QUATTRO CHIACCHIERE A CAGLIARI CON MILENA AGUS, CHE PARLA DEL SUO LIBRO "SOTTOSOPRA"

Milena Agus


di Michela Murgia

Non ti inteneriscono le scarpe di una persona? Io se vedo dormire qualcuno con le scarpe ancora indosso non riesco più ad essere arrabbiata con lui, se lo ero. Osserva le suole consunte, guarda come si sono deformate per la pressione dei piedi: come fai a volergliene ancora?” Dice cose come questa Milena Agus mentre beve una spremuta d’arancia seduta davanti a me nella caffetteria più antica di Cagliari, e lo dice come se fosse perfettamente normale guardare qualcun altro dalla prospettiva della pianta dei suoi piedi, costringendosi a misurare la rabbia che forse si meritava con i segni della strada che ha fatto, degli ostacoli in cui ha inciampato e con una stanchezza che gli fa dimenticare di levarsi le scarpe prima di abbandonarsi al sonno. Lei mi sorride candida, guardandosi attorno con quella spontaneità infantile che è da sempre parte integrante della sua personale leggenda naïve. È anche per cose come questa che Sottosopra, oltre ad essere il titolo del suo romanzo appena pubblicato per Nottetempo, potrebbe tranquillamente essere il soprannome di questa donna mite avvolta in una pelliccia sintetica che non si riesce quasi a farle sbottonare per poter rubare alla sua timidezza uno scatto fotografico più disinvolto. Usciamo dal caffè e passeggiamo verso il porto. La guardo muoversi lungo le scale del centro storico e mi rendo conto quanto i personaggi di questo libro le somiglino, tutti fuori scala rispetto a come il loro contesto pretenderebbe che fossero, ciascuno avulso dal concetto di normalità che Milena Agus non riconosce valido neanche per sé.

Si capisce quando arriviamo nel posto che ha scelto per la sua storia: è la Marina di Cagliari, un rione multietnico e colorato dove gli abitanti, vicini di casa troppo diretti del mar Mediterraneo, vengono chiamati dal resto della città col nomignolo impietoso di culus sfustus, culi fradici. Se per lei esiste una normalità, è quella di questo posto, fatta più che altro di suoni e di odori e costruita dentro a un modo di stare insieme che non sarebbe cosa normale in nessun altro luogo che questo. Tra le righe di Sottosopra c’è lo stesso odore di sugo al pomodoro, lo stesso rumore di voci lungo le scale strette e tutto il ritmo di un quartiere antico dove la gente ignora cosa sia la necessità di tener le porte chiuse;  Milena non abita qui, ma da come si guarda intorno incantata si capisce che non le sarebbe dispiaciuto. Passiamo radenti alle facciate delle case  dove i panni stesi e colorati si asciugano a un sole insolitamente caldo persino per il dicembre sardo. “È pieno di voci, di facce colorate, c’è tutto dentro.” A Milena piacciono le miniature di mondo, gli universi definiti e gli spazi dove l’occhio non si perde ma, al contrario, ritrova tutto. È la dimensione esistenziale tipica delle isole e credo che lei sappia che è proprio questa prospettiva minima a renderla capace di scrivere un romanzo senza quasi far uscire nessuno dal palazzo dove l’ha ambientato. Passeggiando per le viuzze calanti della Marina ho la sensazione che potrebbe sbucare da un momento all’altro da un sottoscala il signor Jhonson, l’anziano americano che nella vicenda vive al terzo piano, oppure Annina, la signora che gli rassetta casa prima di infilare il corpo soffice e non più giovane nei completini sexy che ha comprato per sedurlo. “C’è tanta voglia di innamorarsi tra persone anziane nel libro. Ti piace l’idea dell’amore a tarda età?” “È l’unico che dura – mi dice serafica – perché se ti innamori abbastanza vecchia hai la speranza di morire senza averne visto il declino. Non è consolante sapere che, dopo aver visto la fine di tante cose, si possa morire lasciando qualcosa di ancora vivo dietro di sé?” Penserei che mi nasconde un animo cinico se non fossi certa che quello che ha detto lo crede davvero. “Metti sempre quello che pensi in bocca ai tuoi personaggi?” “In ogni carattere lascio l’impronta delle persone che conosco, ma in questo romanzo Mr Jhonson è felice di quello che è e non vorrebbe essere di più né di meno: sono io.” “Niente nella storia va per il suo verso: sarde ricche e americani poveri, madri svampite e avventate e figlie rigide e severe, adulti fragili e bambini saggi, uomini gay che fanno un figlio, anziani che trasgrediscono il mito senile della pace dei sensi: sei sovversiva, lo sai?” Ride e nella sua risposta si intravede l’ombra lunga del deleddiano Canne al vento, libro che ama sin da ragazzina; è tra quelle pagine fatte di servi che uccidono i padroni e di figlie ribelli ai padri che forse ha capito che non c’è romanzo possibile senza regole infrante. Sottosopra però manca del tutto del sontuoso senso tragico deleddiano: persino la morte qui è maneggiata con delicatezza attraverso lo specchio delle metafore. “Sì, per me la morte è un paio di scarpe vuote”, mormora con uno sguardo che scoraggia ulteriori indagini. Torno prudentemente all’idea di maternità elettiva che ricorre spesso nei suoi libri, ma che forse mai come in questo romanzo fa apparire i rapporti di sangue come agenti patogeni: sembra che ciascuno si salvi solo attraverso le relazioni che ha scelto per sé. “Non credo tanto nella famiglia tradizionale. Guarda le donne della Marina: sono elefantesse di un branco dove i cuccioli sono di tutti. Dovremmo imparare da loro.” Mentre risaliamo le scale verso casa realizzo che parlare con lei è come leggerla: ti viene voglia di essere una che non ha più niente da dimostrare. Ricordo che nel gioco dei finti antagonismi tra critici letterari, una volta capitò che una penna più feroce di altri, forse credendo di inquadrarla al ribasso, coniasse per lei l’espressione di “scrittrice in pantofole”; ma dalla prospettiva sottosopra da cui Milena guarda il mondo, quello era il miglior complimento che si potesse fare al suo registro letterario confortevole e familiare, capace di ammorbidire tra le sue pagine anche il cuore indurito dalla peggiore delle giornatacce. L’odore di sugo fa il resto

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