione? «È incredibile, ma non me lo ricordo».

Ma papà te l’ha svelato se è stato pagato davvero il riscatto? «Non so nulla sul riscatto, è un segreto».

Chi è Matteo Boe? «Il mio sequestratore: non lo potrò dimenticare».

Li ricordi i nomi degli altri sequestratori? «Ciriaco Marras e Mario Asproni, se non sbaglio».

La giustizia ha fatto bene il suo corso? Qualcuno l’ha fatta franca. «Non potevano essere solo 3 o 4 a organizzare tutto. Qualcuno è in giro».

È sempre in piedi il progetto di tornare a vivere in Gallura? «Per ora no, ma non è legato al rapimento. Torno sempre in vacanza».

Il bar a Olbia: come mai hai mollato? «Ero impreparato e tutti mi venivano addosso, figuriamoci Farouk che apre un bar in Sardegna».

Sempre deciso a non rivolgerti a un chirurgo per ricostruire l’orecchio? «Mi piaccio cosi. Ogni tanto ci scherzo. Potrei lanciare una moda, c’è chi ha il piercing e chi l’orecchio tagliato».

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